Paesi Baschi e Galizia, il voto che decide il futuro spagnolo

CLAUDIO MADRICARDO
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Parlare d’indipendenza nel secolo XXI è come parlare d’immagini del passato. È impossibile che uno stato ora si possa dichiarare indipendente. Noi siamo coscienti che più di un ottanta per cento della legislazione d’ogni paese è una trasposizione delle direttive europee. Per questo noi guardiamo all’Europa quando chiediamo più sovranità. E guardiamo alla Spagna per quello che riguarda l’evoluzione economica, o quando si tratta di ricercare un rapporto di bilateralità effettiva.

Così si è espresso Iñigo Urkullu Renteria in una lunga intervista rilasciata al quotidiano El País.

Una dichiarazione destinata a lasciare il segno, sia per il peso di chi l’ha rilasciata, che ricopre la carica di attuale lehendakari, ovvero di presidente del governo della comunità autonoma dei Paesi Baschi, per la quale si ripresenta alle elezioni che si svolgeranno domenica prossima. Sia nel dibattito politico interno a livello nazionale che ancora appare incagliato sul varo di un nuovo governo.

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Iñigo Urkullu Renteria. Sopra in un comizio in vista del voto di domenica

Mariano Rajoy, il cui partito è sempre più travolto dagli scandali, ultimo in ordine di tempo quello che ha riguardato Rita Barberá e il PP valenciano, brilla per immobilità e pare ancora puntare alla mission impossible di piegare Sánchez. Ma sono in molti a sospettare che potrebbe voler invece ricorrere per la terza volta alle elezioni generali. Dato che questa volta potrebbero premiarlo, spingendo gli spagnoli, per stanchezza o esasperazione, a dargli quella maggioranza negata le ultime due volte.

Con il benefico effetto di sancire magari una sorta di ritorno al bipolarismo de facto, con un PSOE risospinto in un’area marginale di opposizione in cui continuare a darsele di santa ragione con Podemos. Pur esso ridimensionato, per la serie di errori commessi negli ultimi tempi e per le recenti vicende che hanno messo a nudo divergenze nel suo gruppo dirigente.

Prima di domenica prossima, 25 settembre, quando Galizia e Paesi Baschi andranno alle urne per il rinnovo dei propri governi autonomi, l’irreale situazione che sta vivendo in questo momento la Spagna non pare destinata ad avere fine. E non tanto per la sorpresa del risultato che ci si aspetta dalle urne, dove anzi tutti i sondaggi sono concordi nel dare la maggioranza assoluta al Partido Popular in Galizia e al Partito Nazionalista Basco.

E nemmeno perché qualcosa di eclatante possa accadere, nella continua competizione tra socialisti e Podemos, dato che il sorpasso del secondo a danno dei primi pare ormai del tutto scontato nelle due regioni chiamate al voto. Perché, se qualche conseguenza ci sarà, essa riguarderà semmai l’effetto di sgombrare il campo da turbolenze e distrazioni che le elezioni autonome hanno in qualche modo consentito. Attirando su di sé l’attenzione del mondo politico nazionale a scapito del dibattito sulla formazione del nuovo governo.

Anzi, concedendo perfino al mondo politico della capitale, a giudizio di alcuni, una provvidenziale pausa, una sorta di periodo di decantazione i cui termini stanno però ora inesorabilmente per scadere. Costringendo a decidere. E non poteva accadere altrimenti forse, dal momento che la consultazione di domenica coinvolge una formazione, il Partito Nazionalista Basco, che più di uno scenario vorrebbe coinvolgere in destini governativi.

E forse sarà un azzardo, ma è pensabile che la foto in cui Pedro Sánchez da settimane ci viene consegnato nel suo no a un nuovo governo di Mariano Rajoy fino al punto da comprimere il dibattito interno al proprio partito, debba essere a breve archiviata, mostrandoci un segretario socialista finalmente in azione. Che ha smesso di recitare all’infinito “I would prefer not to”, e che ci dice finalmente la strada da percorrere.

Susana Díaz, "La Sultana", e Pedro Sánchez disegnati da Luis Grañena (CTXT)

Susana Díaz, “La Sultana”, e Pedro Sánchez disegnati da Luis Grañena (CTXT)

I tempi sono ormai stretti, e quella da parte di Sánchez a molti è parsa una sorta di arroccamento che ha provocato malumori di qualche barone locale capeggiato questa volta non dall’andalusa Susana Díaz, in eloquente silenzio, ma dal presidente della Junta de Extremadura Guillermo Fernández Vara. Non è tanto in discussione il no a Rajoy. Nessuno ha messo in dubbio la rotondità del rifiuto, che alle Cortes non ha tradito sbavature. Quanto la prospettiva che si apre con la strada, probabile, di nuovi comizi elettorali. E quella, possibile, postulata dalla base socialista che la vedrebbe con più favore, del tentativo di collaborazione a sinistra, in qualsiasi modo essa possa trovare declinazione.

Se è vero che, come riporta un recente sondaggio di Metroscopia, la metà degli elettori socialisti non vuole facilitare un nuovo governo del PP, mentre nel luglio passato la percentuale si fermava al 35 per cento, la linea attuale del segretario generale ne esce premiata. D’altra parte non va sottaciuto che molti tra i leader territoriali del partito vedono come un vero e proprio incubo un possibile governo di coalizione in cui PSOE, Podemos e gli autonomisti possano alla fine confluire. E tra qualche giorno, archiviate le elezioni locali in Galizia e Paesi Baschi e con tutta probabilità fallito l’ennesimo tentativo di Mariano Rajoy, Pedro Sánchez potrebbe tentare lo stretto sentiero di formare un governo con Podemos e nazionalisti.

Del resto, sono settimane che Iglesias non perde occasione di pungolare il segretario socialista a sciogliere gli indugi e a darsi da fare per mettere in campo un percorso che semini accordo nello schieramento alternativo a Mariano Rajoy. Sempre più un convitato di pietra della politica spagnola, incapace perfino di esercitare la propria autorità nei confronti di Rita Barberá, che pur imputata di riciclaggio di denaro, rifiuta di lasciare il suo scranno al Senato.

Il vecchio refrain caro a Podemos, più volte riproposto da Pablo Iglesias a partire dal famoso tweet con cui settimane fa annunciava di aver avviato colloqui col collega del PSOE in vista della formazione di un nuovo governo. Smentito a stretto giro di tweet da Sánchez, che ha prontamente derubricato i colloqui avuti col collega di Podemos al rango di rutinari scambi di opinioni che ogni segretario di partito che si rispetti deve avere con i leader di qualsiasi formazione.

Un tentativo di riportare la palla al centro campo, senza farsela rubare dalle fughe in avanti di Iglesias, fatto poi per non esporsi alle critiche di chi nel suo partito, a cominciare dai Felipe González e José Luis Rodríguez Zapatero, dall’ex segretario Alfredo Pérez Rubalcaba ai molti baroni locali, gli indicano strade differenti da quelle che Podemos auspica siano percorse. Perché troppi sono, infatti, i macigni che pesano, gli ostacoli che rendono velleitario un simile tentativo a parere di molti dei dirigenti socialisti. A cominciare dalla questione delle autonomie, come l’indigeribile, al PSOE, referendum catalano.

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Iñigo Urkullu, sempre nella sua intervista al quotidiano spagnolo, tornando sulla questione delle autonomie, ha evidenziato come ci possa essere un terreno comune, almeno nel Parlamento Basco, su una proposta di legge avanzata dalla formazione di Elkarrekin Podemos che si è ispirato al Clarity Act. Una legge con la quale il Canada ha ammesso in forma chiara la possibilità che una parte del proprio territorio nazionale si separi dal resto, nel suo caso il Quebec. Purché la domanda del referendum sia chiara sull’indipendenza, senza nascondere ambiguità e doppi sensi o tentativi che sottendono la concessione di uno statuto speciale.

Ammesso, come invece sarebbe auspicabile, e non concesso, come temo sarà, che da parte dello stato centrale spagnolo ci sia in futuro una qualche apertura a questa proposta sulla quale nel prossimo parlamento basco vedremo una convergenza da parte di PNV e la versione locale di Podemos, pare sempre più non occultabile l’accumularsi di problemi che negli anni attendono soluzione. Dalla questione del referendum catalano a quella delle autonomie. Dal fantasma dell’indipendenza, finalmente archiviata dal presidente basco, la cui proposta potrebbe essere seguita da altri, fino alla necessità di mettere mano a una nuova legge elettorale che corrisponda alla fase attuale. Che ha segnato la fine del bipolarismo. E fotografi la nuova geografia politica dandole la giusta rappresentanza.

Questo è il compito che spetta in primo luogo alle forze della sinistra, se sapranno trovare un linguaggio comune che tracci il percorso di un governo anche non necessariamente di legislatura. Che attui quanto più rapidamente il suo programma imperniato sulla riforma della legge elettorale e sul rispetto delle autonomie, per consentire che nel Paese possano finalmente esprimersi quelle potenzialità tenute ora a freno da un contesto che non corrisponde più alle mutate condizioni. E alle quali difficilmente la destra potrebbe dare ascolto.

L’alternativa sono nuove elezioni, la probabile rinnovata competizione tra PSOE e Podemos per il primo posto. O meglio, per il secondo posto nel Paese, perché, in questo malaugurato caso, il primo, con il conseguente incarico di governare, potrebbe toccare senza tema al PP di un rigenerato Mariano Rajoy. La storia di questa lunga recente vicenda sta tutta lì a insegnarcelo.

Paesi Baschi e Galizia, il voto che decide il futuro spagnolo ultima modifica: 2016-09-22T10:29:21+02:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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