Montenegro. Se i russi lavorano all’americana

GIUSEPPE ZACCARIA
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Dopo vent’anni di potere ininterrotto per qualsiasi leader politico arriva il momento di farsi da parte, e per Milo Đukanović, padre-padrone del Montenegro questo momento è giunto domenica scorsa: il suo partito socialista ha ottenuto 41 seggi in un Parlamento di ottanta, le opposizioni 39 anche se ieri hanno dichiarato compatte di “non riconoscere” i risultati, e per la piccola repubblica adriatica si apre una fase particolarmente concitata, poiché osservatori e analisti concordano su un punto: Milo Đukanović, unico leader sopravvissuto e guerre e cambi di regime, ha vinto le elezioni, sia pure per un soffio, ma ha già perso il potere.

Prima che questo si concreti in vere e proprie dimissioni ci vorrà tempo, è ovvio, ma intanto Podgorica continuerà ad essere attraversata da cortei di protesta che chiedono democrazia, metà del Paese rimane contraria all’ingresso nella Nato e chiede un referendum, su tutti i muri delle principali città appaiono manifestini che dicono: “Milo, sei finito”. Ma questa combinazione di eventi e di trame, non vi ricorda qualcosa?

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I seggi del Dps e dei suoi tre piccoli alleati nel nuovo parlamento montenegrino

Facciamo un salto indietro di sedici anni: il 5 ottobre del 2000 a Belgrado Slobodan Milošević (che in quel momento era anche presidente del Montenegro, dato che esisteva ancora la “piccola Jugoslavia”) fu defenestrato da quello che sembrava essere un movimento di popolo, qualche mese dopo sarebbe stato arrestato per poi finire i suoi giorni nel carcere dell’Aja. Erano gli anni delle “rivoluzioni colorate” ma a quella di Belgrado non si riuscì ad attribuire una tinta, anche perché poco dopo cominciarono a filtrare informazioni che dimostravano come la “rivolta democratica” condotta con cortei di trattori era stata finanziata con tre milioni di dollari da varie organizzazioni statunitensi e accuratamente preparata da attivisti di Otpor! istruiti a Vienna e da una serie di organizzazioni non governative.

Il piano, molto ben realizzato, ebbe un solo punto debole: tutte le città jugoslave erano state tappezzate di adesivi che dicevano “Gotov je” (è finito), e a nessuno sfuggì il fatto che soltanto per produrli in così grande quantità c’erano voluti fondi che nessuno possedeva in un Paese devastato solo un anno prima dai bombardamenti della Nato.

Soprattutto, tornò alla ribalta l’ideatore di questa strategia, l’uomo che aveva scritto la Bibbia delle “rivoluzioni democratiche” provocate con grandi flussi di danaro: il professor Gene Sharp, docente di Scienze politiche all’ Università del Massachusetts, che nel 1993 sulla base della sua esperienza in Estremo Oriente, in particolare a Burma, aveva scritto un saggio che presto si era trasformato in manuale, intitolato Dalla dittatura alla democrazia”. Il libro partiva da un assunto evidente: tutta la forza militare degli Stati Uniti d’America nel secondo dopoguerra non era valsa a ottenere cambiamenti di governo in numerosi Paesi del mondo.

La soluzione, scriveva Sharp, consisteva nel provocare moti di popolo che dall’esterno potessero apparire come “democratici” ma in realtà erano sostenuti da finanziamenti a pioggia e da un accurato addestramento degli attivisti, il professore elencava 54 diverse “tattiche di protesta e persuasione”, 41 metodi di “intervento non violento” e 103 “tecniche di non cooperazione”. Il saggio insomma si era trasformato in manuale ed in Serbia fu applicato con successo riuscendo dove i bombardamenti Nato non avevano potuto. Più avanti ebbe minore successo in Georgia e Ucraina, anche se due anni fa sarebbe stato riproposto in forma più cruda con le sparatorie di piazza Maidan.

Ma perché propinarvi adesso una storia di sedici anni fa? Perché nell’opinione di molti la “tecnica Sharp” oggi viene applicata in Montenegro da un attore diverso, ovvero quella Russia a cui il “tradimento” degli storici nipotini che entrano nell’Alleanza Atlantica non è mai andato giù. Stesse tecniche, stesso genere di proteste e stesso obiettivo, quello di far cadere un governo pseudodemocratico attraverso opposizioni altrettanto pseudo.

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Ai tempi di Milosevic, l’ opposizione di Otpor! (che vuol dire resistenza) resistette anche grande all’aiuto di bande di teppisti, soprattutto le cosiddette tifoserie organizzate di Stella Rossa e Partizan: dai tempi di Arkan in poi, nei Balcani tutti hanno capito quanto possono essere pericolose (ed efficaci) orde di hooligan addestrate alla violenza. Qualcuno sta notando i medesimi segnali nel Montenegro di oggi, e disegna trame criminali ancora oscure che si starebbero muovendo per scatenare la piazza.

Siamo ancora al livello di impressioni, beninteso, ma per così dire, si tratta di emozioni forti. Non a caso il rappresentante dell’ Unione europea a Belgrado dice di stare “monitorando le attività di penetrazione russe nei Balcani”. Non a caso, proprio il giorno delle elezioni il governo di Podgorica ha fatto arrestare una ventina di cittadini serbi considerati “agitatori”, che però non si ritiene siano manovrati da Belgrado. Nella società familiare del Montenegro le alleanze si stanno rimescolando.

Adesso non resta che aspettare il ribaltone: al momento, il solo volto presentabile dell’opposizione è quello di Miodrag Lekić, ex ambasciatore di Jugoslavia a Roma e oggi docente alla Luiss, ma questo si vedrà. Per il momento si può aggiungere soltanto una cosa: il saggio del professor Sharp è stato tradotto il 133 lingue di tutto il mondo. Anche quella russa.

 

Montenegro. Se i russi lavorano all’americana ultima modifica: 2016-10-18T19:52:28+02:00 da GIUSEPPE ZACCARIA
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