“È stato il bisnonno Augusto, allora diciottenne, a dare inizio a tutto, quando nella Venezia del 1880 decise di andare a bottega in falegnameria. Lì apprese il mestiere e lavorò finché, agli inizi del ‘900, si mise in proprio aprendo una sua attività. Qui vicino, in Campiello delle Stroppe. Trasferendosi poi a Ca’ Foscari, dove la falegnameria rimase fino al 1938, quando ci fu l’apertura del Rio Novo”.
Parla lentamente Carlo Capovilla, l’ultimo discendente di una lunga teoria di falegnami che dal bisnonno Augusto, passando per il nonno Carlo e il padre Gianni hanno fatto un po’ la storia della cultura materiale di questa città. Lavorando il legno. E mentre parla, seduto alla sua scrivania su cui campeggiano modellini di prototipi realizzati nel tempo dalla bottega, quasi un Bignami della sua storia più che centenaria, ne accarezza profili e forme.
Indugiando con la mano su un particolare spigolo. O indicando con misurato orgoglio la particolarità della forma. E come un maestro paziente che deve spiegare a un bambino, ti dà ragione della scelta costruttiva, operata in rapporto allo spazio e alla funzione.
Già, lo spazio e la sua funzione. Sembrerebbe forse un problema tutto sommato secondario per un artigiano falegname. Ma è una costante nel ragionamento di Carlo, alla soglia dei sessant’anni, e di formazione, guarda caso, architetto.
“Nel ’38, dopo lo scavo del Rio Novo, era diventato sempre più difficile fare il carico e scarico della merce della bottega. Bisnonno, nonno e papà, allora ancora piccolo, scartata l’idea di andare in terraferma, scelsero questo posto, dove nello stesso anno venne eretto l’edificio per far vivere la falegnameria”.
Nasceva la Augusto Capovilla Serramenti Arredamenti Restauri che ancora opera in un edificio a mattoni vivi a San Simeon Grando, a due passi da Campo Nazario Sauro a Santa Croce. Che quasi sfuggirebbe all’occhio del passante se non fosse per la targa che campeggia sopra il portone d’ingresso. Uno stabile severo e dall’aria vagamente militare. O forse semplicemente il prodotto dell’influenza del razionalismo in architettura, che imperversava nello scorcio di quegli anni. Addolcito, al suo interno, dalla sorpresa della vista che spazia su un giardino che deve essere stato, un tempo, il brolo, il frutteto, di Palazzetto Bru Zane.
“Papà raccontava che una delle cose più belle che come falegnameria abbiamo fatto è stato il restauro di Palazzo Labia, sede della Rai dal 1964. Allora il palazzo era di proprietà di Carlos de Beistegui. Che nel settembre del 1951 organizzò una tra le più belle feste del secolo, con Orson Welles, i Duchi di Windsor, Salvador Dalí, Churchill e tanti altri. Abbiamo fatto il restauro completo”.
Quando dice completo, Carlo intende porte, finestre, armadi e ogni altra realizzazione che avesse a che fare col legno. Un rapporto che per qualche tempo è in seguito continuato per la Rai. Ma, come succede in questi casi e com’è anche avvenuto con le Assicurazioni Generali per le quali la ditta ha spesso lavorato nelle Procuratie in Piazza San Marco, una volta che il centro decisionale dei lavori della grande committenza si sposta da Venezia, prendono poi il volo anche le commesse.
Confermando, se mai ce ne fosse ancor bisogno, che l’esodo delle attività preminenti dalla città, de jure o de facto, non solo ha negli anni provocato un depauperamento delle sue attività economiche sospingendola verso la monocultura turistica, ma si è anche direttamente ripercossa sull’alto artigianato cittadino, decretandone spesso la crisi se non la morte.
“Carlo Scarpa era amico personale di mio nonno, e i nostri rapporti con lui si devono, oltre al fatto che vivesse in fondamenta in Rio Marin, anche alla comune meticolosa attenzione al particolare e al lavorare bene. E fino a che non si è trasferito ad Asolo, i lavori fatti per lui sono stati molti. Siamo intervenuti a Casa Balboni, alle Gallerie dell’Accademia, a Ca’ Pesaro e in altri appartamenti privati. Abbiamo fatto allestimenti alla Biennale. Poi, da una quindicina d’anni a questa parte, si è cominciato a restaurare Carlo Scarpa. E abbiamo avuto tutta una serie di meravigliose occasioni per intervenire sul ponte della Querini, alla biglietteria e nel Padiglione del Venezuela ai Giardini della Biennale e al negozio Olivetti. Tra un po’ inizieremo i restauri di Casa Balboni a Venezia, mentre abbiamo in corso l’interessantissimo restauro della Tomba Brion a S. Vito di Altivole”.
Ma Scarpa, Carlo Capovilla non l’ha mai conosciuto, solo intravisto. “Nel ’76 mi sono iscritto all’università. Scarpa allora aveva già orientato la sua attività fuori Venezia e non intratteneva quasi più rapporti con lo IUAV.” All’inizio Capovilla sceglie quindi il percorso di studi di architettura, deciso a intraprendere la professione. “Ti confesso che all’inizio non avevo alcuna intenzione di lavorare nella falegnameria di famiglia. E per dieci anni ho svolto attività professionale in città e nello studio di Vittorio Gregotti, qui a Venezia. Poi pian piano ho cominciato a venire in bottega, a seguire direttamente l’attività della ditta, sino a ridurre l’attività professionale per dirigere con sempre maggior impegno la falegnameria, in stretta e proficua collaborazione con mio cognato Luigi Pruneri ”. Vivendo i profondi cambiamenti che la città ha subito in questi anni.
“Dal 1992 ad oggi potrei dire che la committenza ha cambiato lingua. Una volta non avevamo che poca committenza foresta. Mentre adesso i committenti non veneziani sono molti , anche se in misura non ancora predominante. Probabilmente è solo questione di poco tempo, lo diventeranno tra qualche mese”. Lo dice ridendo, Carlo Capovilla, ma il suo riso vuol dire tutto il contrario.
Nel mentre racconta, accarezza dei pezzi lavorati presi da una sorta di vetrina, una specie di museo o di catalogo di cornici sagomate e pezzi particolari realizzati negli anni dalla ditta, solo una piccola parte, mi dice. E me li mostra, raccontandomi di come anche il lavoro sia cambiato negli anni. Mi mostra un pezzo di cornice costruito grazie all’utilizzo di uno strumento fatto di coltelli speciali. Che ora, per le norme di sicurezza, è impossibile usare.
“Questo lavoro qui possiamo farlo anche oggi, ma dobbiamo farci costruire una fresa, e questo è fattibile solo quando l’ordine è di una certa entità. Avendo comunque sempre lavorato a Venezia, dove è possibile toccare con mano pezzi di una bellezza incredibile, abbiamo ancora la sensibilità per disegnare e realizzare queste frese con il sapore di una volta. Chi ha avuto questa fortuna può ancora capire al solo tatto la differenza tra questa cornice che ti mostro e una fatta al pantografo. Anche se in generale, un po’ è cambiato il gusto ma soprattutto sono cambiate le richieste, un po’ più al ribasso, perché oggi una grande differenza è fatta dal costo”.
E non ai soli costi può a suo parere essere imputato il declino, ma anche alla mancanza di una cultura che sappia distinguere sottilmente la grande bellezza da una sua brutta imitazione. “La responsabilità di questa situazione è un po’ di tutti. Le richieste della committenza e i suoi riferimenti culturali, la preparazione dei progettisti e la loro sensibilità, hanno determinato un grande cambiamento al quale ci siamo adeguati. Perfino il legno è cambiato. Una volta, anche il bosco veniva curato diversamente. Gli alberi fatti crescere, tagliati e stagionati con esperienza secolare e non come oggi con l’idea di una coltivazione intensiva. Anche lì c’era una cultura che oggi si è un po’ persa. Oggi anche questo è cambiato”.
Camminando con Carlo per gli ampi locali della falegnameria dopo la fine dell’orario di lavoro sembra che tutto si sia improvvisamente fermato. Che tutto sia stato come precipitosamente abbandonato e consegnato a una fissità in cui la mia mente mi fa impercettibilmente intuire un carattere di provvisorietà. È come se mi aspettassi, e all’improvviso, che i tanti lavorati, posti sui banchi antichi della bottega, cadessero con grande baccano. O si animassero.
Mettendo finalmente fine a quello che sento essere un incomprensibile e un po’ soffocante stato di sospensione. Perché sono tanti gli oggetti che parlano al mio passaggio, tanto da risultarmi difficile capire che, oltre a quello della parola, non abbiano anche il dono del movimento. Dai banconi di lavoro ingombri di oggetti, ai morsetti verdi ben schierati in bella vista, alle doghe in larice del Padiglione sull’acqua della Tomba Brion.
Quello nuovo in lavorazione, e quello vecchio, annerito dalla patina del tempo e dagli elementi, in restauro, e che si appoggia, gracile e incerto, a una parete. Al prototipo di tavolo a scomparsa, progetto di un cliente dalle esigenze di certo particolari, che fa bella vista di sé supino sul proprio bancone. Con le scheletriche gambe sospese e immobili in aria, come fosse una sorta di grande insetto kafkiano.
Non mi è difficile immaginare la scena di quando a lavorarci sono intenti i cinque operai, un paio vicini ormai alla pensione, e gli altri ancor giovani a imparare il mestiere. Spesso intenti a “robar co l’ocio”, come si dice nelle botteghe, dove il vecchio ed esperto sovente è restio a consegnare i segreti del proprio mestiere perfino al collega apprendista. Un gioco di specchi operoso e paziente. Un dire e non dire. Anche nel timore, forse comprensibile, che dicendo quel tanto di più se ne vada perduta la supremazia che solo ti può dare la maggiore conoscenza. E con essa, compromessi irrimediabilmente ruolo e propria utilità. Sullo sfondo del brolo, quasi una scena teatrale romantica, il cui verde intenso è visibile dalle ampie finestre che catapultano i tuoi occhi in un giardino fatato, come incantati appaiono sempre i tanti giardini interni a Venezia, come già ci ha insegnato Henry James.
“A parte i giovani, i due falegnami che andranno in pensione tra qualche anno sono in bottega da tanto tempo. Pure io devo decidere cosa fare quando sarà il momento”. Lo dice con un fondo di amarezza Capovilla, e con molta ritrosia, lasciando immaginare un esito che non gli fa piacere. “Anche se c’è un interesse da parte dei giovani per questa professione. Ce n’è più di qualcuno che mi viene a chiedere lavoro. Ma con i tempi che corrono, è difficile contare di avere delle commissioni certe e continuative per poter assumere degli apprendisti. A breve comunque ne assumerò uno, anche se mi piacerebbe poterne avere di più. Pur essendo Venezia un luogo con ancora molti edifici pubblici e privati da restaurare, il lavoro talvolta è mancato in questi ultimi sette otto anni. Poi c’è anche la questione del futuro di questa città, per il quale purtroppo sono molto pessimista. Mi pare che siano molto pochi, tra quelli che hanno responsabilità pubbliche e chi vi abita, che voglia fare realmente qualcosa perchè in questa città risiedano degli autentici cittadini proccupati della sorte della propria città”.
E descrive, con un vibrare di tensione nella voce, una situazione che gli appare compromessa, che non può permettere ormai un cambio di rotta. “Non puoi immaginare con quanto dolore sono arrivato a questa conclusione. Che è sotto gli occhi di tutti e di cui sono responsabili in primo luogo i veneziani. Abbiamo venduto una storia. Una memoria. Vorrei quasi dire che abbiamo venduto una civiltà. E continuiamo a venderla. Se qualcuno potesse fare qualcosa, dovrebbe innanzitutto limitare il numero delle persone che vengono in città. E parallelamente sviluppare un po’ di residenzialità e di lavoro alternativo all’economia turistica”.
Già, le parole magiche fatte di buon senso che ciascuno di noi ha ormai appreso col latte materno in questa città. Con cui ci siamo e ci hanno trastullato per decenni, mentre giorno per giorno, anno dopo anno abbiamo assistito, forse a volte distratti ma più spesso impotenti, a un destino che nessuno di noi avrebbe osato augurare al suo peggior nemico. Figuriamoci alla città in cui in sempre meno ci troviamo a vivere.
Le fotografie sono di Claudio Madricardo
Il video è di Nicolò Busetto

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