“Sono i colpi del destino che battono alla nostra porta”. Così definì le prime quattro famosissime note della Quinta di Beethoven un letterato tedesco contemporaneo del grande musicista di Bonn. E non si può non pensare ai colpi del destino che negli ultimi mesi hanno violentato l’Italia centrale, alle scosse che dal profondo della terra sono emerse con la loro primordiale forza bruta uccidendo, distruggendo, mutilando parte della nostra bellezza. Di quella grande bellezza italiana che si articola anche, o soprattutto, nei mille borghi ancor oggi testimoni muti dei nostri tempi migliori, dell’arte del Rinascimento e ancor prima della nascita della lingua del nostro Paese, primo collante identitario di quella Patria che Dante immensamente amava, pur chiamandola “…serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello…”
Come negli incendi del Teatro Petruzzelli di Bari e della Fenice di Venezia, come nei giorni di lutto per la morte di grandi direttori d’orchestra italiani come Claudio Abbado, di registi come Federico Fellini, di attori come Giorgio Albertazzi, di scrittori come Alberto Moravia, noi italiani ci riuniamo per colmare un vuoto che sentiamo intollerabile, ritrovando un comune sentire.
Riscopriamo la nostra unità, il nostro essere tutt’uno con quella nostra terra che le terribili vibrazioni (che sembrano quasi generate dalla preistoria di un segreto incubo collettivo) vogliono distruggere. Riscopriamo la bellezza dei campanili, i più fragili e i primi a cadere sotto l’urto dei terremoti, ritroviamo con angoscia e nostalgia tutti i segni di un patrimonio comune di armonia che in pochi secondi è stato gravemente danneggiato.
Successe così dopo la guerra. In misura terribilmente più grande. Ma anche allora, a Milano, il pensiero andò subito alla ricostruzione della Scala, gravemente danneggiata dai bombardamenti anglo-americani e nuovamente inaugurata, pochi anni dopo, con uno storico concerto diretto da Arturo Toscanini. E accadde così ancora molte volte, purtroppo, dal Polesine alla tragedia del Vajont, nel 1963, all’alluvione di Firenze, proprio cinquant’anni or sono. Gli italiani ritrovano la loro Patria nei momenti di estrema crisi e difficoltà, quando riescono a ritrovare il legame che li unisce, l’uno con l’altro, attraverso i vincoli di sangue che hanno con la loro terra.
C’è una notizia che ci ha colpito in queste due giornate successive all’ultimo sisma. La presa in custodia e la messa in sicurezza a Bologna, da parte di alcuni volontari ed esperti, di un manoscritto di Giacomo Leopardi, ceduto nell’800 dal comune di Recanati a quello di Visso, un borgo vicino all’epicentro del terremoto.
È il manoscritto de “L’Infinito”, forse la più famosa e più struggente poesia scritta dal poeta quando aveva solo 19 anni. Una decisione tendente a salvaguardare un prezioso manoscritto ma che, se letta in filigrana, svela qualcosa di più profondo. Mettere in salvo “L’Infinito” è un gesto d’amore per la bellezza e la “fragilità” della poesia, intesa come subliminale quintessenza della nostra identità di italiani.
La poesia, come l’Opera lirica, come gli affreschi del Masaccio o di Piero della Francesca, sono tratti di un’identità comune che non ha pari, forse, al mondo. Da oggi in poi rileggeremo la poesia del conte Giacomo Leopardi con maggiore partecipazione emotiva (se mai sarà possibile) e con più empatia per quel giovane, infelice poeta di Recanati che ci ha svelato, con la bellezza dei suoi versi, come sia in fondo un privilegio il sentirsi italiani.

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