Quel venerdì si ruppero le regole dettate dalla natura, e dire che l’acqua sei ore cala e sei ore cresce non aveva, il 4 novembre del 1966, alcun senso.
A raccontarmi la storia dell’alluvione di Venezia, a distanza di cinquant’anni, è Leopoldo Pietragnoli, decano dei cronisti veneziani ed esperto di storia e di maree. Giornalista per professione e passione, curioso un po’ di tutto, si definisce nel suo profilo Twitter. E ad ascoltarlo si capisce che quella descrizione che ha scritto di sé è perfetta: il suo racconto è puntuale fino al particolare; la precisione quasi maniacale; il gusto per il dettaglio dominante. A sentirlo mi sovvengono, con dovizie di particolari, i miei ricordi di quel giorno. Allora abitavo a Venezia, nella popolare zona dell’Angelo Raffaele.
Ci tiene immediatamente, Leopoldo, a precisare che è sbagliato parlare di alluvione di Venezia – tecnicamente, si dovrebbe parlare di mareggiata – se non la s’inquadra in un contesto ben preciso e più ampio.
Quell’evento meteorologico – mi spiega – fu un dramma non solo per Venezia, ma per tutto il Triveneto, a causa delle rotte e delle esondazioni di tutti i corsi d’acqua. Basti pensare che vi furono 87 vittime nel Triveneto, delle quali 26 nella provincia di Belluno, 18 in Friuli e 32 in Trentino Alto Adige e che la viabilità in tutto il bellunese fu pesantemente sconvolta dal crollo di 334 ponti, mentre altri 194 furono danneggiati; 300 mila furono gli ettari allagati e oltre 42 mila gli sfollati, parecchi dei quali rientrarono a casa solo nel febbraio dell’anno dopo.
Una tragedia immane che non trova riscontro nella copertura mediatica di allora: Leopoldo ricorda che ad ascoltare la televisione e la radio si sentiva solo parlare del dramma di Firenze, che ebbe 35 vittime, mentre per Venezia i notiziari si fermavano ad un laconico “acqua alta in Piazza San Marco”.

Per gentile concessione di Vittorino Boaga – Venezia
In quel periodo – mi racconta – ero a Pordenone, dove sostituivo un collega alla redazione locale de “Il Gazzettino”. Quando sentii le notizie alla radio, provai a telefonare al giornale, e quindi ai miei genitori, a Venezia, per chiedere qualche informazione; poi provai con alcuni amici, e al Comune. Nulla: tutti i telefoni erano muti. Capii che qualcosa non andava, che quella notizia dell’acqua alta a San Marco, che per un veneziano è una assoluta ovvietà, nascondeva ben altro….
Leopoldo tornerà in città il giorno dopo, quando l’acqua è già calata, e solo allora capirà la gravità dell’evento che ha colpito Venezia.
C’era immondizia dappertutto – mi racconta – mucchi di carte, derrate alimentari, materassi, mobili, interi negozi svuotati della merce, case al pianterreno non più abitabili, mancava la corrente, i telefoni non funzionavano e ovunque si percepiva la disperazione. Capii allora che quel messaggio che i media diffondevano era assolutamente inadeguato.

La conversazione tra Leopoldo Pietragnoli, a sinistra, e Enzo Bon
Pietragnoli ha studiato meticolosamente, nel corso della sua lunga carriera, quanto successe davvero quel venerdì 4 novembre 1966 a Venezia. Gli chiedo di raccontarmelo per capire quello che corrisponde ai miei ricordi, e quello che invece si è perso nella memoria di ragazzino.
Quel giorno furono sconvolte le regole della natura, poiché per ben qindici ore l’acqua crebbe continuamente, non obbedendo più a quel postulato, che tutti i veneziani conoscono, che la marea sei ore cala e sei ore cresce.
Leopoldo mi racconta che già dal tramonto di giovedì 3 novembre, mentre pioveva a dirotto da oltre 24 ore e lo scirocco schiaffeggiava la laguna a più di settanta chilometri all’ora, si potevano cogliere le prime avvisaglie della tragedia che sarebbe successa all’indomani.
La marea – mi spiega – avrebbe dovuto essere sotto lo zero alle ore 21 di quella sera ma, a causa delle condizioni meteorologiche, aveva già superato il metro, arrivando verso l’una di notte a un metro e 27.
Una misura che vede la città allagata per i due terzi. Ma i veneziani da sempre convivono con questo fenomeno e solitamente non si preoccupano più di tanto. Quella sera però era diverso: il timore già serpeggiava tra i pescatori e i più esperti. Qualcosa non stava andando come al solito perché la marea, all’alba di venerdì 4 novembre, era scesa di appena dieci centimetri, mentre il mare Adriatico era in burrasca, con lo scirocco a ottanta chilometri orari. E quando soffia lo scirocco, che arriva da sud-est e si trova proprio l’Adriatico davanti, tutto questo mare diventa un corridoio, una sorta di galleria del vento, dove al termine c’è la laguna di Venezia, in cui le acque si insaccano, si comprimono non trovando sfogo, muggiscono, si gonfiano.
Dall’alba infatti – continua Pietragnoli – l’andamento della marea divenne parossistico: alle ore 12.30 la marea doveva scendere: era a quota 1,50. Invece continuò a salire fino a raggiungere, alle ore 14.10, la quota mai raggiunta di un metro e 74 centimetri. Qui si fermò, senza calare, fino alle ore 17.30 per poi riprendere a salire per lunghe angoscianti ore.
Seguo il suo racconto, dettagliatissimo, con un groppo alla gola: ricordo perfettamente quei momenti. Allora avevo unidici anni e l’acqua alta era per me un momento di gioia: ci si metteva gli stivali, si andava lungo la fondamenta dell’Arzere, dove abitavo, e dove trovavo gli amici. Ma quel giorno era diverso. Mia madre mi impedì di uscire, capivo che stava succedendo qualcosa anche perché, poco prima di mezzogiorno di quel giorno di vacanza, disse al mio amico Andrea, che era da noi forse per fare assieme i compiti, di tornare immediatamente a casa sua. Mio padre era smanioso: guardava continuamente il rio delle Terese, dove avevamo ormeggiata una piccola barca. Mio nonno, che aveva fatto per tutta la vita il pescatore ed era un profondo conoscitore della laguna, non si staccava dalla finestra della camera. Valutava la marea guardando il senso di marcia delle spazzature che galleggiavano nel rio e tornava di tanto in tanto in cucina scuotendo la testa. Ricordo il silenzio di quei momenti.

Per gentile concessione di Vittorino Boaga – Venezia
Leopoldo usa i termini “ansia” e “angoscia” per spiegare quello che i veneziani provano in quelle drammatiche ore: manca l’energia elettrica; i telefoni non funzionano; chi ascolta le poche radio a transistor di allora continua a sentire il messaggio che c’è acqua alta a San Marco; la marea continua inesorabile la sua crescita e tutti si preparano al peggio, ad altre sei ore di attesa e, a questo punto, di vera paura. Mi racconta di aver saputo, più avanti, che qualche pescatore della Giudecca particolarmente esperto, guardando il tipo di onde che arrivavano in Bacino di San Marco e nel Canale della Giudecca capisce, Iddio sa da cosa, che non ci sono più difese a mare, che la diga dello Zendrini, che da secoli difende Venezia dalle mareggiate, ha ceduto o sta per cedere e che Pellestrina e San Pietro in Volta sono in pericolo. “S’ha toca’ el mare co la laguna”, diranno i pellestrinotti per ricordare quei momenti. Ma anche Venezia è in grave pericolo.

Per gentile concessione di Vittorino Boaga – Venezia
Vedo mio padre che s’infila gli stivali a cosciale, che sono inutili perché l’acqua arriva e supera l’ombelico. Ricordo perfettamente le scale di casa, i cui primi cinque gradini sono ormai sott’acqua, e lo sciabordio dei passi di papà che scende. Camminando come un astronauta, che perde l’equilibrio ad ogni passo, raggiunge la piccola barca, al di là del ponte delle Terese. Ormai i pali non la tengono più legata perché la marea è troppo alta. Fatica a montarci dentro, forse cade in acqua, poi finalmente ci riesce. Con un remo di fortuna spinge la barca dalla parte opposta del rio, risale il curvone dove inizia fondamenta dell’Arzere ed entra in Corte Mazor, dove c’è la porta di casa. Lega la barca sotto alla finestra della cucina, a un’inferriata dell’osteria da Pio, che è al piano terra di casa mia, e getta a mio nonno, che è affacciato al balcone, un’altra corda.
Non è più divertente: ho paura. Mi accorgo che mamma, nonna e zia Gigia piangono; forse anche pregano. Quando risale in casa, papà è fradicio e non so se il suo viso sia bagnato da lacrime o da pioggia: non ho mai visto mio padre piangere!

Per gentile concessione di Vittorino Boaga – Venezia
Leopoldo prosegue il suo racconto.
Il vento di scirocco aveva reso la temperatura a Venezia quasi estiva; faceva molto caldo, si sudava, forse anche dalla tensione. La marea crebbe fino alle ore 21, toccando il record storico di 1 metro e 94 centimetri e avrebbe dovuto, secondo i ritmi naturali, continuare a crescere ancora. Tutti stavano aspettando il peggio, e quella notte nessuno avrebbe dormito. Ma invece, improvvisamente, con una nuova e ultima contraddizione, l’acqua scese a picco, velocemente, come un fiume che si ritira repentino dei terreni invasi. La temperatura si abbassò in pochi minuti di oltre quindici gradi. Venezia non aveva mai subito una marea così alta , né durata così a lungo: un assedio di ventiquattr’ore con oltre quindici ore di permanenza oltre il metro e venti centimetri.
Ricordo come se fosse ieri mia mamma che mi abbraccia, mentre nonna e zia pregano ringraziando la Madonna per quello che a Venezia molti pensano sia stato un miracolo. Mio papà riporta la barca al suo ormeggio. Le strade sono invase da ogni tipo di rifiuti. Non c’è elettricità: abbiamo solo una candela trovata in chissà quale cassetto per far luce. Mio nonno prende un bicchiere, lo riempie a metà di olio, vi immerge un pezzo di spago alla cui sommità ci infila un filo di ferro per tenerlo rigido e accende questa improvvisata lampada. Ricordo la luce, calda e strana, e soprattutto l’odore, quasi di fritto. Mio padre, che a quel tempo faceva il pescivendolo, deve andare a vedere cosa è successo al frigorifero industriale dove tiene il pesce. Gli chiedo se posso accompagnarlo. Mi dice di si. La paura è passata: ora subentra l’eccitazione per quella che mi sembra diventare un’avventura. È notte. Per strada, lungo Calle lunga San Barnaba e alla Toletta incontriamo molti veneziani che scendono in strada, con candele o pile, per vedere cosa è successo, per raccontare quello che hanno vissuto, per esorcizzare la paura. Sembra una processione di fantasmi. Quando arriviamo al magazzino dove c’è il frigorifero della pescheria, sentiamo un olezzo di nafta e pesce marcio. Apriamo la grande porta di legno e siamo investiti da un vomito di acqua putrida e pesce. È tutto da buttare. Ricordo papà che mi guarda triste e mi dice che dentro c’erano oltre centomila lire di merce. Non riuscirà a riprendersi dalla perdita e, dopo qualche mese, chiuderà per fallimento la pescheria e tornerà a fare il suo originario lavoro di panettiere.

Per gentile concessione di Vittorino Boaga – Venezia
Leopoldo, con l’esattezza di un ragioniere mi fa la conta dei danni.
I sedicimila abitanti dei seimila pianiterra persero ogni avere e si dovettero ricoverare oltre mille persone; oltre settemila tra negozi, esercizi pubblici, botteghe artigiane, officine, magazzini furono invasi dall’acqua e persero merci e macchinari; quattromila tonnellate di rifiuti furono ammassate in strada e lo sgombro delle stesse richiese un grande sforzo che durò per nove giorni; libri e documenti nelle biblioteche e negli archivi andarono perduti; centinaia di vasche di nafta si ruppero e un segno nero marcò a lungo i muri. Per ripristinare l’energia elettrica e la rete telefonica occorsero sette giorni. Globalmente, i danni furono valutati in quaranta miliardi di lire.
Da buon giornalista preferisce, per darmi un’idea della cifra, ricordarmi che un quotidiano, allora, costava cinquanta lire.
Gli chiedo cosa succederebbe se questo evento si ripetesse adesso. Apre la sua borsa e mi mostra un libro edito nel 1996 dal Comune di Venezia. S’intitola “Definizione dei rischi derivanti dalle acque alte per l’abitato di Venezia. Stato attuale di organizzazione della città”. Tabelle alla mano, mi spiega che la situazione è migliorata di molto in quanto vi sono stati numerosi interventi di manutenzione e la Legge speciale per Venezia ha dato, negli anni, i suoi frutti. Cita i murazzi di Pellestrina, totalmente rifatti, il cambio da nafta a gas metano per il riscaldamento delle abitazioni, la ristrutturazione delle cabine di distribuzione dell’elettricità e del telefono, la riorganizzazione dei sottoservizi, l’adeguamento delle attività commerciali, il sistema di segnalazione delle maree ecc.
Il 4 novembre 1966 – puntualizza – rappresenta quello che definisco un “gomito storico” tra la Venezia del prima e la Venezia del dopo. Allora tutti s’accorsero che la città è un patrimonio unico ma fragile sotto il profilo fisico, che abbisogna di una continua attenzione Ma da allora iniziò anche lo spopolamento degli abitanti, che preferirono la terraferma con le case più comode e l’automobile sotto casa al posto della barca. E sempre da allora iniziò quel refrain “Venezia muore” che, visto sotto un’altra ottica, equivale a dire “sbrigati a vederla prima che sia troppo tardi”. Forse quello fu l’inizio del fenomeno del turismo di massa che vediamo adesso e dei gravi problemi che genera.

Pordenone, 4 novembre 1966
Termino la chiacchierata con una domanda che covo dall’inizio, sapendo che Leopoldo ha studiato molto la questione: cosa ne pensa del Mose.
Ne parla senza problemi, dicendo che il sistema ha un vizio originale.
Se si conosce bene la storia del Mose, salta immediatamente agli occhi il fatto che tutta l’opera nasce senza un progetto unitario e definitivo che abbia superato il vaglio di un organismo di vigilanza, e l’unica valutazione di impatto ambientale, seppur cassata dal punto di vista giuridico, è stata comunque negativa. Man mano che l’opera veniva costruita ha dimostrato varie fragilità: una per tutte le cerniere. Vi sono stati e vi sono continui ritardi nella costruzione e ancora non siamo certi di quando sarà operativo. Inoltre, le prove fatte, al momento, non sono esaltanti seppur eseguite tutte con mare forza zero. Non sappiamo quanto costerà la manutenzione e la gestione e soprattutto dove si troveranno i soldi. E poi si dovrà per forza trovare un punto di accordo con l’Autorità portuale, che tra Comune, Città Metropolitana, Magistrato alle Acque e quanti si candideranno per la sua gestione, rappresenta di fatto il convitato di pietra per gli evidenti interessi che porta rispetto alla circolazione delle navi.
Mi viene spontaneo chiedergli se secondo lui funzionerà. Sorride, e mentre si alza e mi saluta mi risponde, da credente: “Affidiamoci al Signore”.

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3 commenti
Bellissima intervista chiara veritiera e anche attuale visto le vicende del mise , io a quei tempi abitavo a venezia e L’ ho vissuta di persona avendo 20 anni, anch’ io dico affidiamoci al signore viste le condizioni atomosferiche cambiate in peggio per le nostre zone, grazie comunque è mi farebbe piacere avere sempre sue notizie.
L’intervista e la narrazione sono estremamente efficaci. Io il 4 Novembre 1966 mi trovavo ad Indianapolis e compresi, anche se non totalmente, la gravità della situazione dopo che riuscii a connettermi con mia madre Maria Luisa. Il cronista di Indianapolis mi dedicò un paginone con il titolo “Doctor happy to know is family is safe”. Diventai celebre ad Indianapolis per qualche giorno. Ottime e bel calibrate le informazioni di Leopoldo Pietragnoli, che era ai Cavanis con me, una classe indietro.
Sono da ringraziare da parte di tutti, veneziani e non, Leopoldo Pietragnoli, Enzo Bon e Ytali per questo pezzo di verità che ci hanno regalato. I cinquant’anni sono una giusta dimensione del tempo che serve per capire e per far capire, ad esempio, la differenza tra un’alluvione, in genere provocata da piogge intense e prolungate e da fiumi e reti idrauliche che esondano, e una mareggiata eccezionale come quella che ha colpito la laguna il 4 novembre 1966 in contemporanea con le alluvioni della terraferma, del Triveneto, di Firenze, di Genova. In coda propongo una riflessione: ha fatto più danni (diretti e indiretti, finanziari, sociali ed economici) l’Aqua Granda e le acque alte degli ultimi cinquant’anni o la vicenda (non ancora conclusa) del MOSE?