Firenze, 4 novembre 1966. L’alluvione, i libri, allora e ora

FRANCESCO GUIDI BRUSCOLI
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Nuoti sommerso in un mare di cacca / non sai se d’uomo oppure di vacca / non sai capire icche t’è successo / ti pare troppa per esser di un cesso.

Inizia così la celebre canzone con cui il compianto Riccardo Marasco (1938-2015) ricordava – con il suo consueto stile irriverente – l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. Anche nel cinema il tragico evento fu celebrato con ironia in un classico della commedia all’italiana, “Amici Miei atto secondo” (1982) di Mario Monicelli (1915-2010): l’acqua che all’alba invade le vie della città impedisce al Melandri – proprio sul più bello – di sedurre la donna di cui si da mesi si è invaghito e fa sì che il Perozzi venga scoperto nel letto dell’amante dal marito di lei, fornaio, tornato in barca per salvarla.

Ma, abbandonando la commedia, l’alluvione fiorentina fa da sfondo anche all’incontro tra Nicola e Giulia, protagonisti de “La Meglio Gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana. Tale incontro avviene mentre i due – assieme a quei numerosi altri giovani arrivati da tutto il mondo che sono passati alla storia come “angeli del fango” – cercano di salvare le opere d’arte e i libri sommersi dalle acque melmose.

Nelle vie della città le conseguenze dello straripamento dell’Arno sono ormai visibili soltanto grazie alle molte targhe (alcune poste ad un’altezza che impressiona, circa quattro metri dal suolo) che recitano “il 4 novembre 1966 l’Arno arrivò a quest’altezza”. Ma è nelle biblioteche e negli archivi (oltre che nei musei e nei loro depositi) che – a distanza di cinquant’anni – le tracce di quel disastroso evento ancora persistono.

D’altronde l’Archivio di Stato fiorentino – che dal 1988 è ubicato nella sede appositamente costruita nei pressi di Piazza Beccaria – si trovava nel 1966 nel palazzo degli Uffizi, prospicente l’Arno nei pressi del Ponte Vecchio. E la Biblioteca Nazionale era dal 1935 – ed è tuttora – in Piazza dei Cavalleggeri, poco distante e infossata rispetto ai parapetti del fiume: alcuni locali furono infatti allagati anche fino a sei metri di altezza.

Tra le numerose iniziative che ricordano l’evento a cinquant’anni di distanza, vi è una mostra all’Archivio di Stato, che ripercorre il rapporto di Firenze con il suo fiume soffermandosi – nella terza e ultima sezione – proprio sui danni causati al patrimonio archivistico. Sulle circa 640.000 unità archivistiche presenti (distribuite su circa sessanta chilometri lineari di scaffalature), circa 72.000 furono in una qualche forma danneggiate dall’alluvione. L’acqua arrivò fino a due metri di altezza nelle sale collocate al piano terreno, danneggiando molti fondi, ma nessuno nella sua interezza, dato che essi erano organizzati in senso verticale, con scaffalature che raggiungevano l’altezza di dodici metri.

Il disastro scatenò un’ondata di solidarietà tale da coinvolgere ragazze e ragazzi di tutto il mondo, ma anche fiorentini, studiosi illustri e istituti archivistici, italiani ma non solo. L’acqua fece danni, ovviamente; ma una volta che essa si ritirò fu il fango a restare, per uno strato di circa trenta centimetri, come evidenziato nella relazione di Francesca Morandini, che nel 1967 divenne direttrice del laboratorio di restauro. I pezzi, una volta estratti e trasportati via da vere e proprie catene umane, furono distribuiti in vari depositi (come gli archivi di Stato di Prato e Perugia, ma anche in altri locali messi a disposizione a Lucca, Pistoia, Vallombrosa, Arezzo e Roma).

Importante, in una prima fase, fu il contributo di alcune manifatture tabacchi (in particolare a San Giustino Umbro), data la somiglianza tra il lavoro sulle foglie del tabacco e quello sui documenti danneggiati, che necessitavano di un processo di lavaggio prima e di essiccamento poi. Nei grandi impianti del Consorzio Tabacchicultori di San Giustino Umbro le operaie furono destinate a tale lavoro di recupero, affiancate e coordinate da personale dell’archivio.

Nella reinventariazione di un materiale che era stato estratto dal fango e poi ammassato in maniera disordinata (privilegiando ad esempio la dimensione piuttosto che la collocazione archivistica) fu fondamentale anche l’operato dei ricercatori statunitensi finanziati dal Committee to Rescue Italian Art (CRIA). Nel contempo, il neonato laboratorio di restauro – creato grazie a finanziamenti sia statali che internazionali – si pose all’avanguardia in operazioni di questo tipo, sfruttando l’esempio e le competenze di analoghi laboratori internazionali, come quello del Public Record Office londinese, ma anche il generoso contributo dei laboratori di restauro di vari archivi di stato europei. L’Unesco svolse un ruolo molto importante, anche nell’attrarre finanziamenti internazionali (tra cui si ricordano anche quelli dell’Italian Art and Archives Rescue Fund inglese), che si affiancavano a quelli stanziati dallo Stato italiano.

Contestualmente anche i locali dovettero subire lavori, che miravano a rendere nuovamente agibili (e prive di umidità) le sale. Inoltre il tragico evento accelerò un processo che già da tempo era ritenuto indispensabile anche a causa della mancanza di spazi sufficienti e idonei: lo spostamento dell’archivio dalla tradizionale sede degli Uffizi, in cui esso aveva trovato ospitalità fin da quando, nel 1852, era stato creato da Leopoldo II, granduca di Toscana. Nel 1971 fu individuata l’area adatta e nel 1988 – a distanza di 17 anni dalla prima decisione – furono aperte le porte della nuova istituzione.

Se l’Archivio di Stato costituisce il caso ovviamente più eclatante, l’alluvione non risparmiò tanti altri archivi pubblici, ecclesiastici e privati; per questi il problema, oltre a quello della dislocazione sparsa sul territorio (non solo fiorentino), era anche legato a una non sempre precisa conoscenza del materiale documentario esistente (e quindi di quello disperso o danneggiato) a causa di inventariazioni approssimative. Di questo ci informa un progetto che la Soprintendenza Archivistica per la Toscana ha portato avanti proprio in occasione dei cinquant’anni dall’alluvione: “La memoria nel fango” .

La Biblioteca Nazionale, con il suo enorme patrimonio di opere antiche e moderne, subì analoghi danni. Circa un milione di unità bibliografiche furono sommerse dalla piena: ad essere colpiti non furono solo raccolte di giornali, riviste, tesi di dottorato, opere moderne, cataloghi e inventari, ma anche circa centomila volumi dei fondi antichi (Magliabechiano, Palatino e miscellanee). Secondo gli ultimi dati, nel corso del tempo 53.000 volumi sono stati restaurati e circa 17.000 sono stati lavati; ancora c’è però molto da fare, visto che restano da lavare ancora quasi ventimila pezzi (in prevalenza miscellanee antiche), mentre purtroppo sono andati perduti oltre 4.500 pezzi.

Nella biblioteca sono conservate anche circa 3.500 fotografie che documentano la drammatica situazione di quei giorni di novembre. In occasione del cinquantenario tali immagini sono state digitalizzate e sono consultabili online; alcune di esse, poi, costituiscono la base di un progetto di “realtà aumentata” per esplorare la città con dispositivi quali tablet e smartphone che, grazie ad un’app, permettono di sovrapporre le vecchie immagini ai luoghi visitati.

* * *

L’alluvione del 1966 non fu la prima ad aver colpito Firenze. Molte altre se ne ricordano, fin da secoli lontani. Ad esempio proprio il 4 novembre, ma del 1333, si era verificata un’altra gravissima alluvione, descritta con dovizia di particolari da Giovanni Villani nel dodicesimo libro della sua Nuova Cronica. Altre gravi alluvioni si erano verificate nella seconda metà del Cinquecento (particolarmente devastante quella del 1557) e attorno alla metà del Settecento; catastrofica fu anche quella del 3 novembre 1844. Nel 1864 i danni di una nuova inondazione vennero invece limitati grazie agli interventi delle autorità cittadine; ma l’evento, che seguiva quello molto più grave di vent’anni prima, rese manifesta la necessità di effettuare lavori volti alla protezione della città, che furono realizzati sotto la direzione di Giuseppe Poggi, l’architetto di Firenze capitale.

L’anno successivo, nel 1865, fu eretta in Piazza Santa Croce una statua che celebrava il 600esimo anniversario della nascita di Dante. E proprio ai piedi della statua del divin poeta cento anni dopo si sarebbe ritrovato Agesilao, lo sfortunato protagonista della canzone di Marasco, che travolto dal fiume in piena era stato trascinato dall’acqua attraverso le vie della città. L’Alighieri, guardando con marmoreo sdegno “l’immane casino” che gli si presentava davanti, con l’acqua che appena arrivava a lambirgli i piedi, poteva gustarsi la propria rivincita: “o fiorentini, m’avete esiliato / prendete la merda che Dio v’ha mandato”.

Firenze, 4 novembre 1966. L’alluvione, i libri, allora e ora ultima modifica: 2016-11-02T22:19:12+01:00 da FRANCESCO GUIDI BRUSCOLI

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