In effetti il sistema di elezione indiretta del presidente degli Stati Uniti non è in sé particolarmente perverso. E’ un sistema fra i tanti, con le sue logiche e i suoi bugs. Ha eletto presidenti di tutti i tipi, per più di due secoli. E quando qualcuno si lamenta dei risultati che produce e propone cambiamenti radicali – è un po’ come un tifoso di calcio che, dopo un campionato perso dalla squadra del cuore, chieda di cambiare le regole, ma sul serio, per esempio applicando al soccer quelle del rugby. Sarebbe magari un gioco interessante, ma tutto un altro gioco, con tattiche e strategie collettive diverse, con giocatori che avrebbero bisogno di talenti individuali diversi. Forse sarebbe più opportuno, per i perdenti e per tutti, imparare meglio le regole del soccer. Almeno finché sono quelle.
Detto questo, il sistema ha la sua storia.
Quello che oggi chiamiamo il Collegio Elettorale presidenziale è incardinato nella costituzione, anche se nel testo non si chiama così. Alla convenzione costituente di Filadelfia, nell’estate del 1776, fu adottato con una decisione dell’ultimo minuto. Per eleggere il presidente erano in discussione le due ipotesi più ovvie, e poi una terza arzigogolata. Farlo fare dal Congresso era quella scontata. Ma c’era il timore che si prestasse agli intrighi di un piccolo numero di uomini (i pochi rappresentanti e senatori di allora) e che minasse l’indipendenza del potere esecutivo. Farlo con voto popolare era l’altra opzione. Ma come far conoscere i candidati a tutti gli americani in un paese enorme e con scarse comunicazioni? E soprattutto: gli elettori erano ancora pochi, mica c’era il suffragio universale, ed erano concentrati negli stati del nord. I meridionali ne sarebbero stati puniti.
Passò così la terza opzione, quella arzigogolata, quella che ha dato origine al sistema attuale.
Il presidente sarebbe stato eletto da gruppi di grandi elettori scelti stato per stato. Ogni stato ne avrebbe avuto un numero pari alla somma del numero di rappresentanti a cui aveva diritto alla Camera (proporzionale alla sua popolazione) e di quello dei senatori (due per ogni stato). Era quindi premiata la popolosità dello stato, il ché faceva contenti gli stati grandi, corretta con una aggiunta eguale per tutti, il ché faceva contenti gli stati piccoli (per esempio: uno stato con un solo rappresentante alla Camera aveva comunque diritto a tre grandi elettori). In un governo federale, che nasceva da tredici stati indipendenti gelosi della loro perduta indipendenza, sembrava la soluzione più adeguata. In un governo federale in cui metà degli stati aveva la schiavitù, sembrava agli stati schiavisti la soluzione migliore per conservare la loro influenza.
Su come uno stato debba scegliere i suoi grandi elettori, la costituzione tace, non interferisce. Dice: “nel modo che verrà stabilito dai suoi organi legislativi”.
Qui comincia la seconda fase della storia.
All’inizio, in gran parte degli stati erano le assemblee legislative stesse a selezionare i grandi elettori, uno per uno. In teoria dovevano essere persone le più capaci di giudizio, e di giudizio indipendente. In pratica, man mano che si formava il moderno sistema dei partiti, le logiche erano sempre più partitiche. Partitiche e di élite, com’è evidente. Con il diffondersi del suffragio universale maschile, negli anni venti e trenta dell’Ottocento, la dimensione elitaria crollò. In quasi tutti gli stati i grandi elettori cominciarono a essere eletti con suffragio popolare, secondo liste di nomi preparate dai partiti con vincolo politico di mandato, e con il principio che il vincitore prende tutto (winner-talke-all). Cominciava così la stagione della party democracy, delle grandi campagne elettorali nazionali, e anche dell’illusione ottica che, in fin dei conti, il presidente fosse eletto direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti.
Non era e non è così, e la verifica è ogni tanto nello scandalo dei presidenti eletti con la maggioranza dei voti elettorali ma in minoranza nel voto popolare (sembra certo in questo 2016, lo è per il 2000, e poi indietro nel 1888 e 1876…)
Il sistema rispecchia la dimensione federale e decentrata del governo, che è così perché l’hanno disegnata così. E quindi ne rispecchia anche i lati oscuri o solo controversi. Il lato dark che più dark non si può riguarda il peggior passato del paese. Quando il sistema ha contribuito al potere degli stati schiavisti e poi segregazionisti del sud, visto che il loro peso nelle elezioni del presidente era proporzionale al totale degli abitanti, che includeva anche gli schiavi (tre quinti degli schiavi per essere precisi, ma di questo parlerò un’altra volta) e poi i neri liberi. Ma né i neri liberi né tanto meno gli schiavi votavano. E così, con tragico paradosso, i bianchi meridionali sono stati influenti fino agli anni sessanta del Novecento anche grazie ai numeri dei non-bianchi emarginati e sottomessi.
Oggi come oggi il lato più controverso della faccenda riguarda la sovra-rappresentanza dei piccoli stati rurali – quelli che, proprio come all’origine della storia, in base alla scarsa popolazione hanno un solo rappresentante alla Camera, ma almeno tre voti elettorali presidenziali non glieli toglie nessuno. In questo modo ne esce esaltata l’influenza politica delle campagne verso le città, che vuole anche dire delle aree conservatrici del paese verso quelle liberal, ovvero di quelle repubblicane verso le democratiche.
Anche per queste ragioni non mancano le proposte di riforma.
Per le stesse ragioni, che sono politiche e di partito, simili proposte hanno scarsa possibilità di successo. Le più coerenti prevedono l’elezione diretta popolare del presidente, quindi l’abolizione tout court dei grandi elettori, quindi una modifica della costituzione tramite un emendamento, cioè un affare molto complicato. Infatti, essendo il governo degli Stati Uniti un governo – ripetiamolo – federale, l’emendamento deve essere approvato da maggioranze qualificate in Congresso e poi ratificato da tre quarti degli stati. Richiede quindi un improbabile consenso bipartisan e l’improbabile accettazione da parte di quegli stessi piccoli stati che ne sarebbero puniti. E ciò sembra esserne il bacio della morte.
Di ipotesi di riforma ce ne sono altre, basate sulla buona volontà, ma non sembrano andare da nessuna parte. Con queste regole si dovrà continuare a giocare per un pezzo.

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