Se Matteo (Salvini) vince il referendum

GUIDO MOLTEDO
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Quando Matteo Salvini si pavoneggiava come The Donald de noantri, ed era solo lui a farlo di fronte allo specchio, si poteva anche riderci su, caso mai ricordando che l’incontro dell’imitazione con l’originale, il 25 aprile scorso a Filadelfia, con tanto di foto, era finito in burla. Intervistato da The Hollywood Reporter, a giugno, Trump aveva smentito seccamente l’incontro dicendo di non averlo voluto incontrare (“I didn’t want to meet him”) negando dunque di avergli dato il suo endorsement come aveva fatto invece sapere un Salvini raggiante. “Matteo, I wish you become the next Italian premier soon”.

Oggi la sua ambizione assume un rilievo politico che va osservato con attenzione e con un’ironia un po’ più misurata, perché l’imitazione comincia a diventare un gioco pericoloso.

Allora, mentre il Matteo leghista cercava il futuro presidente americano, Silvio Berlusconi confidava ai suoi più intimi che non aveva “dichiarato” nulla sulla corsa presidenziale americana, perché, pur compiaciuto dell’accostamento del suo personaggio a quello di Trump, pur lusingato di essere considerato il precursore vilipeso in America del tycoon di Manhattan, la sua simpatia andava a Hillary Clinton, che aveva conosciuto e apprezzato e dalla quale – allora segretario di stato – aveva anche ottenuto un atteggiamento di rispetto e considerazione mentre le più importanti cancellerie del mondo lo trattavano come un pariah. Inoltre il cavaliere non si ritrovava proprio con certe intemperanze del suo “imitatore”, certi suoi evidenti sconfinamenti nel territorio della destra estrema.

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Le elezioni americane sembravano dunque confermare un ulteriore, anche se minore, fattore di distanza tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. L’inclinazione di Berlusconi per HRC sottolineava anche la sua preferenza per un posizionamento centrista delle sue truppe e di quelle alleate in contrasto con la sempre più marcata connotazione del leader leghista in senso estremistico e populista.

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La vittoria inaspettata di The Donald ha cambiato lo scenario. Silvio riflette su quanto è accaduto oltreoceano. Osserva come il suo omologo americano abbia alzato i toni veementemente, abbia rotto gli schemi consueti della comunicazione politica e gli steccati della correttezza politica, abbia osato toccare le vacche sacre della politica così come l’abbiamo conosciuta, e ha così vinto. E adesso, avendo vinto, e avendo vinto in un paese chiamato America e non in un paese nella lista dei paesi canaglia, un po’ tutti, non solo nel suo perimetro politico, lo sdoganano, e in Italia con ammirevole velocità, sulla base del fatto – assunto come un fatto scontato e incontrovertibile – che il Trump candidato lascia ora il posto al Trump presidente. President Trump sarà dunque più attento al contesto, più pragmatico, non più sguaiato come candidate Trump. Anche in Italia, sui media mainstream, la tendenza dominante è questa, un po’ per una sudditanza residua nei confronti dell’America che non sbaglia mai, un po’ per un infantile spirito polemico da parte di certi commentatori verso la nostra sinistra che con la “sua” candidata e con il “suo” osannato presidente in uscita ha perso le elezioni americane e ora non ci sta alla sconfitta e alla riaffermazione della democrazia americana.

Fatto sta che Berlusconi rilascia un’intervista di grandi apprezzamenti per Trump, più che mai lusingato di esserne stato il precursore. E se prima della sconfitta di HRC aveva coerentemente puntato sul centrista e moderato Stefano Parisi, adesso lo molla senza tanti complimenti.

L’assunto che si ricava dalla lezione americana è dunque che non si vince al centro con un profilo moderato, ma urlando e schiamazzando, come appunto ha fatto Trump e come vuol fare Salvini. Per questo una figura come quella di un tipo misurato come Parisi non può funzionare nei tempi che viviamo, tempi di rabbia e di irrazionalità. E non serve più, non perché Berlusconi sia umorale ma perché non vuole perdere, anzi è sicuro con il suo Matteo di potersi prendere una bella rivincita.

D’altra parte, il cavaliere è lo stesso cavaliere che aveva sdoganato Gianfranco Fini, anche se allora con una logica un po’ diversa, ma pur sempre secondo un calcolo altrettanto cinico. Per vincere, servivano anche i voti della destra neofascista, non bastavano quelli ereditati dal CAF, e allora Berlusconi non si preoccupò affatto di quello che potevano pensare e dire i suoi avversari e, per la verità, il mondo intero traumatizzato dall’ingresso nelle stanze del governo degli eredi di Mussolini.

Il paradigma di fondo è lo stesso. L’importante è vincere, non importa se dilaniando ancor di più un paese spaesato, poi il governo sarà un’altra cosa, perché è un territorio che può presidiare solo una politica pragmatica, quindi destinata a prendere il posto di quella urlata e fascistoide di Salvini. Poi – pensa Berlusconi – sarà lo stesso Salvini a moderare i toni e togliersi la felpa, quando sarà lui il nuovo premier, con Silvio grande azionista del patto e suggeritore esterno.

Il prossimo referendum costituzionale diventa così lo snodo di questo passaggio politico. Per questo adesso Matteo Salvini intende prendere la testa, col sostegno dei moderati del suo campo, del fronte del no e attribuire alla sua leadership il merito della vittoria per la quale già gongola e della rottamazione di Renzi, gettando così le basi successive di una campagna elettorale per la conquista del parlamento e di Palazzo Chigi.

È un disegno che polarizza all’estremo la fase finale della campagna referendaria, tra i due Matteo. Renzi ha tutto l’interesse a che questo avvenga, proprio come Salvini. È una polarizzazione che schiaccia le posizioni intermedie e tutti i possibili distinguo, assumendo i contorni di una replica in formato minore dello scontro andato in scena l’8 novembre in America.

Se Matteo (Salvini) vince il referendum ultima modifica: 2016-11-16T17:30:02+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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