All’indomani dell’elezione Donald Trump lo sguardo preoccupato di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato non aveva ancora finito di posarsi sui proclami sulla revisione dell’Alleanza lanciati dal neo presidente americano che immediatamente ha dovuto cambiare direzione: mentre Washington si prepara a bussare a denari e l’Europa comincia a interrogarsi sul futuro del suo sistema di difesa, d’un tratto l’associazione transatlantica di difesa si accorge di essere scoperta a Sud-Est.
La Bulgaria ha cambiato presidente e forse s’appresta a cambiare cavallo, mentre anche nella piccola Moldova dopo un decennio di proclami filo occidentali e ruberie va al potere il filo-russo. Le cose minacciano di cambiare molto più velocemente di quanto si potesse immaginare, insomma, e anche se non siamo ancora alla vigilia di un ritorno alle porte dell’Occidente del Patto di Varsavia (che per altro non esiste più) in quello che si usa definire in confronto geostrategico si apre una nuova falla.
A Sofia, il presidente appena eletto con una maggioranza schiacciante non soltanto è un socialista ma anche un ex pilota di jet da caccia, ed è già stato soprannominato “Il generale rosso”: Rumen Radev, 53 anni, si descrive come “uno specialista addestrato negli Stati Uniti per pilotare aerei sovietici”, infatti ottenne il brevetto all’ US Air Force College per poi svolgere le sue missioni a bordo degli scalcinati Mig della forza aerea bulgara.
Il riferimento scelto dal soldato prestato alla politica non è casuale, con quel ricordo Radev intendeva rassicurare i vertici Nato sul fatto che Sofia non correrà a riabbracciare l’orso russo, anche se il presidente ha aggiunto subito che “la Bulgaria dovrà essere pragmatica nel bilanciare le richieste dell’ Unione europea e della Nato con le esigenze di migliori relazioni con Mosca”. Insomma, si comincia a ridiscutere gli accordi, e anche se in Bulgaria i poteri del presidente sono poco più che cerimoniali, l’immediato crollo del governo e l’apertura di una nuova concitata fase politica dà al “generale rosso” salito ai vertici dello Stato un peso per nulla trascurabile. Anche perché fino a ieri in quel posto sedeva Rosen Plevneliev, fortemente sospettato di corruzione ma pronto ad accusare a giorni alterni di ogni sorta di scelleratezze Putin e la Russia.
La Bulgaria è uno di quei Paesi di cui non si parla spesso, però mentre ci occupavamo di altro in questi anni ha vissuto prima una rivolta popolare contro l’aumento delle tariffe elettriche, poi le dimissioni del premier Boyko Borissov, quindi un governo tecnico, la rielezione di Borissov, nuovi moti popolari contro la corruzione ed infine adesso le nuove dimissioni del primo ministro. Non c’è da dolersene troppo: ex camionista, cintura nera di karate e guardaspalle dell’ultimo presidente comunista Todor Živkov, Borissov rappresenta a tinte particolarmente forti una di quelle figure ducesche che emergono dai processi di transizione, ed il suo partito di centro destra, il Gerb (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria), è stato sempre un comitato d’affari. Adesso, perfino fra i suoi adepti si comincia a dire che il capo è finito e che bisogna aprire una fase nuova.
Intanto, alleanze militari a parte, il “generale rosso” comincia a premere sull’esecutivo provvisorio perché prenda, appunto, “decisioni pragmatiche” e la prima dovrebbe consistere nella ripresa dei rapporti commerciali con Mosca. “Abbiamo dato ascolto ai problemi della gente – dice ancora Radev – ed abbiamo promesso agli elettori di lavorare nel loro interesse”. Uno dei più pressanti è appunto quello di riprendere rapporti commerciali che finora, dopo l’adesione di Sofia alle sanzioni decretate da Bruxelles nei confronti di Mosca, hanno aperto nella bilancia commerciale bulgara una voragine di centinaia di milioni di euro.
Su questo il “generale rosso” si spinge anche oltre:”L’elezione di Donald Trump ci fa immaginare relazioni migliori fra Stati Uniti e Russia, le dichiarazioni di Trump ci danno la speranza, una grande speranza per una ripresa del dialogo e per soluzioni pacifiche dei conflitti in Ucraina e Siria”, aggiunge, senza neppure citare l’Unione europea.
Nonostante i molti milioni succhiati da Bruxelles, quella di Sofia rimane l’ultima economia dell’Unione, gli stipendi medi a malapena toccano i 470 euro al mese e la disoccupazione è molto estesa. Uno dei pochi settori in ascesa è rappresentato dal turismo sul Mar Nero, ma perché le cose si muovano c’è bisogno che tornino i vacanzieri russi. Il “generale rosso” aggiunge anche di essere stufo del fatto che il suo Paese “sia stato trasformato in una discarica di migranti” a causa del comune confine con la Turchia, ed anche su questo versante si annuncia battaglia.
Poco più in là, nella piccola Moldova, le cose non si sono messe meglio, almeno dal punto di vista occidentale. Erano cinque anni che nel piccolo Paese stretto fra Ucraina e Romania si inseguivano sogni europei e buchi di bilancio, in una comunità che supera appena i tre milioni di abitanti il penultimo governo era riuscito perfino a far scomparire un miliardo di euro, e nello scandalo l’allora premier Vlad Filat era sprofondato con tutte le scarpe. La Moldavia, poi, è tata comunista fino al 2009 e la presenza dei filorussi era sempre rimasta forte. Anche lì diviene presidente un “rosso”, Igor Dodon che fu ministro dell’economia nell’ultimo governo comunista.
Anche in questo caso, le prime dichiarazioni sembrano distensive: “Non abbiamo bisogno né di destabilizzazione né di nuovi confronti, come qualcuno vorrebbe”, afferma il neo presidente, che però come il suo vicino bulgaro s’appresta a sollecitare la revisione di alcuni trattati.
Il più importante risale al 2014 e apriva alla Ue mentre imponeva dazi sui prodotti russi in nome del nuovo europeismo di Chișinău. Quanto alle aspettative popolari, i sondaggi di opinione parlano chiaro: solo il 30,9 per cento di moldavi appoggia l’idea di un remoto ingresso nell’Unione europea, mentre sono il 44 per cento quelli che invece vorrebbero accordi con l’Unione Euroasiatica. Ancora, oltre il 66 per cento della popolazione dice di amare Vladimir Putin, mentre solo il 28 per cento si pronuncia per la Merkel. In questo quadro il futuro della Transnistria, regione già sotto il “patronage” di Mosca, appare segnato.
La Transnistria, Repubblica Moldava di Pridniestro (nella cartina), è un Stato indipendente de facto non riconosciuto dai Paesi membri dell’ONU, essendo considerato de jure parte della Repubblica di Moldavia: è governato da un’amministrazione autonoma con sede nella città di Tiraspol. La regione, precedentemente parte della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, dichiarò unilateralmente la propria indipendenza come Repubblica Moldava di Pridnestrovie il 2 settembre 1990. Dal marzo al luglio 1992 la regione è stata interessata da una guerra che è terminata con un cessate il fuoco, garantito da una commissione congiunta tripartita tra Russia, Moldavia e Transnistria, e la creazione di una zona demilitarizzata tra Moldavia e Transnistria comprendente venti località a ridosso del fiume Nistro. Il 18 marzo 2014 la Transnistria ha chiesto l’adesione alla Russi in seguito all’annessione della Crimea

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