Beregite Rossiyu – Take care of Russia
Boris Eltsin – 1999 (rivolgendosi a Putin mentre usciva dal suo Ufficio per l’ultima volta)
“Rus’, dove corri mai? Rispondi!”, si chiedeva Nikolaj Gogol’ nelle “Anime morte”. A centosettantaquattro anni dalla pubblicazione di quel romanzo è inevitabile porsi la medesima domanda. Le strategie politiche messe in atto dal presidente Putin in questi anni e, di recente, in occasione delle elezioni americane offrono preziosi spunti non solo sull’identità di questo Paese, “impossibile da capire razionalmente”, cui, però, “si crede e basta”, come diceva il poeta Fëdor Tjutčev, ma anche sul percorso intrapreso dal collasso dell’Unione Sovietica ad oggi. Secondo Dostoevskij,
agli occhi dell’Europa, la Russia è come uno degli enigmi della Sfinge. Per l’Occidente è più facile scoprire il moto perpetuo o l’elisir di lunga vita, che sviscerare l’essenza della russità, lo spirito russo, il suo carattere e la sua natura.
Il richiamo al 1991, anno del crollo dell’Impero sovietico, è automatico. Per Putin si tratta di uno degli eventi più gravi accaduti a livello mondiale, ma il presidente precisa che “chiunque non si rammarichi per il crollo dell’Unione Sovietica non ha cuore, ma chiunque voglia ricostruirla non ha cervello.” Questa dicotomia tra “cuore” e “cervello” è in parte condivisa anche dall’opinione pubblica.
Secondo un sondaggio condotto a marzo dal Levada Center, bollato a settembre come “agente straniero”, il 56 per cento degli intervistati si dichiara “dispiaciuto” per il crollo dell’URSS (“La Russia che ha nostalgia dell’URSS”, Tempi, 29 aprile 2016). Questo sentimento non è solo diffuso tra le persone over cinquanta residenti in provincia, ossia la fascia di popolazione meno tutelata e più colpita dalla crisi, ma anche tra giovani ben inseriti nella società moderna che a malapena conoscono la realtà sovietica.
Secondo Nikolaj Epple, collaboratore del quotidiano Vedomosti, “il tipico pensiero conversatore russo non si basa sui valori, ma sulla paura di rimuovere il passato”. Si tratta dell’“orgoglio compensatorio” che aumenta nelle fasi di crisi del Paese. “Quando non c’è futuro, resta la sacralizzazione del grande passato.”
Il termine russo “toska”, ossia nostalgia, divenuto celebre nella letteratura dell’esilio, suggerisce “una sensazione di soffocamento, quasi asmatica, di incredibile privazione.”
Nel saggio “Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo” (Bruno Mondadori, 2003), Svetlana Boym, slavista russa e studiosa di letteratura scomparsa nel 2015, ricorda che la nostalgia – termine coniato non nell’antica Grecia, ma dal medico svizzero Johannes Hofer nella sua “Dissertatio Medica de nostalgia” pubblicata nel 1688 – “non era solo un’angoscia individuale, ma una minaccia pubblica che rivelava le contraddizioni della modernità e acquisiva una notevole importanza politica.” In particolare, “la nostalgia moderna coincide con una sensazione di lutto per l’impossibilità di un ritorno mitico, per la perdita di un mondo incantato con chiari limiti e valori”.
Secondo Oleg Orlov, chairman di Memorial, un’associazione per i diritti umani con sede a Mosca, bollata anch’essa come “agente straniero”, per molti russi l’URSS rimanda ad una sorta di “vita da favola” ormai svanita. Uno dei canali televisivi più popolari in Russia è proprio “Nostalgia” che trasmette prevalentemente film sovietici, in linea con lo spirito di un mercato in espansione di ristoranti, giocattoli e vestiti di ispirazione sovietica (“Maybe the Soviets weren’t so bad? Russian nostalgia for USSR on the rise”, The Christian Science Monitor, 29 gennaio 2016).
La nostalgia che “affligge” il popolo russo, tuttavia, secondo la Boym, è “riflessiva”, non “restauratrice”. Non punta, dunque, a ricostruire la dimora perduta, ma “è incentrata sull’algia, sul desiderio e sulla perdita, sul processo imperfetto del ricordo […] Si sofferma sui ruderi, sulla patina del tempo e della storia, sui sogni di un altro luogo e di un altro tempo.” Si tratta di un processo di idealizzazione che porta a rimuovere gli elementi negativi dell’epoca sovietica (le code nei negozi e negli ospedali, le inconcludenti riunioni di partito, l’isolamento rispetto al resto del mondo, le politiche economiche errate etc.), enfatizzando solo i fattori positivi: importanti risultati in ambito scientifico e sportivo, la potenza militare, un’ideologia che prometteva la stabilità, un “senso di sicurezza, di pace, di regolarità, di ordine legale” garantito, secondo Jurij Andruchovič, uno degli autori ucraini contemporanei più conosciuti, da un rigoroso controllo dell’informazione.
Senza dimenticare un elemento che anima costantemente il popolo russo: il senso della “grandezza” di un vasto “impero”. Nell’editoriale del primo numero di Limes del 2016 (“Il mondo di Putin”), si ricorda che
l’impero non è dato tanto dalle dimensioni del territorio […] Impero è chi pretende di esserlo ed è come tale percepito, nella lunga durata, dai principali attori sulla scena planetaria […] Gli imperi si distinguono per il rifiuto di allinearsi agli altri Stati nella rete delle relazioni internazionali in quanto si considerano essi stessi sistema.
Nel saggio “La Russia contemporanea” (Carocci editore, 2013), Giovanna Cigliano, docente di Storia contemporanea e Storia dell’Europa orientale all’Università Federico II di Napoli, ricorda che Putin non intende ricostituire un impero, quanto consolidare
lo status di grande potenza della Russia, che comporta il riconoscimento da parte degli altri principali soggetti internazionali delle priorità connesse alla sicurezza russa e lo svolgimento di un ruolo centrale nella costruzione e stabilizzazione degli equilibri euroasiatici.
Secondo quanto riportato dall’Economist (“Putinism”, 22-28 ottobre 2016), un sondaggio del mese di gennaio del 2000 ha rilevato che il 55 per cento della popolazione si aspettava che Putin restituisse alla Russia il ruolo di una grande e rispettata “derzhava”, una parola molto antica che equivale, in un’ottica patriottica, allo “stato potente e autentico”. Per molti si riferisce anche alla capacità del Paese di incutere “paura e timore”. Oggi metà della popolazione ritiene che Putin sia riuscito a raggiungere questo obiettivo.
Qual è, dunque, la “ricetta” dello “Zar Vladimir”?
Secondo Alexander Baunov (“A tale of two statues”, Foreign Affairs, 7 novembre 2016), Putin, nella prima fase della sua presidenza, ha operato una chiara distinzione tra prospettiva economica e ideologica, “incorporando il periodo sovietico nel continuum storico dello Stato russo” e creando un nuovo storytelling. Spingendo il popolo ad accettare un’impopolare economia di mercato, ha ricompensato chi provava nostalgia per l’URSS: ha ripristinato l’inno sovietico, le parate militari, ha valorizzato la vittoria sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale, avvolgendo il tutto in uno “stalinismo di velluto”, mascherato da patriottismo, in una combinazione di “ortodossia russa, nazionalismo e autocrazia.”
Il secondo passo è stato quello di “ristrutturare” il regime in essere, mostrandosi, in un’ottica populista, vicino ai cittadini e fingendo di “eludere” quelle élites di cui, in realtà, è il primo rappresentante: il fulcro dell’establishment, “l’amministratore delegato di un’oligarchia”, supportato da potenti servizi segreti e capace di esercitare un controllo ferreo sui media e sui processi elettorali e di creare efficaci campagne di informazione/disinformazione. Dinamiche che in questi giorni sono divenute ancora più evidenti, dopo il rimpasto attuato da Putin nell’ambito dei suoi collaboratori storici, sostituiti da giovani funzionari, e l’arresto, avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 novembre, del ministro dello sviluppo economico Alexey Uliukaev, esponente dei tecnici liberali, inviso alla nomenklatura conservatrice.
In questi anni, inoltre, la Russia è riuscita lentamente a riconquistare anche un ruolo nello scacchiere internazionale. Le recenti elezioni americane sono state l’ultima occasione perfetta: da una parte, si è assistito al tifo febbrile per Donald Trump di un’opinione pubblica più attenta al voto americano che alle elezioni della Duma di settembre; dall’altra, è stata rafforzata la tesi di un’influenza diretta della Russia nel processo elettorale, attraverso il supporto a Trump e il coinvolgimento nello scandalo delle e-mail di Hillary Clinton. Secondo Igor Pellicciari (“Russia – America. La pace impossibile”, Limes, n. 9/2016), l’adozione di questo storytelling “non ha sempre avuto l’effetto di delegittimazione sperato.” Anzi. L’overdose di mainstream antirusso occidentale ha fatto emergere “il mito del capo carismatico contrapposto alla debolezza della leadership europea e americana.”
In realtà, il supporto a Trump da parte di Putin potrebbe essere illusorio. Trump resta, infatti, “un enigma”, un soggetto imprevedibile per il governo russo. Malgrado la reciproca disponibilità – manifestata durante un colloquio telefonico del 14 novembre tra i due leader – a ripristinare un rapporto paritario basato sul dialogo, sul rispetto reciproco, sulla lotta al terrorismo internazionale e all’estremismo e sulla non interferenza negli affari interni dell’altro, Svetlana Babaeva, direttrice di Gazeta.ru, intervistata dalla giornalista Anna Zafesova (“Donald e Vladimir fanno riferimento a un elettorato bianco e poco istruito”, La Stampa, 15 novembre 2016), ritiene che quella parte di élite russa affascinata da Trump che “si aspetta che corra a Mosca con un’enorme agenda nuova avrà una grande delusione. E l’America ridiventerà il grande nemico” in tempo per le elezioni presidenziali russe del 2018. A suo avviso, “Trump vuole un’America più forte. Che non serve alla Russia né politicamente, né economicamente.” Per la Babaeva, “l’incontro con Putin non sarà nelle priorità di Trump”, impegnato su altri temi, tra cui “l’economia, le tasse, il rilancio dei progetti petroliferi che distruggeranno definitivamente le fonti delle entrate russe.” Anche in politica estera è possibile ipotizzare “alleanze ad hoc contro qualcuno, per esempio certi leader dell’America Latina o del Medio Oriente.”
Anche secondo il giornalista Leonid Ragozin (“Trump: Putin’s best frenemy”, Al Jazeera, 13 novembre 2016), per Putin Trump è utile non come amico, ma “come nemico ideale”, che lo aiuterà a “mobilitare i suoi elettori, tenendo a bada l’opposizione interna”. Dopo un’iniziale “luna di miele”, sarà fondamentale avere un nemico potente che attacca gli interessi russi e Trump, capace di “nutrire la propaganda russa con gaffe e bravate è perfetto per questo ruolo: meglio di George W. Bush.” “The Donald”, classico esempio di oligarca americano, “volgare e senza scrupoli”, ma anche “incompetente”, potrebbe ricordare ad alcuni il gemello di “Mister Twister, ex-minister“, il personaggio di un racconto per ragazzi scritto da Samuil Maršak, che prendeva in giro il capitalismo americano negli anni ’30. Una macchietta, dunque, in grado di “nutrire” la propaganda della Madre Russia.
Già nel 2004 Putin riteneva, malgrado le difficoltà, di essere riuscito a “preservare il nucleo” del “Gigante”, l’Unione Sovietica, “chiamando questo nuovo Paese Federazione Russa”. Nell’era “Trumpkin” è legittimo chiedersi se quel “nucleo” sia davvero in grado di rovesciare a proprio favore, anche se di poco, il mantra di Donald Trump “Make America Great Again!”.
Finito di redigere il 16 novembre, alle ore 21.

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