Prodigi di Romano. Perché il carisma del prof. fa ancora la differenza

ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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Prodi non è mai stato pacioso e anti comunicativo come l’hanno descritto taluni. Chi lo conosce ricorda certe bene certe sue uscite ad arte, fredde come stilettate.
Lo ha fatto, io direi, anche con la sua dichiarazione di un sì sofferto al referendum del 4 dicembre. Lo ha fatto nei giorni giusti della risacca prima del voto in cui le modalità rissaiole e la gragnuola di insulti (certo non da parte di tutti e non solo da una parte…) stavano creando un effetto di stanchezza infinita e di desiderio di votare “qualsiasi cosa purché sia finita” dopo sette mesi di lunghissima, forse mai vista così lunga, campagna elettorale.

E dopo aver scelto il momento di massimo ascolto, ha scelto anche le parole: un sì sofferto, in cui ci sono critiche per alcuni contenuti e alcune modalità di proposizione della riforma costituzionale.

C’è naturalmente la critica al no, implicita nel dire che la riforma, pur criticata, segue un cammino indicato già in un’altra stagione, ovviamente riferendosi a quella dell’Ulivo. E giù la staffilata: l’Ulivo a differenza di altri – perché in vent’anni non tutti erano uguali né hanno fatto le stesse cose, precisa amabilmente – aveva indicato una strada che con queste riforme perfettibili e criticabili, vanno nella stessa direzione, perché – notazione numero due – non è che si nasce dal nulla e si arriva a essere segretario o presidente del consiglio senza avere una storia che ti precede.

Dunque, con sofferenza, si votino queste riforme criticabili e perfettibili che non nascono oggi come esigenza e – terza notazione prodiana – si abbia a mente che queste creano solo le condizioni pre-politiche; poi,dopo, non ci sono più scuse: occorre fare la politica, che oltre che essere annuncio è anche piani industriali, relazioni internazionali, cura del Paese.

È un messaggio? Ai commentatori la sentenza;e difatti i commenti non sono mancati, alcuni distaccati, altri legati alla ricerca di un segnale per l’oggi o per il domani, se pensiamo al dopo referendum.

Ma al momento non è tanto questo che interessa quanto ragionare sul particolare interesse che la dichiarazione di Romano Prodi ha suscitato.
In fondo sono, questi ultimi giorni, momenti di endorsement pesanti, ma nemmeno Scalfari o Napolitano, per dire alcuni, hanno suscitato né tanto interesse né tanto rispetto, perfino da parte degli avversari referendari: su Prodi, Bersani si è detto, teneramente, rammaricato; D’Alema si è morso la lingua e ha taciuto, moltissimi sono i sostenitori cortesi del no che sui loro spazi Facebook o Twitter hanno detto che non condividevano il Professore ma non accettavano di pubblicare insulti o commenti pesanti su di lui.

Ci sarà un motivo? Vale la pena interrogarsi su quel motivo per capire, più che discutere la sua scelta specifica?
Romano Prodi non è certo uomo che non abbia vissuto appieno la sua stagione politica e non solamente all’Ulivo. È stato esponente della sinistra Dc, anche se alla lontana da incarichi di partito, uomo di punta del sistema delle partecipazioni statali (non il parastato, le partecipazioni statali che per la sinistra Dc rappresentavano una questione di governo pari almeno alla questione meridionale…) come presidente dell’Iri, poi leader dell’Ulivo e due volte presidente del consiglio con elezioni vinte alle urne,infine presidente della Commissione europea.

E nonostante dunque un cursus honorum politico in cui non possono non essere presenti vittorie e scacchi subiti, antipatie e simpatie, continua a essere uno dei pochi uomini politici italiani ancora richiesto di presenziare a cerimonie internazionali, a fare da relatore nelle università del mondo comprese quelle dei paesi da poco sulla scena economica internazionale, come i paesi arabi o la Cina. Senza peraltro suscitare su di sé l’ombra dei grandi “complotti” stile Bildenberg o Aspen che spesso vengono addossati più o meno a ragione a questo o quell’esponente del mondo politico, giornalistico, economico o della comunicazione, in questi tempi di complotti e scie chimiche.

Anche i suoi commenti sul Paese, spesso riportati dai quotidiani nazionali, sono spesso più analisi geopolitiche ed economiche di carattere internazionale che dichiarazioni vere e proprie di politica, secondo uno stile forse old fashion se non volete dire da “prima repubblica”.

La verità è che questo suo stile scarno, sobrio, rotondo, fa spesso pendant con una certa nostalgia dell’Ulivo e di quella stagione. Una nostalgia fredda, cerebrale, ragionata, che a volte emoziona più dei consueti toni da comizio (c’è sempre qualcuno più populista alla tua destra o alla tua sinistra, si direbbe forse oggi parafrasando Nenni).

Emoziona la destra, diciamolo subito, perché ritrova il mordente unitario del nemico unico che ha saputo combattere col governo dell’Ulivo il buongoverno esibito nei programmi liberali dell’inizio di Forza Italia ma mai praticato; emoziona la sinistra che con l’Ulivo praticò per qualche tempo l’unità perfino di tutte le sue sinistre e con l’aggiunta impensabile dei radicali.

Ma soprattutto l’Ulivo ricorda alla sinistra una coalizione ampia, certamente più ampia di quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo del Partito democratico del Lingotto ma soprattutto di quello di oggi, ristrettosi non tanto nei numeri quanto nella partecipazione multiculturale e multiideologica.

E naturalmente ricorda alla sinistra la sua costante questione del rapporto tra l’organizzazione della protesta, o anche dei diritti, e la necessità di governare e di praticare anche i doveri della politica, pure quando esigono l’impopolarità. Una indicazione, quella del governo della società, con la società e non dall’alto, che aveva fatto breccia anche in luoghi impensabili se si pensa alle stagioni di collaborazione con Rifondazione di Bertinotti e all’eredità culturale lasciata come imprinting perfino in personaggi certamente carismatici ed eccentrici come Nichi Vendola che è stato, va ricordato, non solo leader di Sel ma presidente di una Regione per due mandati, vinti con le primarie dell’Ulivo e con le elezioni.

Le pulsioni e le contorsioni della politica attuale vanno certamente in altra direzione e vanno considerate se si vuole fare politica nel presente e non mera nostalgia ma non c’é dubbio che sotto pelle, e considerevolmente nella parte progressista a vario titolo del Paese, la questione di come governare, di quali relazioni avere con una società civile in pena quotidiana per una crisi economica che sempre più appare di sistema, di come costruire una strada politica per un Paese che è pur sempre tra i primi otto paesi sviluppati del mondo mentre è cresciuta esponenzialmente l’interrelazione economica e sociale a livello globale,rimane la chiave di volta di un discorso che fatica a divenire pubblico e rimane confinato nei retropensieri, mentre si gridano gli slogan del giorno.

Per questo la dichiarazione di Romano Prodi, la sua pacata (lo prendevano in giro con questo termine no?) rivendicazione di radici dell’Ulivo non tanto nella soluzione del giorno (le riforme proposte al voto in questo referendum) quanto nella riproposizione di una questione politica che rimane inevasa oggi dalle forze politiche (e non solo di sinistra), ha fatto più effetto di tante dichiarazioni a favore del sì o del no.

Pacatamente, ha detto che il Re è nudo. E non si riferiva solo a a Renzi.

Vedremo, se dal 5 dicembre qualcuno avrà voglia di caricarsi del problema. Può darsi che non solo di nostalgia si tratti, ma di un “ritorno al futuro”

Prodigi di Romano. Perché il carisma del prof. fa ancora la differenza ultima modifica: 2016-12-02T22:15:13+01:00 da ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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