Dopo Renzi non c’è che Prodi

GUIDO MOLTEDO
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Matteo il divider. Romano l’uniter. È già pronto il racconto del dopo-referendum, dovesse uscire sconfitto il sì. Il fronte del no di sinistra non avrebbe molto da festeggiare, specie in compagnia di personaggi come Grillo, Berlusconi, Brunetta e Gasparri, i veri vincitori del voto. Scatterebbe istantaneo il vortice delle recriminazioni verso il premier-segretario, colpevole di aver portato alla sconfitta il Pd e il governo che presiede, e di avere lacerato il suo partito in modo difficilmente ricomponibile. E anche il paese. Renzi farebbe fatica a restare al suo posto, volesse anche farlo, a dispetto di quanto ha ripetutamente dichiarato (“non sono come gli altri, non sono attaccato alla poltrona”). Sarebbe perfino difficile vederlo restare alla guida del suo partito. Berlusconi ha detto che, se è coerente, Renzi dovrebbe proprio lasciare la politica. E non è il solo a pensarlo.

E chi allora avrebbe la forza e l’autorevolezza di ricomporre i cocci del centrosinistra, di rimettere in piedi una forza politica che continui a essere il perno solido della maggioranza di governo (o di un governo di larghe intese) e al tempo stesso consenta a questa forza di prepararsi alle elezioni generali, dovendo competere con i vincitori del referendum e con il Movimento 5 stelle in particolare?

Non c’è nessuno che ne abbia le qualità. Walter Veltroni?  Rimasto ai margini dello scontro referendario, si è detto per il sì ma con riserve. Ma Veltroni è, suo malgrado, malgrado il suo temperamento, personaggio che divide e che comunque resta indigesto a tanti nel Pd di provenienza Ds (non va dimenticato che fu Bersani a fargli le scarpe). Non resta che Romano Prodi. Potrebbe, il leader dell’Ulivo, tornare in campo come l’unico in grado di ricostruire quanto è andato distrutto? È possibile.

Non siamo nella fantapolitica. Si sa che un’ipotesi del genere – il padre della patria, la riserva della repubblica – è presa seriamente in esame. Prodi non sarebbe solo il salvatore di un partito alla deriva – non ne prenderebbe la guida ovviamente – ma come leader di un governo “d’emergenza” ricomporrebbe in parlamento – e di riflesso nella società – il puzzle impazzito del centrosinistra e, come effetto collaterale benefico, ridarebbe un amalgama al Pd.

Un nuovo ulivo.

È plausibile? Allo stato attuale sembra l’unica via percorribile, anche in rapporto alla relazione ineludibile e delicata del nostro paese con l’Europa e ai rapporti con i vari poteri forti internazionali. La vittoria del no, con tutte le implicazioni negative che ha assunto, sarebbe vista dall’esterno come l’avvio di una pericolosa stagione di instabilità, il ritorno alla solita Italia imprevedibile e inaffidabile.

Settantasette anni, un Prodi tornato in campo si troverebbe in buona compagnia “anagrafica” in uno scenario internazionale in cui dominano, in questa fase, figure dai sessant’anni in più e diversi settantenni. Nell’amministrazione Trump (che ha settant’anni) ci sono numerosi ministri ben oltre i settanta, diversi sessantenni, nessun giovane. Trump aveva avuto come avversaria una signora di sessantotto anni, che a sua volta, nelle primarie, aveva avuto di fronte un settantaquattrenne. Nelle primarie della destra francese i due contendenti erano un settantunenne e un sessantaduenne. Angela Merkel ha sessantadue anni, idem Shinto Abe; Mariano Rajoy e Theresa May sessanta; il leader laburista Jeremy Corbyn sessantasette. Insomma, è come se la politica, in questa stagione complicata della nostra storia, si fosse affidata, fuori dei nostri confini, agli anziani, quegli anziani che nella vulgata renziana dovrebbero essere rottamati.

Prodi non è però personaggio per tutte le stagioni, e non troppo tempo fa fu bruciato proprio in un mal gestito tentativo di ricorrere alle sue risorse e al suo carisma per sbloccare l’impossibile garbuglio della successione a Napolitano. Dopo quella storia, la storiaccia dei 101, difficile quindi che possa prestarsi a nuove operazioni che non siano più che limpide e davvero necessitate dall’emergenza nazionale. Come una situazione che richieda un padre della patria, e allo stato attuale non c’è che Prodi.

Nel motivare le ragioni del suo sì al referendum, il professore è stato puntigliosamente severo verso Matteo Renzi e ha bocciato il testo di modifica costituzionale sottoposto a referendum (“una modesta riforma”), rivendicando orgogliosamente l’esperienza dell’Ulivo e ponendo con forza l’accento sulle ragioni di una coerenza personale e di un senso di responsabilità verso il mondo che ci guarda (“per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull’esterno, sento di dovere rendere pubblico il mio sì”).

È un testo che ha colpito proprio per il suo essere a due facce. Non un appoggio critico, ma un doppio messaggio, uno dei quali, il principale, politicamente parlando, è la sottolineatura della diversità quasi antropologica del suo intendere la politica e la leadership rispetto all’attuale presidente del consiglio.

Visto retrospettivamente, quel testo potrebbe essere considerato la lezione del professore che rivendica la sua capacità di unire e che per questo – se la storia andrà in una certa direzione – prende il posto di un giovane premier che con la sua “leadership esclusiva, solitaria ed escludente” ha portato il paese in un’impasse confusa e pericolosa.

Dovesse invece vincere il sì, come indicano certi sondaggi “segreti”? In altri tempi, quel tot di voti portati in dote dalla dichiarazione di voto di un “grande elettore” di peso conterebbe nel dopo-elezioni. Il sì di Prodi potrebbe aver fatto la differenza, in caso di vittoria. In che modo il vincitore ne terrà conto? E quanto, eventualmente, Prodi stesso farebbe pesare retrospettivamente il suo sostegno?

In politica contano solo i rapporti di forza. Se il sì vincerà, saranno decisamente a favore di Renzi. Acquistata una posizione di indiscussa leadership, grazie a una vittoria resa ancor più importante perché ottenuta contro le previsioni e contro uno schieramento che comprende due terzi delle forze politiche in parlamento, Renzi potrebbe sorprendere assumendo una direzione politica più aperta e più inclusiva. Un Renzi diverso dal “rottamatore”, diverso dal Matteo che ha paura di figure ingombranti e in grado di metterlo in ombra, come quella di Prodi, per questo finora spinto da parte. Da vincitore, non avrà più ragione di averne timore.

 

Dopo Renzi non c’è che Prodi ultima modifica: 2016-12-03T19:25:31+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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