Le opere d’arte seguono gli itinerari di mecenati e committenti ma anche e molto spesso, come la Storia ci insegna, le rotte dei razziatori e i percorsi dei vincitori, di schiere di profittatori ed ambiziosi partigiani del tiranno di turno pronti a depredare e spogliare i Paesi occupati per il proprio interesse e pochi momenti di gloria.
Questo, in fin dei conti, ci pare il messaggio sotteso alla nuova e, per certi versi, coraggiosa Mostra che si è aperta in questi giorni a Roma alle Scuderie del Quirinale, “il Museo Universale, dal sogno di Napoleone a Canova”. Un titolo che non sembra forse rendere giustizia all’interessante progetto dei tre curatori (Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce). Non foss’altro perché il sogno del Bonaparte di trasferire al Museo del Louvre, inaugurato proprio in quegli anni, quante più testimonianze dell’arte europea fosse possibile, si rivelò un incubo per molti paesi occupati dalle truppe del condottiero còrso.
L’esposizione, unica finora nel suo genere, riunisce diversi capolavori del Rinascimento italiano e di quelli che erano un tempo chiamati i “primitivi” (pittori prerinascimentali o del primo Rinascimento come Benozzo Gozzoli) trafugati da chiese e gallerie della Penisola. Una minima parte dell’intero bottino ma sicuramente sufficiente a dare un’idea della voracità del Bonaparte.
Il titolo della mostra, col riferimento ad un Museo Universale, rimanda ad una sorta di immaginifica visione di una fruizione globale della Cultura in tutte le sue particolari ma preziose declinazioni. Una categoria che sembra discendere direttamente dal Secolo dei Lumi e dagli Enciclopedisti francesi così come a noi piace immaginarli. Ma qui, a nostro avviso, risiede il malinteso che il titolo (e non l’esposizione in sé) rischia di generare. L’universalità dell’arte e della cultura si manifesta appunto nella sua grande varietà e, in fin dei conti, nel suo frazionamento e l’onirico concetto di Museo universale sembra stonare innanzitutto con il contenuto stesso della mostra.
Accanto a dipinti di Raffaello e del Perugino spiccano, al primo piano delle Scuderie, diverse imponenti statue neoclassiche del Canova che, in prima persona e a capo di un’apposita missione, si incaricò dopo Waterloo e il congresso di Vienna del 1815 di riportare in Italia un certo numero di opere.
Valter Curzi, nell’esporre alla stampa le linee del progetto, ha molto insistito sul concetto dell’universalità dell’arte e sull’ideale missione di un ipotetico “Museo universale” nella creazione di un’identità culturale europea. Un punto di vista di per sé nobile ma anche rischioso a nostro avviso se, come in questo caso, si tende ad individuare questo comune sentire e a materializzarlo in un determinato museo (in questo caso il Louvre) pieno per di più di opere trafugate nel corso di occupazioni od operazioni belliche. Da qui a “comprendere” se non addirittura giustificare quanto fece Hitler, su pressante indicazione di Goebbels e Göring, entrambi peraltro amanti dell’arte anche ‘”degenerata” (tenevano in casa varie opere di Emil Nolde, Picasso ed altri), il passo potrebbe rivelasi pericolosamente breve. Ma lasciando da parte due tiranni come Hitler o Napoleone, e i sentimenti forse eccessivamente francofili di questo o quel curatore, dovremmo allora giustificare il trasferimento dei marmi del Partenone ottenuti dagli inglesi grazie ad un accordo con l’allora potenza egemone nella penisola balcanica, vale a dire l’Impero Ottomano?
Ripetiamo, le intenzioni sono nobili ma non e’ forse più salutare una dispersione delle opere in un’Europa dalle mille identità artistiche e culturali, un’Europa dove le distanze sono oggi molto ridotte piuttosto che un accentramento in un ideale Museo universale?
Ma la mostra è comunque da vedere anche e soprattutto, secondo noi, per le preziose opere “minori” esposte al secondo piano. Piccoli capolavori di Zanobi Machiavelli, di Lorenzo Monaco, del già citato Benozzo Gozzoli e la lastra tombale di Guidarello Guidarelli, opera di Tullio Lombardo, faranno la gioia dei visitatori e anche quella (ne siamo sicuri) di Vittorio Sgarbi, controverso critico al quale tuttavia si deve riconoscenza per l’infaticabile opera di rivalutazione dei cosiddetti artisti minori del nostro Rinascimento.

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