Reportage dalla Patagonia, ballando sull’oceano, scivolando nei fiordi

CLAUDIO MADRICARDO
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[dall’Evangelistas in navigazione da Puerto Natales a Puerto Montt, Cile]

Il ferry oceanico Evangelistas salpa poco dopo le otto della mattina dalla banchina di Puerto Natales, nell’insenatura di Ultima Esperanza nell’antartico cileno, approfittando di un vento che soffia a venti nodi. Una brezza in questi posti in cui i venti spirano normalmente a settanta e qualche volta possono raggiungere anche i duecentoquaranta chilometri orari.

L’attesa del vento favorevole non è precauzione di un comandante troppo scrupoloso, che ha passato la notte a imbarcare passeggeri e veicoli, ma risponde a una precisa disposizione della capitaneria per rendere sicura la navigazione negli stretti canali attraverso i quali la nave dovrà passare. Prima di continuare nel Golfo de Penas e uscire in pieno Oceano Pacífico.

Ore a ballare sulle alte onde dell’oceano, tra beccheggio e rollio, dopo di che il grosso ferry raggiunge il Golfo di Corcovado e si rifugia nuovamente nel canale tra l’isola di Chiloé e il continente. Puntando a nord verso il Golfo di Ancud e il Seno di Reloncavit su cui si affaccia Puerto Montt, la meta finale di un viaggio lungo tre giorni, dopo aver percorso la bellezza di 798 miglia marine, circa 1500 chilometri, a una velocità media di dodici nodi.

Le condizioni meteo cambiano repentinamente nella regione di Magallanes e il sole si alterna, con velocità impensabile ad altre latitudini, alla pioggia, alla neve e al vento che gioca a buttarti a terra. Rendendo aleatoria ogni previsione meteorologica anche a medio raggio, a tal punto da costringere l’equipaggio a rinunciare alla certezza di ogni tabella di marcia, riguardi essa la partenza o l’ora di arrivo alla meta finale.”

Viste dal ponte deserto dell’Evangelistas spazzato dal vento, le creste bianche delle onde scolpite nell’insenatura Almirante Montt, su cui si stiracchia la pigra e opulenta Puerto Natales, sembrerebbero non dover costituire una minaccia. Eppure…. eppure appena dopo una mezz’ora di navigazione la nave mette i motori al minimo, quel tanto per stare ferma tra i marosi tenendosi al traverso ben visibile in lontananza Puerto Natales.

Della quale già si fa sentire la nostalgia per il meraviglioso caldillo de congrio, tanto caro a Pablo Neruda che gli dedicò un’ode, gustato la sera ventosa e fredda prima dell’imbarco in un caldo, affollato e allegro ristorantino nei pressi del porto. Con una deliziosa bottiglia di rosso Carmenere.

A lungo immobile con la prua a guardare l’imboccatura dei fiordi della Patagonia, giunto finalmente il momento, l’Evangelistas passa sfiorando le rocce dell’Angostura White in un budello largo appena ottanta metri. Non uno scherzo con i venti che qui possono urlare, e con correnti di marea implacabili. Se per un verso il vento non può essere previsto, la marea lo è di certo, e impone alla nave di passare lo stretto nei momenti del cambio tra il calante e il crescente, quando la corrente marina per breve tratto si addormenta. È in stallo.

Così è stato al momento del nostro passaggio, con un vento bizzoso ma non impossibile, e l’immancabile pioggia fredda, a tratti ghiacciata, che sferzava il viso, e con marea dormiente. Che rendeva penoso sostare sul ponte. Con una poderosa scossa di adrenalina e un serpeggiare di agitazione tra i pochi passeggeri a causa del timore, in lotta forse con il desiderio, di poter toccare quasi con mano le pareti di roccia. Il fascino dello scampare alla fine il pericolo, goduto appieno lo spettacolo. Nonostante l’inquietante lentezza con cui gli isolotti minacciosi passavano sotto i nostri occhi, un lungo momento interminabile. Per lasciarceli, con sollievo, finalmente alle spalle.

Dopo la Angostura White, che segna il punto più stretto, agli altri passaggi quasi non ci si fa più caso, e lo spettacolo è offerto dalle coste selvagge e dalle innumerevoli vette innevate che lentamente lasciano il posto a rilievi via via più dolci. Nel mentre l’Evangelistas risale lentamente senza posa a nord imboccando il Canal Union, il Sarmiento, il Canal Inocentes e il Canal Wide, accompagnato spesso da delfini australi e seguito dagli albatros che volteggiano a poppa.

A volte ridossato dal vento e con acque quiete in cui incrociamo un piccolo e quasi indifeso peschereccio, solo in tanta immensità. A volte con acque agitate da un vento che fa perfino inclinare il ferry per lunghi istanti su un fianco, destando un momentaneo timore. Passando per il Paso del Abismo fino al piccolo Puerto Edén sull’isola di Wellington, dove l’Evangelistas da fondo all’ancora nella piccola rada protetta da isolotti, il mattino del giorno dopo, il tempo necessario per permettere alle barche locali di caricare i rifornimenti per i duecentotrenta abitanti, in parte di origine kaweshkar, che lì pescano molluschi e centollas. I granchi giganti che sono la delizia dei ristoranti della costa cilena.

Se non fosse per i traghetti che fanno la spola tra Puerto Montt e Puerto Natales e viceversa, i discendenti degli antichi kaweshkar che vivono sulla costa dell’immenso Parco nazionale Bernardo O’Higgins sarebbero del tutto isolati dal resto del mondo. Nella sconfinata terra totalmente inospitale e disabitata che è compresa tra i due porti, e in una regione, la Patagonia, che registra una densità pari a 0,4 abitanti per chilometro quadrato e un totale di seicentomila residenti.

E dove perfino gli uccelli che la popolano, un po’ come accade tutt’ora alle Galápagos nonostante l’ormai invadente turismo, non hanno ancora imparato a conoscere l’uomo e a temerlo. Dai cui rari esemplari umani avvistati sono al contrario incuriositi e attratti. Fino a posarsi a volte sul palmo delle loro mani.

Imbottigliati nello stretto tra il Paso del Indio e Angostura Inglesa, che immette nell’ultimo canale, il Messier, che porta al Golfo de Penas e finalmente all’oceano. Come già i loro antenati, che queste terre hanno popolato da diecimila anni. Che vivevano in capanne, ricoperti di pelli e pescando in un mare inclemente a bordo delle loro piroghe di legno sulle quali le donne alimentavano il fuoco perenne. La tierra del fuego avvistata più a sud da Hernán de Magallanes e da Antonio Pigafetta, nello stretto che divide la Patagonia dalla Terra del Fuoco, la cui scoperta permise di evitare l’inferno di Cabo de Hornos.

In un continuo veloce alternarsi di sole, nuvole basse, nebbia, venti impetuosi e calme repentine. Quanto effimere. E pioggia mista a neve.

Reportage dalla Patagonia, ballando sull’oceano, scivolando nei fiordi ultima modifica: 2016-12-20T22:09:33+01:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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