Tre sondaggi degli ultimi mesi hanno suonato un campanello di allarme per Evo Morales, attuale presidente della Bolivia il cui mandato scadrà nel 2019. Secondo la costituzione del paese, un altro giro gli è precluso. In questo senso si è anche espresso il popolo boliviano che ha respinto nel referendum dell’anno passato la proposta che avrebbe dovuto cambiare la carta fondamentale per permettere al leader indigeno di riproporsi per un nuovo mandato che lo vedrebbe al potere fino al 2025.
Secondo le rilevazioni demoscopiche condotte da Captuta Consulting, Morales otterrebbe solo il 28,4 per cento delle intenzioni di voto, mentre al secondo posto si collocherebbe l’ex presidente Carlos Mesa Gisbert, il quale otterrebbe un buon 23,4 per cento dell’intenzione di voto di boliviani.
Premesso che alle prossime consultazioni presidenziali mancano ancora due anni e che non è dato sapere se Mesa sia intenzionato a correre, il dato, pubblicato nel mese di dicembre dalla rivista Poder y Placer, fa riflettere. E ha messo in allarme l’ex leader cocalero. Dal momento che, come riporta il magazine, la somma di preferenze che otterrebbero i candidati oppositori raggiunterebbe il cinquanta per cento, a fronte di un 21,7 per cento di indecisi o che comunque non lo voterebbero.
Secondo un altro sondaggio di IPSOS diffuso in Bolivia e che risale all’ottobre scorso, Morales otterrebbe il 44 per cento dei suffragi, mentre un candidato oppositore si situerebbe a solo un punto di distacco. E secondo sempre la stessa rilevazione, Mesa sarebbe il candidato dell’opposizione che riscuoterebbe maggiori possibilità. Che lo vedrebbero, come rilevato dall’ultimo sondaggio di Mercados y Muestras, probabilmente vincitore in un ipotetico ballottaggio con l’attuale inquilino di Palacio Quemado.
Tanti campanelli di allarme per Morales e il Movimiento al Socialismo (MAS), la formazione politica che lo supporta, tanto più che secondo tutte le rilevazioni quasi mai Evo ha goduto di un favore elettorale inferiore al quaranta per cento, e meno ancora al di sotto del trenta per cento, come parrebbe stando ai recenti sondaggi.
Già dopo la sconfitta di misura al referendum costituzionale del febbraio 2016, che Evo ha imputato alla disinformazione messa in atto dai nemici dell’impero, era emersa chiara una crisi di popolarità dovuta probabilmente ad alcuni scandali che hanno colpito il MAS per la vicenda di malversazioni legata al Fondo Indigena, e per il culebrón (la telenovela) che ha coinvolto lo stesso presidente per i suoi legami con l’avvenente Gabriela Zapata (di cui ytali ha a suo tempo parlato).
Che Evo nei suoi dieci e più anni di governo abbia ottenuto risultati tangibili, è fuor di dubbio. Basterebbe ricordare che è riuscito a portare il reddito medio procapite dai circa 800 dollari ai 3200 circa attuali, creando i presupposti per la nascita di una nuova classe media. Ma è opinione corrente a La Paz che la sua spinta si sia in qualche misura esaurita, e che il sistema sia infettato da una diffusa micro corruzione e appesantito da funzionari incapaci premiati solo per la loro fedeltà politica.
Non a caso, già all’indomani del referendum, Evo aveva parlato di una necessaria correzione di rotta che almeno sul piano della compagine di governo è avvenuta nelle scorse settimane. E alle cui origini si pone il congresso del MAS svoltosi nello scorso dicembre a Montero, dove si è deciso di riproporlo ancora una volta come candidato presidenziale per il 2019.
Senza forzature, evidentemente, ma ricercando una qualche formula legale, tra le quali non si escludono le dimissioni del presidente in carica prima della scadenza naturale del mandato. La qual cosa potrebbe permettergli di ripresentarsi per la quarta volta. Del resto, lo stesso presidente ama ricordare che la rivoluzione oggi si fa col voto del popolo, e ha più volte assicurato che cercherà una strada legale. Il che, in un paese come la Bolivia, la cui storia trasuda di colpi di stato e di violenza, è già di per sé un elemento confortante.
Se quindi il congresso di Montero è stato il primo passo in cui Evo ha rinsaldato il MAS sulla sua persona, il secondo è stato l’ampio riassetto della compagine dei ministri che fanno parte del suo gabinetto. Quello che ha colpito di più gli osservatori è stata l’uscita di uomini forti come David Choquehuanca e Juan Ramón Quintana.
Di Choquehuanca, uomo di esperienza, ex ministro degli esteri e una sorta di padre politico del presidente, si è anche parlato come possibile piano B come candidato alle elezioni presidenziali in caso la crisi di Morales fosse destinata ad accentuarsi. Anche se i boatos che hanno girato insistentemente a La Paz sono stati smentiti dopo un po’ dallo stesso interessato, intervenuto a motivare la sua scelta con il desiderio di tornare a lavorare alla base del movimento.
Da parte sua Evo, in una dichiarazione ai giornali, ha liquidato la questione dicendo che rimpiangerà le lunghe partite di scacchi fatte con Choquehuanca durante i loro lunghi viaggi aerei, tralasciando di commentare le notizie, provenienti da almeno un paio di fonti dell’esecutivo, che davano Choquehuanca come il perdente della contesa che lo avrebbe contrapposto al potente vice presidente Álvaro García Linera.
Se il rimpasto ha dunque cambiato profondamente la squadra di governo, portando quattro donne al rango di ministro (tra le quali la giornalista Wilma Alanoca alla cultura) e tre indigeni (tra cui il nuovo ministro degli esteri Fernando Huanacuni), esso ha corrisposto alla necessità di Morales di dare una nuova linfa alla compagine, per la quale il 2016 ha rappresentato l’anno più difficile da tanto tempo.
A causa della frenata dell’economia, innanzitutto. Al cui modello misto di libero mercato e impresa statale non si vuole comunque rinunciare, come testimonia la nomina di Luis Arce Catacora a ministro. Tanto più che lo stesso Evo, a fronte del neo protezionismo di Trump e alla globalizzazione, ha recentemente proposto il modello boliviano come esempio esportabile nel resto del mondo, nonché panacea di tutti i mali di cui soffrono le economie del pianeta.
Poi per la corruzione dilagante e la crisi dell’acqua, che ha costretto al razionamento nella capitale e a provare col bombardamento delle nubi per far piovere. E alla richiesta da parte di ampi settori dell’opinione pubblica delle dimissioni, alla fine ottenute, della ministra responsabile, che è accusata di aver promosso incapaci a gestire la rete idrica.
Con il pensiero alle nuove elezioni del 2019, Evo, che a dicembre ha festeggiato i sette anni dello Stato Plurinazionale, attraverso il rimpasto e i reiterati interventi contro la micro corruzione, ha voluto presentarsi come uno che sa rinnovarsi e che al contempo trascina, stimolando, l’economia boliviana.
A chi promettendo un nuovo aeroporto internazionale; con altri inaugurando l’ennesimo campo di calcio con erba artificiale in paesini sperduti, Evo non ha perso l’abitudine di convocare le riunioni politiche e di governo nel Palacio Quemado all’alba. Per dare di sé e del suo governo l’aria di gente che non cincischia. E per potersi dedicare a un’incessante campagna elettorale che lo porta in giro per il paese il resto della giornata. Dove presenzia a bagni di folla, ai quali è fatto obbligo di partecipare agli impiegati pubblici. O a inaugurazioni di opere, come quella, recente, a El Alto che ha riguardato l’impianto di ricerca nucleare a fini civili.
L’immagine in cui compare di più nel suo paese, dove il suo faccione campeggia a ogni angolo in cui si scavi una buca pubblica e ossessiona i passeggeri in ogni navetta del Teleférico di La Paz, lo ritrae sorridente con un caschetto da operaio in testa. Quando non è la volta che si propone in poncho, in versione etnica, con l’accompagnamento musicale di suonatori indigeni a rendere onori alla Pacha Mama.
Come è accaduto giorni fa a Orinoca, il suo paese natale, seicento abitanti a tre ore da Oruro, dove, commosso fino al punto di non poter concludere il suo discorso, ha inaugurato il Museo de la Revolución Democrática y Cultural, che espone più di centomila pezzi, tra cui tredicimila regali che ha ricevuto durante il suo governo e un numero infinito di magliette da calcio, lo sport che adora e che lo ha visto allenare. [Nelle immagini l’inaugurazione del museo di Orinoca]
Il fatto è che è costato la bellezza di cinquanta milioni di bolivianos , al cambio odierno più di sei milioni e mezzo di euro. Non una bazzecola, un inecesario despilfarro ha tuonato il senatore di Unidad Demócrata, Arturo Murillo, sul suo profilo Facebook. Uno spreco non necessario, tanto più che viene lecito chiedersi da chi potrà mai essere visitato un simile museo in un paesino sperduto.
Difficile non prestare attenzione alle trombe dell’opposizione in un paese povero d’infrastrutture ospedaliere e scolastiche. E anche questo ultimo caso parrebbe rientrare in una sorta di escalation sulla via che Evo ha intrapreso, che alla fine lo deve accreditare come un uomo che può nascere solo ogni cento anni nel paese, e che sarebbe folle non ricandidare alla massima carica dello stato.
Un’apoteosi, già iniziata tempo addietro, fatta d’inaugurazioni di monumenti pubblici, tra cui spiccano alcuni dedicati agli umili genitori che gli hanno dato i natali. E che poggia sul mega progetto, la grande opera, come suggello della straordinarietà dell’epoca inaugurata con la sua presidenza.
Come il mega stabile che sta sorgendo proprio dietro a Palacio Quemado in Plaza Murillo a La Paz. Destinato a soffocare il pregevole edificio originario con la sua incombente mole e a ospitare gli uffici della presidenza, pomposamente battezzato el Palacio del Pueblo. O come i trecento milioni di dollari investiti nel satellite di fabbricazione cinese che, stando alle promesse, avrebbe dovuto risolvere il problema delle comunicazioni e portare in tutto il paese internet gratis. Del cui destino, si mormora a La Paz, si sa poco o niente.
Tante luci e ombre sul cielo del paese che renderanno non facili i propositi del presidente politicamente più longevo e il primo indigeno della storia della Bolivia moderna.

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