Domenica 19 febbraio poco più di dodici milioni e ottocentomila ecuadoriani saranno chiamati a eleggere il presidente del paese sudamericano, i centotrentasette membri dell’assemblea nazionale e i cinque rappresentanti del parlamento andino. Un totale di otto candidati si disputano la massima carica politica che sarà chiamata a governare il paese per i prossimi quattro anni, chiudendo il decennio di governo di Rafael Correa.
Col loro voto, gli elettori del piccolo paese sudamericano dovranno decidere se dare continuità al progetto anti neoliberista di Correa che con la sua Alianza País, nata nel 2006, nel decennio in cui ha governato, ha ripreso il controllo pubblico sulle risorse naturali del paese. In primo luogo del petrolio di cui l’Ecuador è esportatore, mantenendo un investimento pubblico pari al 25 per cento annuo, stimolando l’economia il cui prodotto interno lordo è aumentato dai 46 milioni di dollari del 2007 ai 110 registrati l’anno scorso.

Rafael Correa, Presidente Constitucional de la República del Ecuador
Fin dai primi anni del suo governo e grazie alle entrate derivanti dal petrolio, Correa è riuscito a ridurre di due milioni il numero di poveri, aumentare del 700 per cento la spesa per la salute pubblica e del 400 per cento quella dell’educazione, portando il tasso di disoccupazione a 4,5 per cento, uno dei più bassi dell’intera area. In seguito il costo del petrolio è passato da poco più di cento dollari al barile degli inizi del suo governo, ai circa 20. Per situarsi per l’anno corrente, secondo le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, sui cinquanta dollari.
Crollo del prezzo del barile, terremoti che hanno colpito il paese, e in ultimo il fenomeno de El Niño hanno causato una forte frenata all’economia ecuadoriana a partire dal 2015. E sono cominciati i problemi. Secondo uno studio del 2016 di Eurasia Group, Rafael Correa lascia al suo successore uno stato le cui finanze sono fragili, e i cui debiti per pagamenti arretrati a imprese private ammontano a quattromila milioni di dollari. Per non parlare degli ancor più consistenti debiti che il Banco Central ha nei confronti dei governi della Cina e della Thailandia, in primo luogo.
Se al momento del suo arrivo al potere Correa aveva trovato un numero di 400 mila disoccupati, alla fine del suo mandato, come ricorda l’Instituto Nacional de Estadística y Censo, lascia sul campo circa mezzo milione di senza lavoro, al quale vanno aggiunti un milione e mezzo tra sottoccupati, lavoratori occasionali o con cespiti incerti.
È stato così che la crisi del petrolio della metà del 2014, come già la diminuzione dei prezzi delle materie prime per le altre economie latinoamericane esportatrici, ha messo a nudo la fragilità del modello su cui molti paesi governati dalla sinistra in sud America hanno legato le loro fortune. E in Ecuador si è tradotta in un’ondata di licenziamenti che le imprese sono state costrette ad attuare per far fronte alla situazione, recentemente aggravata anche dall’apprezzamento del dollaro statunitense.
Ciò detto, Correa è comunque riuscito a mettere fine a un’epoca turbolenta del suo paese, che aveva visto ben tre presidenti alternarsi al potere prima di lui, e che soffriva di una profonda instabilità economica. Una situazione di insostenibile inflazione che ha portato nel gennaio del 2000 alla decisione di abbandonare il sucre ecuadoriano per il dollaro statunitense, facendo dell’Ecuador il primo paese al mondo che ha rinunciato ad avere una propria moneta e che si è consegnato mani e piedi alle politiche della Federal Reserve.
La dollarizzazione, come viene chiamata, è stata del resto sempre vista da Correa come la peggiore sciagura, tanto che tempo addietro aveva perfino promesso che il paese sarebbe tornato ad avere una propria valuta. Il che non è successo durante il suo governo perché, come ha avuto modo di giustificarsi, tutte le attività sono in dollari e il paese avrebbe patito una crisi gravissima. E che pare non succederà con il prossimo, visto che al ritorno a una moneta nazionale sembrano disinteressati gli attuali candidati alla presidenza, ivi compreso quello del partito di Correa. Al quale va comunque dato atto della crescita registrata dal paese che ha permesso di avviare una politica di incremento delle opere pubbliche e infrastrutturali, soprattutto nel settore idroelettrico. Ciò almeno fino alla metà del 2014. Questo il lascito di Rafael Correa sul piano economico
Su quello politico, chi gli succederà a Palacio de Carondelet di Quito dovrà affrontare e risolvere la diffusa situazione di corruzione che sembra aver prosperato durante gli ultimi dieci anni di governo. Lo scandalo più grosso ha colpito perfino l’ex ministro Carlos Pareja, due ex direttori dell’impresa statale Petroecuador e alcuni alti funzionari, accusati di essersi appropriati di dodici milioni di dollari di fondi pubblici.
E a poca distanza di tempo, un altro scandalo ha colpito un collaboratore dell’ex vice presidente Jorge Glas che aveva richiesto tangenti in cambio del rinnovo di alcune frequenze radiotelevisive.
Qualunque sarà l’esito delle prossime elezioni, Rafael Correa nella campagna elettorale che si è aperta lo scorso 3 gennaio e che si conclude il 16 febbraio prossimo, non è stato con le mani in mano. Giovedì della scorsa settimana ha colto l’occasione per affermare che, in caso di vittoria del candidato di Alianza País Lenín Moreno, già suo vice presidente, la sinistra latinoamericana potrà recuperare slancio e porre freno all’avanzata conservatrice nella regione.
“In un momento nel quale – ha ricordato ai giornalisti – la regione deve affrontare le politiche del nuovo governo degli Stati Uniti”. E che ha già visto un recente cambio di segno politico in paesi importanti come il Brasile, l’Argentina e il Perù. Un’area in cui la caduta dei prezzi delle materie prime, e quindi la frenata dell’economia, unita agli scandali, può costituire una miscela esplosiva. Ultimo, in ordine di tempo, quello della costruttrice brasiliana Odebrecht che ha già coinvolto le leadership di vari paesi latinoamericani, facendo profilare ieri, ultimo in ordine di tempo, il carcere per l’ex presidente peruviano Alejandro Toledo. E gettando ombre anche sull’elezione del colombiano Santos, premio Nobel nel 2016.
Tuttavia, il 19 febbraio prossimo gli ecuadoriani saranno chiamati non solo a eleggere il loro nuovo presidente, ma a votare anche se sia permesso o meno a chi ha a che fare con il governo del paese di avere beni o capitali nei paradisi fiscali. Una consultazione pensata nell’agosto passato come risposta alle rivelazioni dei cosiddetti Papeles de Panamá, che hanno coinvolto in imprese off shore alcuni funzionari del governo e l’ex ministro degli Idrocarburi Carlos Pareja Yannuzzelli, che si è reso uccel di bosco.
Stando all’opinione di molti osservatori a Quito, la consultazione sembrerebbe essere una meditata strategia tesa a permettere al governo di Correa di intervenire in campagna elettorale. È convinzione abbastanza diffusa, infatti, che Correa abbia in mano due buone carte per sostenere il suo vice Lenín Moreno. Il quale rimane comunque il favorito in tutti i sondaggi pubblicati.
La prima, è rappresentata dalla grande frammentazione dell’opposizione, divisa in ben sette candidati, tra i quali i più forti sono sicuramente Guillermo Lasso e Cynthia Viteri. Lasso, candidato per Alianza Creo-Suma, ha alle sue spalle una lunga carriera nel settore bancario, e ha rinunciato alla presidenza del Banco de Guayaquil pur di partecipare alla corsa presidenziale. Guarda caso possiede da vari anni una banca a Panama.
Da qui il secondo asso in mano a Correa. Ovvero la parallela consultazione che riguarda i capitali all’estero. Se, com’è pensabile, sarà approvata, consentirà di accusare Lasso come antipatriottico. Non solo durante la campagna, com’è avvenuto, ma anche in caso di vittoria. Con tutte le conseguenze intuibili.
Tutte le rilevazioni demoscopiche concordano nel posizionare Lenín Moreno al primo posto, ma con una tendenza al ribasso. Seguono a una certa distanza Guillermo Lasso e la socialcristiana Cynthia Viteri (che l’ultima rilevazione dell’8 febbraio da addirittura in testa su Lasso). Moreno, che sta su una sedia a rotelle e che si è speso parecchio come vice presidente per un programma di assistenza ai disabili, sfoggia un buon carattere, che per certi versi gli può aver fatto gioco in campagna.
Tutto il contrario di quello esibito da Correa che è considerato esplosivo. E che pochi giorni fa ha minacciato di ripresentarsi nuovamente nel 2021, per far vedere i sorci verdi alla destra. Se le sfuriate di Correa hanno contribuito a farne un personaggio, conferendogli un carisma indubitabile in tutto il paese, l’affabile carattere di Moreno e le sue buone maniere l’hanno probabilmente penalizzato. Facendo sì che la sua leadership, a confronto con quella espressa dal fumantino ex missionario seminarista che fino ad ora ha occupato Palacio de Carondelet, possa apparire alla fine scialba.
Salvo sorprese, dalla tornata del prossimo 19 febbraio si andrà al ballottaggio, con una Alianza País che avrà fatto il pieno dei suoi voti al primo turno (votare è un obbligo di legge per gli ecuadoriani) e che dovrà in qualche modo aprire nei confronti dei settori politici non radicalmente ostili. Quanto agli altri sei candidati che si presentano per la carica di presidente e che non andranno al ballottaggio, la scommessa è se sapranno superare le divisioni e confluire sul nome del candidato che forse potrebbe metter fine a dieci anni di “correaismo”. Nel bene e nel male, un’era geologica nella storia instabile del paese.

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