Le cronache di queste ore riferiscono che maggioranze e minoranze piddine rischiano di implodere sui tempi di un congresso già fissato e sul sostegno più o meno convinto al governo Gentiloni che nasconderebbe velleità da voto anticipato. I più maliziosi delle minoranze pensano che sarebbe meglio tenere il congresso dopo le elezioni amministrative (tra cui venticinque capoluoghi) del prossimo aprile/giugno perché Renzi potrebbe uscirne ulteriormente ammaccato e sconfitto.
Il rumore di sciabole che s’ode nell’aria può appassionare i più giovani o far tornare giovane chi ha vissuto altre temperie della sinistra (per la verità, con ben altro livello di contenuti e protagonisti). La storia della vecchia e nuova sinistra è stata infatti sempre segnata da dispute ideali e teoriche, oltre che da competizione tra strategie diverse che erano il sale e il pepe della politica. Questa volta – se ci sarà scissione nel Pd – si tratterà di un divorzio per incompatibilità politiche che durano da almeno quattro anni (da quando Renzi, a sorpresa per i più, divenne segretario vincendo le primarie) e in parte per ragioni di pedigree (le origini diverse delle varie componenti).
Ma si può rompere un partito sui tempi di un congresso e sulle sue connessioni con la vita del governo e della legislatura? Meglio sarebbe ammettere che è fallito il progetto Pd, l’idea cioè di far convivere in un “partito unico” i filoni delle tradizioni politiche italiane: comunismo, cattolicesimo popolare, socialismo e perfino istanze laiche da Giustizia e libertà. Si trattava di un progetto certo ambizioso, tuttavia forse irrealistico conoscendo la storia politica italiana. Ammettere questo fallimento darebbe perfino più spessore alla eventuale scissione e anzi permetterebbe a un centro e a una sinistra di tornare a parlarsi e ad allearsi il giorno dopo senza la costrizione della gabbia del partito unico e delle sintesi impossibili tra culture diverse.
Il progetto del Pd in dieci anni ha vivacchiato per un po’, poi ha perso alcuni soci fondatori: in primis Prodi e Rutelli, dopo ha messo fuori gioco pure Veltroni che più di altri aveva puntato sul modello americano e kennediano di partito. Con l’avvento imprevisto di Renzi quasi quattro anni fa, il Pd era sembrato riprendere vigore nonostante l’ex sindaco di Firenze venisse considerato fin da subito un intruso nella “ditta” e un occupante abusivo della poltrona di segretario.
Renzi, invece, era l’ultima chance per raddrizzare un progetto già agonizzante: la vittoria del “rottamatore” era frutto della disperazione degli elettori e degli iscritti piddini che avevano vissuto la fine dei governi Prodi e D’Alema e delle segreterie Veltroni, Franceschini, Bersani. Dopo quella elezione a segretario, è iniziata l’incomunicabilità – degna dei migliori film di Antonioni – tra le varie componenti del partito, con la variante che i renziani aumentavano di numero e la minoranza si divideva in più correnti.
Lo schianto di Renzi sul referendum ha riaperto paradossalmente i giochi all’interno del Pd e li ha complicati maledettamente fuori, nel quadro politico. Renzi ci ha messo inoltre del suo con azzardi tattici e sicumera narrativa, oscillando vistosamente al centro e giocandosi tutto nel referendum.
Se per un attimo infine lo sguardo si volge all’indietro e ridiventa lungo per capire quanto sta accadendo nel tempo corto, chissà che il vizio d’origine non stia neppure nella nascita del Pd. Bensì nella “svolta” che accompagnò la morte del Pci: troppo poco “socialista” sul modello delle altre società avanzate d’Europa e troppo “nuovista” tra inedite carovane e sogni americani.

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