Governo e migranti. Cambiare il linguaggio, cambiare la sostanza

NUCCIO IOVENE
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Nella discussione sulla crisi della sinistra di questi giorni è emerso come uno dei suoi sintomi più evidenti la subalternità e l’omologazione del linguaggio che ha finito per rendere sempre meno chiare e percepibili differenze e proposte nello schieramento politico, ed in particolare con la destra. Sull’immigrazione questa subalternità e omologazione è ancora più drammatica e evidente. Un vero e proprio nervo scoperto del linguaggio utilizzato.

Il consiglio dei ministri ha varato la scorsa settimana un decreto legge, parte di un piano più ampio, sull’immigrazione predisposto dal ministro dell’interno, Marco Minniti. Il suo contenuto (già anticipato all’indomani del suo insediamento al Viminale) è stato presentato alla riunione congiunta delle commissioni affari costituzionali di camera e senato nei giorni scorsi che ancora non ne hanno terminato l’esame. Nell’anticiparne il contenuto il Sole 24 ore del 10 febbraio titolava: “Decreto immigrazione, spunta l’affondamento dei barconi”. E la memoria corre alle terribili parole che i leghisti hanno utilizzato negli anni passati fino alla richiesta di aprire il fuoco al loro avvistamento.

La verità è che sul tema, sempre più centrale per le dinamiche demografiche e migratorie che investono il pianeta, hanno pesato in questi anni comportamenti altalenanti e scelte spesso contraddittorie, condizionate dalla presenza di una maggioranza di governo eterogenea e su questo punto impegnata a mostrare, l’uno all’altro, la propria capacità di condizionamento tra alleati.

Negli scorsi giorni il regista Ermanno Olmi, il presidente della commissione diritti umani del senato Luigi Manconi, lo scrittore Nicola Lagioia, l’attore Alessandro Bergonzoni, i giornalisti Giovanni Maria Bellu e Beppe Giulietti (segretario della FNSI) hanno indirizzato una lettera a Gentiloni e ai presidenti di camera e senato per denunciare l’utilizzo improprio del termine “clandestino”, come sinonimo di migrante non regolare, nel recente trattato sottoscritto da Italia e governo libico.

Un termine giuridicamente infondato e contenente in sé un giudizio negativo e aprioristico, come ricorda la Carta di Roma adottata nel 2011 per una corretta informazione sui temi dell’immigrazione, soprattutto nei confronti di coloro i quali richiederanno, una volta arrivati nei Paesi europei, asilo.

All’appello ha immediatamente risposto, positivamente, la presidente della camera dei deputati Laura Boldrini che ha ribadito “la necessità di usare le parole in modo corretto e tale da non alimentare, nemmeno inconsapevolmente, pregiudizi e ostilità”.

Altro errore (?) si è dimostrato subito il riutilizzo, da parte del ministro dell’interno, del termine CIE (i famigerati Centri di Identificazione ed Espulsione) per la nuova rete di centri che intende istituire. La memoria non poteva non riportare tutti all’obbrobrio (umano prima che giuridico) che questi hanno rappresentato negli ultimi vent’anni.

Minniti è dovuto correre ai ripari e, seppure tardivamente, dice addio ai CIE e parla ora di CPR (Centri per il rimpatrio), di piccole dimensioni e distribuiti su tutto il territorio, a cui sarà garantito l’accesso illimitato al garante per i detenuti. Alla luce di queste contraddizioni permanenti si capisce anche perché, nonostante il ministro Graziano Del Rio abbia partecipato nei giorni scorsi al sit-in promosso dalla campagna “L’Italia sono anch’io” per sollecitare l’approvazione definitiva della legge sulla cittadinanza per i figli degli immigrati nati nel nostro Paese, questa sia ferma, bloccata, da oltre un anno al senato.

Anche il CIR (il Consiglio Italiano per i Rifugiati) intervenendo sui contenuti del piano proposto dal governo ha sollevato una questione di linguaggio che ha significativi risvolti di merito ricordando che se “è giusto favorire l’integrazione dei richiedenti asilo, oltre che attraverso l’apprendimento della lingua e della formazione professionale anche attraverso la proposta di lavori socialmente utili e altre tipologie di impiego: l’inattività allontana i richiedenti asilo dal loro potenziale di integrazione.

Il ministro ha parlato di lavori socialmente utili non retribuiti, in questo caso crediamo sarebbe opportuno parlare di attività di volontariato. Più in generale -sottolinea ancora il CIR- diciamo che non si può concordare su nessuna ipotesi che renda il lavoro socialmente utile obbligatorio ai fini dell’accoglienza.

Inoltre, non si può assolutamente legare il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria al presupposto di un lavoro del richiedente o del suo impiego in lavori socialmente utili. Questi sono principi incompatibili con le normative internazionali e nazionali.” Anche sui temi dell’immigrazione le parole sono pietre e quando per chiarire quello che si vuole dire bisogna precisare e smentire continuamente, mentre i messaggi celano e appannano le differenze il danno compiuto diventa enorme.

Governo e migranti. Cambiare il linguaggio, cambiare la sostanza ultima modifica: 2017-02-22T11:44:09+01:00 da NUCCIO IOVENE
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