Doveva essere la notte degli Oscar anti Trump e invece The Donald deve essersela proprio goduta, forse già appallottolato nel suo favoloso accappatoio bianco quando il campione della Hollywood liberal Warren Beatty proclama il miglior film… “sbagliato”. Per un banale scambio di buste, pare. Ma la figuraccia resta, in diretta televisiva mondiale. Parafrasando il Grande Timoniere: grande la confusione sotto il cielo, situazione di merda. E una delle varie portavoci chiosa malignamente che Lui, il Presidente, ha cose ben più importanti da fare. Forse annunciare l’immediata invasione di uno di quei pianeti dove si è di recente ipotizzata l’esistenza di acqua. E dunque di vita.
Al netto dell’incidente alla Clouseau (l’ispettore, ovviamente), il verdetto dell’Academy Awards non fa una grinza, quasi ecumenico nel premiare le diverse anime del miglior cinema (indipendente, oltretutto) che è appena stato. Accoglie le proteste della comunità afroamericana, storicamente ai margini dei premi e non sempre opportunamente assecondata dagli studios, premiando appunto quale miglior film dell’anno l’all black e davvero bello“Moonlight” di Barry Jenkins, le tre età di una complessa formazione sentimentale. Ridimensiona il sovrastimato musical “La La Land” di Damien Chazelle, non certo Busby Berkeley, assegnandogli soltanto sei delle quattordici statuette pronosticate (tra le quali, comunque, quelle pesanti per la migliore regia e per la migliore attrice protagonista, la brava Emma Stone, oltre naturalmente a musiche e canzoni). Riconosce miglior attore protagonista il Casey Affleck dell’intenso e dolente “Manchester by the Sea”, quasi una parafrasi minimalista del nuovo disagio nazionale, in chiave introspettiva ma autenticamente emozionale. E come da copione proclama miglior film straniero “Il cliente”, opera spessa dell’iraniano Asghar Farhadi, in assenza del regista, che manifesta così il suo profondo dissenso nei riguardi delle misure disumane varate dall’amministrazione Trump ai danni delle comunità musulmane. Se di verdetto in buona parte anche politico si tratta (in una serata peraltro meno polemica del previsto e sfortunata, quando non cialtrona), bisogna dire che il rispetto per le qualità propriamente filmiche c’è stato. Forse più che in passato.
Un po’ di rammarico, in chiave nazionale, per l’Oscar mancato di “Fuocoammare”, che peraltro di strada ne ha fatta parecchia, portando nel mondo l’immagine di un’Italia non stereotipata. Un Paese che, grazie all’esempio di Lampedusa, riesce a vivere con consapevole solidale empatia il dramma delle migrazioni. Ancora grazie a Gianfranco Rosi. E si scopre, a sorpresa, che altri due italiani, sin qui noti soltanto agli addetti ai lavori, si portano a casa qualcosa: Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini premiati, insieme a Christopher Nelson, per il make up di “Suicide Squad”. Ora che sono (quasi) famosi, buttate un occhio alle loro filmografie: anni di duro lavoro e di qualificata professione, due talenti con la valigia migrati – con successo – nella mecca del cinema, partecipi di quel “sogno americano” che continua a restare ambiguamente affascinante. O fascinosamente ambiguo. In pillole: uno su mille ce la fa versus tutti ce la possono fare. L’America e l’Altra America. Quella ingorda che chiude le frontiere e quella che continua a credere nella loro apertura.
Hollywood inciampa sulla busta sbagliata ma mostra ancora di sapere qual è la cosa giusta.