A ’s-Hertogenbosch (Boscoducale), vivace centro culturale e commerciale del Ducato di Brabante, intorno al 1450 nacque Jheronimus Bosch, il più immaginoso dei pittori olandesi, e lì, nella cattedrale di San Giovanni, con una messa officiata solennemente, il 9 agosto del 1516 gli resero l’estremo saluto parenti, amici e “fratelli del cigno”, membri della confraternita dell’élite cittadina cui era iscritto. Cinquecento anni dopo, il Noordbrabants Museum del paese natale e il Prado di Madrid, che conservano il maggior numero di suoi lavori, l’hanno omaggiato con due grandi retrospettive; e le celebrazioni continuano anche quest’anno, con la mostra dossier Jheronimus Bosch e Venezia, l’unica città italiana che possiede tre opere di sua firma, restaurate di recente e ora esposte in Palazzo Ducale fino al prossimo 4 giugno.
Sono i due trittici con Il martirio di santa Ontocommernis e i Tre santi eremiti, e l’insieme unico di quattro pannelli intitolato Paradiso e Inferno (Visioni dell’Aldilà̀), emersi nel 1615 da una delle otto casse stivate nei sotterranei della residenza dogale, in cui si ritiene fosse contenuta l’intera collezione di pitture lasciata in eredità alla Serenissima Repubblica dal cardinale Domenico Grimani, figlio del 76esimo Doge e deceduto nel 1523.
I dipinti in questione, dopo il loro ritrovamento, furono collocati nell’appartamento del Doge e lì sono rimasti per oltre due secoli, finché nel corso dell’Ottocento, sotto il dominio asburgico, i trittici vennero decentrati a Vienna, e le Visioni alle Gallerie dell’Accademia. Riuniti tutti nella storica sede veneziana tra il 1919 e il 1930, nel 2010 sono passati ufficialmente in gestione alle Gallerie dell’Accademia, in seguito all’istituzione dei Poli Museali Regionali.

Jheronimus Bosch, Polittico delle Visioni dell’Aldilà 1505-1515 circa © Archivio fotografico Gallerie dell’Accademia, “su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia”
Bernard Aikema, curatore della mostra, include i Bosch veneziani nel suddetto lascito cardinalizio sulla base di un memorandum del letterato e collezionista d’arte Marcantonio Michiel, che nel suo manoscritto del 1521 Notizia d’opere di disegno (custodito alla Biblioteca Marciana) scriveva di aver visto in casa Grimani
La tela de l’Inferno cum la gran diversità de monstri fo de mano de Hieronimo Bosch. La tela delli Sogni fo de man de l’instesso. La tela della Fortuna cum el ceto che ingiotte Giona fo de mano de l’instesso.
Se la citazione dell’Inferno e dei mostri può adattarsi alle due tavole degli inferi e la “tela delli Sogni” a quelle celestiali, va rilevato che i dipinti dell’Aldilà non sono due ma quattro e che di tavole si tratta e non di tele: imprecisioni del compilatore? La “tela della Fortuna” si può presumere sia andata perduta senza lasciare traccia; mentre i due trittici citati, entrambi firmati sulla tavola centrale, evidentemente stavano altrove.
Annotazioni tuttavia interessanti, perché unite a quelle che Michiel fa su altre raccolte veneziane, sono testimonianza dell’affermarsi del gusto per l’arte fiammingo-tedesca, in virtù dei rapporti di scambio commerciale tra la laguna, il Nord Europa e in particolare le Fiandre; ed è documentata la circolazione di stampe e incisioni nel primo Cinquecento, che tra l’altro favorì una reciproca contaminazione tra artisti di ambito veneto e nordico.
A tal proposito la mostra si sofferma su Daniel van Bomberghen – proveniente da una famiglia di mercanti di Anversa che trafficavano in merci preziose – il cui padre, a fine Quattrocento, aveva avviato a Venezia un’industria tipografica, oltre a un commercio di arazzi. Daniel, insieme al fratello Antonis, ereditò l’attività paterna e nel 1515 ottenne dalla Serenissima il monopolio editoriale dei testi sulla cultura giudaica e di contenuto scientifico, privilegio mantenuto per decenni. Amante anche delle arti, divenne intermediario per gli eruditi che s’incontravano nella sua tipografia. Del prelato è esposto lo straordinario breviario prodotto nelle Fiandre nel 1515-1520, qui protetto in una teca, composto di 832 fogli miniati in oro, tempera e inchiostro le cui immagini scorrono, una a una, in un video sovrastante.

Jheronimus Bosch, Trittico dei santi Eremiti Tavola laterale, 1495-1505 circa © Archivio fotografico Gallerie dell’Accademia, “su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia””
Sia stato o no il cardinale destinatario delle tavole di Bosch, sta di fatto che esse arrivarono a Venezia. Che la domanda fosse in auge lo conferma la ridipintura degli sportelli laterali del Trittico di santa Ontocommernis, nei quali i ritratti dei committenti (visibili nelle radiografie esposte: un’opera rifiutata?) sono stati sostituiti con il repertorio tipico del maestro olandese.
L’anticlassicismo di Bosch traeva linfa dalla crisi religiosa che aveva colpito tutta la cultura artistica europea: allo scadere del Quattrocento con le sconvolgenti predicazioni di Savonarola, e poi nei primi due decenni del Cinquecento, con Erasmo da Rotterdam che – spietato – svelava l’ipocrisia dei falsi fedeli. Uomo di fede, sì, ma riflessivo sugli usi e costumi del suo tempo, Bosch ha tracciato la sua morale generando inquietanti vedute infernali e allucinate ambientazioni sacre, animate da grottesche fantasie.
La narrazione allegorica era già nelle corde degli amatori colti veneziani che in loco commissionavano a pittori preminenti la raffigurazione metaforica di concetti metafisico-cristiani: basti ricordare L’amor sacro e L’amor profano di Tiziano, capolavoro di un nuovo classicismo, cardine di una modernità che affidava la resa spaziale al colore, armonizzato su un tono dominante. Una convivenza di gusto, dunque, privilegiava il collezionismo lagunare.
Bosch proveniva da una famiglia di pittori e con i congiunti lavorò nella casa-bottega, affacciata sulla piazza maggiore, finché, intorno al 1480 – grazie al matrimonio con Aleid van de Meervenne, discendente da una facoltosa e altolocata famiglia, che lo elevò di rango e gli assicurò la tranquillità economica – aprì nella zona più aristocratica un proprio laboratorio, dove sono stati realizzati i lavori veneziani, collocabili nella produzione matura. Le famose quattro tavole con Visioni dell’Aldilà è probabile fossero ante esterne di un polittico, il cui elemento centrale forse era un Giudizio Universale. In due di esse i dannati spinti da demoni torturatori precipitano nel baratro di un sinistro paesaggio sulfureo, abitato da mostriciattoli e strani esseri, in un’atmosfera da incubo con fiamme che divampano.

Anonimo seguace di Jheronimus Bosch Tentazioni di sant’Antonio 1500 circa olio su tavola Venezia, Museo Correr © Archivio fotografico – Fondazione Musei Civici di Venezia
Viene da chiedersi se il ricorrere della raffigurazione di incendi non gli derivi da un trauma pregresso di quando, nel 1463, lui adolescente, il fuoco distrusse centinaia di case della sua città. Nelle altre due tavole le anime pie, immerse nel lussureggiante Eden dominato dalla fontana della vita, sono scortate dai santi agli angeli che le innalzano fino a un tunnel, che è un varco stagliato nel buio, un vortice di luce che porta alla salvezza.

Cornelis Cort (da) (Hoorn, 1533 – Roma, 1578) Ritratto di Jheronimus Bosch daPictorum aliquot celebrium Germaniae Inferioris effigies Ed. Hendrick Hondius all’Aja nel 1610 bulino Paesi Bassi, collezione privata © Archivio fotografico – Fondazione Musei Civici di Venezia
Nei due trittici anche i santi sono calati in surreali contesti altrettanto affabulati, circondati da bizzarre creature oniriche, che oscillano tra il buffo e il poetico.
La rassegna si concentra su un enigmatico universo immaginifico con una cinquantina di altre opere – dipinti, incisioni, disegni, manoscritti e volumi a stampa, marmi e bronzi – perlopiù appartenenti a collezioni pubbliche e private veneziane. Affinità con lo spirito del geniale olandese si vedono nei bulini di Marcantonio Raimondi, Giulio Campagnola e Schongauer, mentre l’ispirazione si fa popolaresca, tragicomica, in quelli mirabili dei Sette vizi capitali di Pieter Bruegel il Vecchio – della generazione successiva – del quale è risaputo che si esercitava copiando i disegni di Bosch.
Dei dipinti, ha uno svolgimento nobilmente graffiante l’Ecce Homo (1529 c.) di Quentin Massys, mentre si rivela concitata e disordinata la narrazione dei seguaci di Bosch. Un certo equilibrio compositivo e vigore espressivo si ritrova nel revival secentesco dei capricci barocchi di Joseph Heintz il Giovane (1600-1678), veneziano di adozione, ma nei suoi “strigossi” – come li definì lo scrittore e artista Marco Boschini nel 1674 – più nulla rimaneva della portentosa aura delle opere di Jheronimus Bosch, passato alla storia come il supremo “pictor gryllorum”.

da Pieter Bruegel il Vecchio (Breda, 1526-1527? – Bruxelles, 1569) Pieter van der Heyden (Anversa, 1550 – Berchem, 1572) I sette vizi capitali (L’Ira), 1558 Bruxelles, Koninklijke Bibliotheek van België, S.IV. 22001 Credit ©All rights reserved. Royal Library of Belgium

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