Da venerdì a Belgrado il parlamento ha smesso di funzionare, dopo un intervento della rappresentante europea Mogherini seguito dal coro d’insulti delle destre: niente paura, non si tratta dei prodromi di un colpo di stato ma della breve sospensione che coincide con la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, fissate per il 2 aprile. Sarà una campagna-lampo poiché tutto sembra già scritto, l’attuale primo ministro e capo del Partito del progresso (Sns) Aleksandar Vučić dovrebbe superare la metà dei votanti già al primo turno, anche se il ballottaggio è fissato per il 16 e al più tardi da quella data la Serbia si avvierà ad un periodo di stabilità politica del tutto inedito nella sua storia recente. Si apre il quinquennio dell’uomo solo al comando.
Aleksandar Vučić può piacere o meno, ma non gli si può negare una grande abilità politica unita a forti capacità comunicativa: in poco più di un decennio assieme al presidente uscente Tomislav Nikolić è riuscito a trasformare il vecchio partito radicale nazionalista, arrabbiato e isolato in una forza che sposando una linea diversa e molto più pragmatica oggi domina il Paese. Ad un certo punto il vecchio “Toma” aveva fatto i capricci minacciando di ricandidarsi se non avesse trovato un ruolo soddisfacente, ma Vučić l’ha rimesso subito in riga, forse diventerà ambasciatore a Mosca, per il momento taccia e si adegui. E attualmente i sondaggi prevedono che Vučić possa raggiungere il 52 per cento già al primo turno, e da quel momento in poi non gli resterà che indicare un primo ministro superfedele per decidere praticamente da solo le sorti del Paese.

Aleksandar Vučić e Tomislav Nikolić
L’opposizione come al solito ci sta mettendo del suo, e fa di tutto per frantumarsi rendendo ancora più facile la vittoria del primo ministro. Fino a pochi giorni fa i candidati alternativi erano Vuk Jeremić – ex ministro degli esteri, già presidente per un anno dell’assemblea dell’Onu, buona credibilità all’estero ma scarsa presa in patria – e Saša Janković, che aveva finito con il compromettere il ruolo di difensore civico lanciandosi in una guerra personale contro Vučić.

Vuk Jeremić e Saša Janković
Dimettendosi dall’ufficio, l’ex ombudsman aveva detto che si candidava “per garantire che la presidenza sia al servizio dei cittadini e non si un uomo solo” con il sostegno di otto fra partiti e movimenti, però subito dopo anche questa piccola galassia si è frantumata : nelle ultime ore hanno annunciato la candidatura anche Saša Radulović, leader del gruppuscolo di “Ora basta”, Nenad Čanak capo dei socialdemocratici della Vojvodina e si rimane in attesa di qualche pensionato e avventuriero dell’ultim’ora.

Saša Radulović e Nenad Čanak
Dunque, a meno di imprevedibili cataclismi, la Serbia si appresta a vivere un periodo di stabilità che non si verificava da molti, moltissimi anni. Rammentare il regime di Milošević sarebbe sbagliato, anche Slobodan dovette fare continuo ricorso ad alleanze di governo per tenere in mano il paese: una situazione del genere non si verificava addirittura dai tempi in cui Belgrado era capitale della Jugoslavia ed il capo dello Stato si chiamava Josip Broz, detto Tito. E per quanto il fatto risulti sorprendente in un Paese litigioso nel quale si usa dire “due serbi, tre partiti”, la novità è stata percepita così chiaramente dal ridurre tutte le ambasciate occidentali ad un prudente silenzio. Da mesi ormai non si odono voci critiche né dalle capitali europee né dal rappresentante dell’Unione, anche i rapporti con Mosca sembrano filare lisci, si sono acquietati perfino i petulanti vicini di Croazia. Tutti sembrano in attesa di vedere cosa farà il vincitore, e la lista delle cose possibili in effetti è molto lunga.
Fino al 2007 il Paese aveva attratto investimenti esteri diretti per oltre 21 miliardi di euro, poi il flusso ha rallentato per via di numerosi fattori ma adesso esistono tutte le condizioni perché tutto possa riprendere in maniera ancora più massiccia. La Serbia ha bisogno praticamente di tutto: rinnovare le proprie infrastrutture, rifare l’intera rete viaria, governare un fondamentale cambiamento energetico con il passaggio dall’energia elettrica al gas per le forniture civili, rivitalizzare un patrimonio industriale mummificato dalla crisi degli anni Novanta e dagli assurdi bombardamenti della Nato. E adesso a cambiare sarà anche la linea di priorità di quegli investimenti.
Fino ad oggi il settore più rilevante è stato quello dell’automobile, che ha rappresentato il 15,9 per cento del totale grazie soprattutto alla nascita di Fiat Srbjia, però l’accordo con la FAS scade nel 2018 e sul suo futuro nessuno fa previsioni. Seguono agricoltura ed alimentari con l’11,6 per cento ed il tessile con il 9,1. Bene, questa scala presto si rovescerà e vedrà balzare in alto settori come elettricità ed elettronica (oggi al 5,4 per cento) ed il finanziario (4,1), mentre le scelte di politica energetica stanno subendo una profonda revisione, anche a causa del fallimento del vecchio accordo con il governo italiano per una serie di centrali idroelettriche, che Roma non ha mai attuato.
Sul piano degli equilibri internazionali una presidenza Vučić nella sorda contesa fra Unione europea e Russia per il predominio sull’area sembra destinata a favorire l’Occidente pur senza perdere i legami con Mosca, anche se fra i due contendenti oramai si è fatta largo la Cina, che dopo aver costruito il famoso ponte sul Danubio nella capitale ha acquisito il controllo delle acciaierie di Smederevo e adesso cala in forze con l’apertura di una sede della Bank of China a Belgrado. Il panorama insomma è in grande movimento, le opportunità si moltiplicano:in un Paese nel quale il salario medio reale non raggiunge i 400 euro la ripresa viene vista come un miracolo, eppure dopo gli sconquassi dell’ultimo trentennio la Serbia oggi diventa il solo Paese politicamente stabile di tutto il Sud Est Europa. E questo economicamente paga.

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1 commento
L’analisi di Zaccaria lascia ben sperare sia per una dinamica imprenditoria italiana sia per un vero rilancio dell’economia serba.