“Vacanze romane” è il titolo tradizionalmente non political correct del quotidiano il manifesto che dà un giudizio severo e liquidatorio del vertice europeo svoltosi sabato a Roma. Questa volta però il titolo irriverente, che strizza l’occhiolino a un famoso film, rischia di essere inutilmente semplificatorio.
L’attesa per il summit sui sessant’anni dei primi Trattati europei non riguardava solo il pericolo di incidenti, che per fortuna non ci sono stati per la regia dei manifestanti e delle forze dell’ordine a dimostrazione che a differenza di Genova 2001 (governo Berlusconi-Fini) quando si vuole si può gestire l’alta tensione per un appuntamento politico controverso. L’attesa verteva soprattutto sulla vitalità o meno del progetto europeo, messo a dura prova da dieci anni di crisi economica senza precedenti, dal crescere delle forze cosiddette “populiste” (definizione quantomeno approssimativa) e dalla disaffezione delle opinioni pubbliche dei 27 paesi membri di cui la Brexit è l’esempio più eclatante.
Pur con tutti i limiti dei protocolli ufficiali e le imbalsamature di summit di questo genere, a guardar bene c’era tra i protagonisti – chi più, chi meno – la consapevolezza che a Roma era in gioco una delle ultime chance di rilancio dell’Unione europea. I discorsi di Gentiloni, Papa Bergoglio, dei presidenti Tusk e Muscat, del numero uno della Commissione europea Juncker, del presidente del Parlamento europeo Tajani non sono sembrati di pura occasione: non celavano la forte preoccupazione per l’incerto avvenire dell’Unione.
Di questo clima è frutto anche il documento finale (non scontato) firmato da tutti i 27 paesi. Pur in linguaggio “diplomatichese”, con gli equilibrismi che si usa in questi testi, difficilmente sono stati così espliciti in passato i riferimenti a tutela del welfare, diritti, lavoro, ecologia e sviluppo sostenibile, sicurezza e difesa comune, lotta alla povertà come bussola europea. Si è persino assunto un impegno formale non banale: “Ci impegniamo a dare ascolto alle preoccupazioni espresse dai nostri concittadini…
Promuoveremo un processo decisionale democratico, efficace, trasparente e risultati migliori”. Si fa riferimento inoltre nel documento finale alla libertà dei singoli paesi di scegliere “ritmi e intensità” differenti per procedere sulla strada della maggiore unità politica: un modo per non paralizzare l’Unione dai veti che possono venire dalle destre dell’Est (Ungheria, Polonia e Baltici in primis) o dividerla a tavolino in gruppi “a due velocità”.
Si passerà dalle parole ai fatti? Decisiva è la risposta che verrà dalla politica, a iniziare dall’esito delle elezioni (ravvicinate) in Francia e Germania e da quelle (nel 2018) in Italia, diventate – con la Spagna – realtà battistrada dell’Unione. Se a Parigi fosse sconfitta Marine Le Pen a favore del neocentrista ma europeista convinto Emmanuel Macron e a Berlino primeggiasse il socialdemocratico Martin Schulz (unità nazionale con cancelliere Spd o magari alleanza con Verdi e Linke?), il panorama europeo tornerebbe respirabile e potremmo assistere a qualche corposo sussulto in direzione dell’Europa sociale e politica.
L’incognita più incerta resta proprio l’Italia, dove non c’è ancora una legge elettorale, dove non c’è un nuovo centrosinistra, dove la sinistra non era così divisa dai tempi del craxismo, dove i grillini puntano spavaldi a palazzo Chigi e sono nei sondaggi il primo partito, dove la destra di Berlusconi e Salvini torna elettoralmente competitiva, dove il rischio ingovernabilità dopo le elezioni è quasi una certezza, dove si sente puzza di unità nazionale che bisognerebbe evitare. A Roma non c’è stare allegri.

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