Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman) è il vincitore del Premio Nobel 2016 della Letteratura. Il riconoscimento dell’Accademia di Svezia è ”per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana”. Dylan ritirerà la medaglia e il diploma del Premio Nobel per la Letteratura sabato o domenica a Stoccolma. Ad annunciarlo è stata la segretaria dell’Accademia svedese, Sara Danius. “L’Accademia svedese e Bob Dylan hanno convenuto di incontrarsi questo fine settimana” a Stoccolma, dove il cantante americano deve tenere un concerto, ha scritto Danius sul suo blog. “La cosa si farà in cerchia ristretta e non ci saranno rappresentanti dei media”, ha aggiunto. [articolo pubblicato ottobre 2016]
Il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan ha colto di sorpresa anche coloro che se l’aspettavano. Perché era da molto che lo aspettavano. Era dal 1993 che uno scrittore americano, anzi una scrittrice, Toni Morrison, non vinceva il Premio Nobel. Le voci in circolazione riferivano che l’Accademia di Svezia non avesse una grande opinione della letteratura americana, e in particolare della poesia. Poco internazionale, troppo concentrata su se stessa. A detta dei pacifici accademici di Svezia, la nazione la cui letteratura è forse la più letta al mondo non riusciva a superare la soglia di casa. L’ultimo poeta americano a vincere il Nobel, un americano che aveva preferito il ritorno in Inghilterra, era stato T. S. Eliot nel 1948. Seguito, è vero, da Faulkner nel 1949 e Hemingway nel 1954, e dalla Morrison nel 1993. Ma più nessun poeta.
Avevano ragione, lassù a Stoccolma? Avevano dei pregiudizi? La domanda rimane in sospeso perché il Premio Nobel a Dylan non è veramente un premio alla letteratura intesa come pratica di scrittura. È un premio alla poesia come forma di vita più che un premio alla pagina scritta. Un ragionamento da bottega (da bottega dei poeti) direbbe che Dylan è meno poeta di tanti altri che il Nobel, a questo punto, non lo vinceranno più. Ma se si esce dalla bottega dei poeti e si cammina per le strade di qualunque città dell’Occidente, e non solo, il ritmo di quel camminare è scandito da versi di Dylan.
Versi cantati, versi ritmati, versi “semplici” (ma provatevi a tradurli e vedrete che semplici non sono). La poesia di Dylan non nasce sulla pagina, nasce dalla gola e prende corpo nella bocca, come è giusto che sia. Lo sapeva anche W. H. Auden quando diceva che la poesia è “un modo di succedere, una bocca” (“a way of happening, a mouth”). Il Dylan degli inizi, quello delle canzoni di denuncia, di “Masters of War” e di “The Times They Are A-Changin’”, era stato spesso paragonato a un Auden, appunto, “di strada”. E a metà degli anni Sessanta, quando infuriavano le polemiche sul passaggio di Dylan dal folk al rock (una polemica oggi assurda, anche perché, come poi si è visto, Dylan non ha mai abbandonato le radici folk), ci aveva pensato Allen Ginsberg a dire che Dylan aveva portato la poesia nei juke-box, e che questa era la missione che gli aveva assegnato Dio.
Oggi i juke box non ci sono più, c’è youtube, ma Dylan cammina ancora, non è mai tornato sulla decisione pressa nel 1988 di dare un centinaio di concerti ogni anno, e soprattutto camminano i suoi versi, “cammino per strade che sono morte” (“I am walking through streets that are dead”), “non parlo, cammino soltanto” (“ain’t talkin’, just walkin’”), “un’altra tazza di caffè prima di riprendere il cammino” (“one more cup of coffee for the road”). Osip Mandel’stam diceva che nei versi di Dante si sente tutto il gran camminare che il poeta aveva fatto in giro per i sentieri e le montagne d’Italia, si sente il consumarsi dei suoi sandali sulle strade dell’esilio. Dylan ha consumato parecchi stivali da cowboy prima che gli autobus che lo portano da un concerto all’altro facessero la strada per lui, ma in realtà non ha mai smesso di camminare.
Non è mai stato mandato in esilio, ma si è messo in esilio da solo quando nel 1988 ha deciso che ogni anno, fin quando le forze l’avrebbero retto, avrebbe vissuto almeno cento giorni sulla strada, dando concerti ovunque, nei grandi stadi come in piccole città di provincia, nei teatri come nei rodei, in qualunque parte del mondo lo volessero, per star zitto lui e far parlare solo e unicamente le sue canzoni, le canzoni che l’hanno formato o le canzoni che voleva far resuscitare dall’oblio.
Nel giorno del Nobel a Dylan, che è anche il giorno dell’addio a Dario Fo, non posso non ricordare dov’ero e con chi ero nel 1997 quando è stato annunciato il Nobel a Fo, perché a suo modo anche questo ricordo ha a che fare con Dylan. Ero all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles e avevo appena incontrato Giovanni Giudici. Prima di tramutarsi in un’occasione di orgoglio nazionale, l’annuncio del Nobel a Fo aveva sconcertato gli italiani presenti per un convegno, quasi tutti letterati.
Molti erano ammiratori di Fo, ma non lo apprezzavano come letterato. Ciò che per tutti era stato un attimo di perplessità subito seguito dalla soddisfazione (dopotutto è un italiano che vince, eccetera), per Giudici era un motivo di grande scoramento. Come mi disse prendendomi sottobraccio e facendosi reggere un po’ mentre camminava, non è che proprio se lo aspettasse, il Nobel, ma avrebbero potuto benissimo darlo a Zanzotto e a lui, e se lo sarebbero diviso tra loro da buoni amici. E tutti, che lo dicessero oppure no, pensavano “Chissà come la prende male Mario Luzi”.
Oggi, tra le sei e mezza del mattino (ora mia, quando ho saputo la notizia) alle nove e mezza (ora mia mentre scrivo) ho già sentito lo scoramento venire dai poeti; meglio, dai poeti-che-non-cantano. Lo capisco. Perché non un Nobel per la musica o la performance, allora? Perché sottrarre alla poesia scritta anche quel poco spazio che le è rimasto? Perché non riconoscere, tra i poeti americani, Charles Simic o W. S. Merwin? Che sono certamente più “poeti” di Dylan, non c’è dubbio. Capisco la delusione, ma non la condivido.
Simic e Merwin sono grandi poeti della pagina scritta, ma la poesia nasce prima, molto prima della pagina scritta, era già grande da secoli se non da millenni, e resterebbe grande anche se non venisse più scritta. Nell’istituzione della letteratura, la poesia ci sta stretta. Si scrivono oggi moltissime tesi di laurea sulle parole dei cantautori senza avere la competenza per parlare della loro musica, e questo non è un bene, ma c’è anche molta gente che scrive tesi su Shakespeare senza sapere niente di teatro, eppure la poesia di Shakespeare fa esplodere tutto il suo potere solo quando è pronunciata sulla scena. I testi di Dylan non possono essere separati dalla sua voce, o da una voce che sia in grado di portarli a destinazione. Ma se c’è sempre qualcuno che ne rimane folgorato dalle sue canzoni, anche tra le giovani generazioni, e che decide di prendersene carico, di farle sue, allora vuol dire che l’insieme, il mix che Dylan ha creato con le parole, la voce, la musica e la scena, è più grande di quello che appare. Non è di un semplice cantautore che stiamo parlando. Non è letteratura? Forse no, ma è poesia.

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