Quanta memoria hanno di noi le canzoni, quanto del nostro passato hanno incorporato? Se a quindici anni incontri quella giusta ti scava un luogo nella mente, e quando la risentirai vent’anni dopo ti darà uno shock di riconoscimento. Chi eri quando l’hai ascoltata allora? Chi eravamo tutti? Che cosa siamo diventati?
Ne “La memoria delle canzoni. Popular Music e identità italiana”, dieci saggi sulla canzone d’autore dagli anni sessanta a oggi, a cura di Alessandro Carrera, Edizioni Puntoacapo, Pasturana (Alessandria), dieci studiosi dall’Italia, dalla Francia e dagli Stati Uniti indagano la fittissima rete che lega la canzone d’autore e il rock progressivo – ma anche la musica di puro consumo – con l’identità italiana dagli anni Sessanta ad oggi.
Il mutamento della morale familiare e dei rapporti tra Chiesa Cattolica e società, musica e politica prima e dopo il ’68, l’impatto di Bob Dylan e il magistero di Fabrizio De André, i cantautori degli anni Ottanta alle prese con il riflusso, le canzoni dell’emigrazione e sull’immigrazione, Elio e le Storie Tese e gli 883, e infine una ricognizione critica del neo-folk identitario e revisionista. Questi sono i temi affrontati nel volume.
Qui di seguito pubblichiamo un estratto da uno dei dieci saggi del volume, “La ricezione in Italia di Bob Dylan: influenza e traduzioni” di Francesco Andreani .
Prendiamo qui in considerazione le traduzioni con il testo originale a fronte, destinate alla pagina stampata. Lo faremo cercando di far dialogare i due traduttori che chiamiamo in causa: Tito Schipa Jr e Alessandro Carrera. Dei due lavori che metteremo a confronto per sommi capi, il primo cronologicamente è Mr. Tambourine. Testi e poesie 1962-1985, una raccolta di canzoni, note di copertina e testi poetici scritti da Dylan e tradotti da Schipa. “Non farò alcun tipo di teorizzazione, di analisi o di esegesi dei testi o della teoria del tradurre” premette Schipa nel suo intervento al convegno “Tradittori & tradutori”, organizzato dal Club Tenco Sanremo (24-26 ottobre 2002);[1] eppure l’approccio che egli utilizza ricerca evidentemente equivalenze dinamiche.
Schipa, infatti, nelle sue Considerazioni inutili su un problema irrisolvibile si domanda “traduco o rendo l’idea?”, evidenziando le due possibilità che si presentano al traduttore: muovere il lettore o muovere l’autore? Approccio formale o dinamico? La sua scelta appare chiara: “Rendere l’idea con un’analoga strizzatina d’occhio su un fenomeno locale simile … Il traduttore, preoccupato più di rendere lo spirito che la forma di quel verso, più che tradurre ‘trasla’”.[2] Nell’intervento al convegno, Schipa esplicita con un esempio tratto dalla sua traduzione di alcuni versi di “Hero Blues” (1962):
Nel momento in cui faccio una rima fra cuore e Guglielmo il Conquistatore, ho fatto esattamente quello che lui aveva nelle proprie intenzioni, cioè rimare con un personaggio potente. Bonaparte stava lì, nella sua versione, soltanto perché faceva rima con heart, no? Se io avessi scritto: “Ti serve uno che può abbrancarti per il cuore, ti serve Napoleone Bonaparte”, sarebbe stata una traduzione corretta, ma non sarebbe una traduzione efficace (in La tradotta. Storie di canzoni amate e tradite, p. 133).
In questo caso, la normalizzazione non modifica l’alterità del testo, salvaguardando il rapporto fra scarto e norma. Nel lavoro di Schipa è presente inoltre l’impegno nel riprodurre la ritmica del TP (Testo di Partenza), sottolineando come Dylan stesso avesse richiesto di preservare le rime nelle traduzioni delle proprie composizioni[3] e che le rime, e più in generale ritmo, rappresentano l’ossatura della forma-canzone, senza trascurare neppure la valenza semantica che Dylan è riuscito a trasmettere spesso mediante gli aspetti formali del testo – si pensi alle raffinate e fruttuose analisi testuali di Christopher Ricks, nel suo importante Visions of Sins (2003). L’attenzione alla ritmica da parte di Schipa è inoltre finalizzata a rendere i testi eseguibili, cioè fedeli al TP anche dal punto di vista della cantabilità.
Uno dei problemi rilevati da Carrera nel tradurre i lavori di Dylan è l’uso da parte del cantautore dello slang, un registro linguistico che non ha un vero equivalente nella nostra lingua (Del tradurre Bob Dylan).[4] Schipa cerca di risolvere la questione utilizzando delle forme paradialettali che siano comprensibili al pubblico italiano, ma allo stesso tempo associate ad un registro più basso del comune standard: “Per rendere quello spirito caustico, ebreo e graffiante e incazzato e sarcastico di Dylan non puoi che usare il tuo dialetto, la tua lingua” (in La tradotta, p. 131).
Vediamo questo procedimento nella prima strofa della traduzione di Schipa di “Highway 61 Revisited” dall’omonimo album (Columbia 1965):
Be’, Dio disse ad Abramo: “Ammazzami tuo figlio”.
Abramo disse: “Neno, bello schifo di consiglio”.
Dio disse “Oh”. Ab disse: “Eh?”
Dio disse “Fa’ quel che vuoi, ma sai che c’è,
Se ripasso di qui per te sarà meglio filare”.
E Abramo disse: “Occhèi, st’omicidio dove si va a fare?”.
E Dio: “Sulla sessantunesima Statale” (Mr. Tambourine, p. 543).
Carrera suggerisce:
A queste operazioni bisogna avvicinarsi con molta cautela, perché l’italiano è una lingua che ha troppa storia e troppe storie, e sarebbe un errore considerare l’apporto regionale-dialettale solo come l’equivalente di un possibile slang perduto (Del tradurre Bob Dylan, p. 202).
Schipa sottolinea invece la soggettività del processo di traduzione, un’argomentazione dalle due facce:
[sono] sinceramente convinto che il massimo possibile sia avvicinare il proprio cliente, portarlo cautamente nei pressi di un fatto di per sé irripetibile. E lo farà secondo la propria sensibilità, che è quella di un artista, attento quindi a echi irrazionali, ad ambiguità essenziali, a contemporanei riferimenti e rinnegamenti dell’attualità, e oltre a ciò a uno schema formale (le rime, per esempio) imprescindibile, poiché l’arte non è il “cosa”, ma il “come”; insomma a tutto un universo di componenti. (in Mr. Tambourine, p. 1193)
Schipa evidenzia qui un problema centrale: è indubbio che il TP debba passare attraverso il traduttore per diventare TA (testo d’arrivo), ma la questione è se il focus del traduttore debba essere la lingua e la cultura d’arrivo o la sua propria sensibilità e la sua propria storia personale. Facciamo un esempio che ci aiuterà a comprendere meglio la traduzione di questa strofa da parte di Schipa. Il traduttore racconta della prima ipotesi pensata per rendere in italiano la Highway 61 dylaniana: Firenze-Mare (Schipa in Mr. Tambourine, p. 1194). È una soluzione interessante per diverse ragioni: dà una chiave di lettura all’aura toscaneggiante che si respira all’interno del TA (un tentativo, come abbiamo detto, di rendere lo slang attraverso un idioma paradialettale) e metricamente aderisce alla sillabazione dylaniana.
Schipa interpreta la Highway 61 come la strada verso la libertà e, fedele all’approccio dinamico alla traduzione, cerca un corrispettivo italiano. Se il vissuto e l’esperienza del traduttore lo spingono ad individuare nella Firenze-Mare la propria Highway 61, questa risulta però una scelta che paga un prezzo molto alto, patendo di una soggettivizzazione che esclude tutti coloro per i quali la Firenze-Mare non significa nulla o comunque non riveste l’aura mitica dell’accezione a cui Schipa vorrebbe alludere.[5] Lo rileva anche Riccardo Bertoncelli, l’editore che boccia la scelta di Schipa:
…e poi c’era il colpo finale di Tito che gli ho assolutamente bocciato: “E questo omicidio dove si va a fare?”, e Dio: “Sulla Firenze-Mare”. Al che io gli dico: “Perché sulla Firenze-Mare? E la sessantunesima strada?”. Tito mi risponde: “No. La Firenze-Mare era, per noi ragazzi di allora, la via della libertà”. “Sì, ma tu stavi a Roma!” (in La tradotta, pp. 34-35).
Va poi sottolineata, dell’originale “Oh God said to Abraham, ‘Kill me a son” (corsivo mio), la valenza di quel generico “a”, di cui scrive Neil Corcoran: “Not even “your son” – as who should say, “kill me a chicken”, or, as the wacky farmer persona of “Country Pie” on ‘Nashville Skyline’ (1969) actually does say, ‘Saddle me up a big white goose’”.[6] Nella sua traduzione, Schipa perde lo scarto dalla norma, semplificando in “tuo figlio” (corsivo mio), mentre Carrera si attiene alla lettera originale rendendo con “Dio disse ad Abramo: ‘Uccidimi un figlio’” (corsivo mio) (Lyrics 1962-2001, p. 355).
La presenza nella traduzione di Schipa di “Neno”, al posto del colloquiale “Man” dylaniano, mi permette di completare la mia opinione sull’utilizzo programmatico delle equivalenze dinamiche in una traduzione destinata alla stampa. I due pericoli principali, a mio avviso, sono la soggettivizzazione e la caducità del testo. Il traduttore rischia da una parte di rendere il testo troppo personale, confondendo il proprio ruolo con il target reader a cui il testo è destinato e mancando così il pregio dell’equivalenza dinamica, ovvero di trasmettere un effetto il più possibile simile in due contesti culturali lontani per storia, geografia e tradizioni; dall’altra di far patire alla propria traduzione una cristallizzazione spazio-temporale.
Se anche, poniamo, il TA risulta essere un’equivalenza perfetta, rischia di esserlo per una zona geografica e/o per un periodo di tempo troppo ristretto. De André ne era consapevole e in concerto modificò diverse volte “Via della Povertà” (la sua cover della dylaniana “Desolation Row”, composta a quattro mani con De Gregori) per adattarla alla scena politica italiana, in una sorta di ricerca di un’equivalenza dinamica in nome della quale il cantautore genovese si trovò costretto a rimettere mano a un testo che a distanza di pochi anni era diventato obsoleto.
Schipa rifiuta peraltro di ricorrere alle note che potrebbero giustificare e spiegare il processo che l’ha condotto a determinate soluzioni:
Qualcuno potrebbe obiettare che un semplice ricorso alle note potrebbe risolvere tanti problemi … ma quando ho trovato il mio editore cocciutamente e coraggiosamente contrario a questo espediente a buon mercato, non ho potuto che dargli completa ragione (in Mr. Tambourine, p. 1194).
Nel caso di un canzoniere, come quello di Dylan, singolarmente complesso e ricco di richiami e riferimenti, un apparato di note può però evidenziare che in alcuni casi le scelte del traduttore sono opinabili e comportano necessariamente una perdita semantica rispetto al TP, esponendo al lettore le strade alternative che si sono presentate di fronte al traduttore e restituendo così, pur con l’espediente della nota, una rappresentazione della complessità originale.
Una nota avrebbe ad esempio potuto spiegare la scelta di Schipa di tradurre nella seconda strofa “Georgia Sam” con “Bingo Bongo”. Nell’intervista, il traduttore ha avuto modo di esplicitare come l’accezione che intendesse dare all’espressione fosse ironica e che in un’esecuzione cantata questo sarebbe stato colto dal pubblico. Commentando qui le soluzioni adottate per una traduzione destinata ad essere stampata, dobbiamo però rilevare come un simile espediente allontani dal TP tanto il lettore quanto l’autore stesso, essendo “il loro uso da parte di Dylan semplicemente inconcepibile”, data la connotazione razzista che il termine “bingo bongo” ha in italiano (Del tradurre Bob Dylan, p. 202).
Non voglio sostenere che l’approccio corretto sia quindi quello esclusivamente formale, ma il traduttore dovrebbe essere sufficientemente duttile da valutare i criteri di traduzione di volta in volta sulla base del testo e non di un’aderenza preconcetta ad uno dei due metodi. Sposiamo in questo senso le parole di Carrera:
Il criterio che ho seguito nella traduzione delle Lyrics dylaniane è stato quello di attenermi contemporaneamente a molti criteri, senza privilegiarne nessuno e cercando di evitare il più possibile ostinazioni o partiti presi. Soprattutto, ho cercato di tradurre con estrema precisione le espressioni idiomatiche che, data la loro appartenenza a una lingua così mutevole come l’americano parlato, sono sfuggite ai traduttori che mi hanno preceduto, fermatisi ai testi degli anni sessanta o che non hanno potuto spingersi oltre gli ottanta. (Del tradurre Bob Dylan, p. 194)[7]
Il traduttore dovrebbe avere l’intelligenza di individuare il carattere principale di ogni singolo testo e di costruirsi una gerarchia di priorità sulla base di questo riconoscimento. Ad esempio, se una canzone ha una struttura fortemente narrativa, la traduzione dovrà tenere maggiormente conto di quest’aspetto, privilegiando forse un approccio più formale; quando invece il traduttore si troverà a confrontarsi con un testo che gioca su paronomasie o su una cadenza ritmica insistita e si accorgerà che è quella la motivazione centrale del brano, potrà organizzare diversamente la propria scala di riferimento, sacrificare il significato letterale ed azzardare delle equivalenze dinamiche, sempre tenendo presente che al centro della traduzione dovrebbe trovarsi il testo, più che il traduttore.
[1] Tito Schipa Jr in La tradotta. Storie di canzoni amate e tradite, a cura di Enrico De Angelis e Sergio Secondiano Sacchi, Editrice Zona, Arezzo 2003, p. 129.
[2] Tito Schipa Jr in Bob Dylan, Mr Tambourine. Testi e poesie (1962-1985), traduzioni e note di Tito Schipa Jr, Arcana, Milano 2004, pp. 1191-1192.
[3] “Dylan aveva scritto, aveva detto e aveva ripetutamente chiesto: ‘Se mi traducete, per favore, non trascurate, non dimenticate le mie rime’” (Tito Schipa Jr in La tradotta, p. 131). Nel corso di un’intervista con l’Autore, Schipa ha spiegato che è stata Fernanda Pivano ad avergli fatto presente questa richiesta da parte di Dylan.
[4] In Parole nel vento. I migliori saggi su Bob Dylan, a cura di Alessandro Carrera, Interlinea, Novara 2008, pp. 200-202.
[5] Durante la sopracitata intervista, Schipa ha ammesso che è effettivamente un rischio che corre questo tipo di approccio.
[6] Neil Corcoran, Death’s Honesty, in Do You, Mr Jones? Bob Dylan with the Poets and Professors, a cura di Neil Corcoran, Chatto & Windus, London 2002, p. 167.
[7] Le traduzioni di Alessandro Carrera sono ora raccolte nei tre volumi Dylan Lyrics 1961-1968 (Feltrinelli, Milano 2016), Dylan Lyrics 1969-1982 (Feltrinelli, Milano 2016), Dylan Lyrics 1983-2012 (Feltrinelli, Milano 2017, in uscita il 20 aprile).

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