La sua retrocessione, con l’uscita dal Consiglio per la sicurezza nazionale, fa notizia. Eppure quando si seppe che il chief strategist Stephen K. Bannon ne era diventato membro, non sembrò allora chissà quale notizia. Tranne che per Donald Trump. Il quale fece trapelare che si era trattato di una scelta non esattamente sua ma di una sorta di autopromozione da parte del diretto interessato, quasi a sua insaputa, il che era particolarmente irritante, specie per un commander-in-chief che si considera tale fin nel midollo.

Il presidente-genero
Sembrava del tutto logico che l’ideologo dell’ascesa al potere di The Donald, lo stratega del tratto finale della sua campagna elettorale, quando la sua rivale, Hillary Rodham Clinton, e i commentatori trattavano il magnate oramai con la condiscendenza che si riserva a un cane morto, e lui, Trump, istigato da Bannon, esacerbava i toni e i twitter: ebbene, poteva apparire ovvia – una non notizia – la sua inclusione nel National Security Council, l’organismo che, per conto del presidente, coordina le politiche di dipartimento di stato, Pentagono, servizi segreti.
E sarebbe stata ovvia anche la sua permanenza nel NSC se, nel frattempo, non si fosse rafforzata la posizione del suo principale rivale nella conquista della confidenza e della fiducia del capo: il genero del presidente, il trentaseienne Jared Kushner, in continua ascesa, fino a diventare lui, il principale collaboratore di Trump. L’unico che lo chiami per nome e non Mr President. Pur non avendo uno status definito se non quello generico di senior White House adviser, e in totale dispregio delle regole sul nepotismo, il marito di Ivanka, lei stessa con un ufficio nella west wing della Casa Bianca, è ormai il secretary of everything, il segretario d’ogni cosa. È il consigliori di Trump. Il quale, anche da presidente, gestisce gli affari di stato come affari suoi e di famiglia. Jared è insomma il segretario di stato de facto, e anche più.
Tanto Bannon è orientato e motivato dall’ideologia quanto Kushner è spinto nei suoi orientamenti, come il suocero, dalla bussola degli affari. Come retroterra, è di ricca famiglia democratica newyorkese.
Bannon è il predicatore della confrontation con la Cina, non solo e non tanto in quanto gigante nello scacchiere asiatico che s’allarga sempre più a discapito degli amici dell’America, ma soprattutto come la potenza che è diventata quel che è diventata divorando posti di lavoro dei bianchi americani e sottraendo risorse all’America, della quale peraltro detiene il grosso del debito estero. Nel narrativa di Bannon, la dottrina Trump, condensata in America First, non può non avere la Cina come il cattivo. Il nemico.
Di converso, secondo Bannon, la mano tesa di Trump verso la Russia è il feeling nei confronti di un cristiano conservatore come Putin, leader muscolare e determinato, a capo di una potenza dell’energia e di materie prime strategiche che – una volta eliminate le sanzioni – è un grande mercato per l’export americano, ed è un efficace contraltare all’Europa occidentale e all’Asia egemonizzata dalla Cina. Inoltre è un giocatore decisivo nello scacchiere mediorientale.
Nei piani di Bannon il primo interlocutore internazionale di rilievo di Trump, da presidente, avrebbe dovuto essere proprio l’uomo forte russo, lui avrebbe dovuto essere sui prati del golf club di Mar-a-Lago, non lo spregevole Xi, segno tangibile dell’avvio di una nuova era nelle relazioni planetarie degli Usa e nella definizione di un nuovo ordine mondiale. Sennonché la buriana politica e mediatica che accompagna Trump fin dall’indomani della sua elezione – il clamore sulle intromissioni della Russia nella politica statunitense, quasi non importa a questo punto se vere, verosimili o manipolate – hanno messo fuori gioco sia i piani sia il loro autore.
La caduta in disgrazia di Bannon è dovuta anche al fallimento dell’operazione di azzeramento della riforma sanitaria di Obama, che il “Suslov” di Trump ha gestito in rapporto col Congresso con l’arroganza del neofita della politica, un errore a cui si somma il precedente fallimento, anch’esso ascrivibile a Bannon, della disastrosa storia del bando agli ingressi in America dei mussulmani.
Mentre s’offuscava rapidamente la stella dell’ex direttore di Breitbart, cresceva quella di Jared. Ecco il secretary of everything in missione in Iraq – in confidenziale compagnia con Joseph Dunford, il numero uno delle forze armate statunitensi – lui, non il titolare del dipartimento di stato, Rex Tillerson, che assolve al suo mandato con una discrezione che lascia interdetti sia i diplomatici sia i commentatori, come fosse in quel posto non si sa bene a che fare. È Jared Kushner, che prende in mano i dossier che scottano, relazioni col Messico, Medio Oriente, Cina. E va a a rapporto dal capo senza neppure dover bussare alla porta.
Ed è infatti Kushner a organizzare l’incontro a Mar-a-Lago tra Trump e Xi. Lo fa in stretta collaborazione con l’ambasciatore di Cina a Washington Cui Tiankai, con cui ha da tempo una relazione personale. Nulla è stato lasciato al caso, sarebbe stata perfino redatta dai due la bozza di un comunicato finale congiunto.
Per giunta, vanno ricordati gli affari della famiglia Kushner, immobiliaristi come i Trump, con imprenditori cinesi, una rete di relazioni su cui ha scritto Beniamino Natale su questa rivista.
L’uscita di scena di Bannon e la contemporanea centralità conquistata da Kushner stemperano le ansie dei cinesi rispetto a un incontro che resta comunque carico d’incognite, se non altro per il carattere di Trump, interlocutore sempre difficile da decifrare nelle sue performance dettate dall’impulso dell’ultimo istante, figurarsi per i cinesi.
La sequenza dei fallimenti di politica interna collezionati da Trump aveva messo in ansia la cerchia di Xi. Il timore era che il presidente avrebbe colto l’occasione dell’incontro informale a Mar-a-Lago per conseguire, alzando la voce, punti propagandistici e recuperare così credito nei confronti del suo elettorato, rovesciando di nuovo sul cattivo di turno i problemi che lui denuncia ma non sa come risolvere.
Quest’evenienza comunque resta in campo. A renderla ancora possibile è anche la notizia dell’ultimo test missilistico nordcoreano proprio alla vigilia del summit sino-americano in Florida.
Per Xi è ragione d’imbarazzo, per Trump può esserci la tentazione di sfruttare a suo favore questo imbarazzo, se non ottiene dall’interlocutore cinese qualche visibile risultato da spendersi con la sua opinione pubblica. Se non dovesse produrre alcun risultato, neppure d’immagine, l’incontro rischierebbe il fiasco. E sarebbe anche l’ulteriore conferma di una Casa Bianca lacerata da fazioni in lotta, ancora in atto e non ricomposte dal ridimensionamento di Bannon, guidata da un capo umorale e ondivago, per temperamento e per incapacità di interagire con i più stretti collaboratori, facendo poi sintesi. Un’amministrazione senza bussola. L’amministrazione della superpotenza americana.