Vero, verosimile, falso. È dai tempi di Omero che i territori della narrazione e della rappresentazione ci nutrono di storie immaginarie, di finzioni. Quando va bene, sono così pregnanti, avvincenti, potenti da affascinare e sedurre senza necessariamente dar conto della loro fenomenica storicità. Il verosimile filmico, per dire: sta alla base di quella croyance (credenza) che ha fatto le fortune del cinema, stringendo con lo spettatore un patto di complicità che va ben oltre ogni possibile autenticità “realistica”.
Diceva, sornione, Orson Welles in F for Fake: “La mia carriera è cominciata con un falso, l’invenzione dei marziani. Sarei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi. Sono finito a Hollywood!”. Ma non è affatto detto, com’è noto, che per lui anche Hollywood fosse una prigione.
Pensiamo a Welles e ai suoi fakes mentre giriamo per le sale di Punta della Dogana e poi di Palazzo Grassi, leggiucchiando nel frattempo la brochure di Treasures from the Wreck of the Unbelievable, la nuova creazione del celebrato Damien Hirst. Si racconta in premessa del ritrovamento, al largo della costa orientale dell’Africa, dei resti preziosi di una nave gigantesca (l’Apistos, l’Incredibile appunto) affondata duemila anni fa.
Sarebbe stata di Cif Amotan, ovvero – alla romana – di Aulus Calidius Amotan, un liberto di Antiochia così ricco da collezionare ogni bendidio dell’età sua, testimonianze gigantesche o minute dei culti e dei miti primigeni. E dunque mesopotamici, greci, egizi, buddisti, aztechi: un colossale zibaldone destinato a un tempio che mai vedrà la luce, sepolto anzitempo in fondo al mare e infine ritrovato dalla salvifica star dell’odierna arte contemporanea.
Narrano le cronache che nel 2008, senza passare per galleristi e intermediari, Damien Hirst abbia avuto l’ardire di far battere a un’asta di Sotheby’s tutte le opere di una sua nuova serie, aggiudicandosi ricavi per 111 milioni di sterline. In quegli stessi giorni affondavano la Lehman Brothers e l’economia mondiale; subito dopo, venuto a conoscenza dell’Apistos, Hirst avrebbe dato inizio alle colossali operazioni di recupero dell’antico tesoro, puntualmente documentate nelle immagini che accompagnano oggi la doppia mostra. Cinico baro col povero Amotan, il destino s’era fatto caso due volte fortunato per Hirst nell’anno della disgrazia massima. Il Caso: pur sempre il secondo nome dello Spirito Santo secondo quell’altro burlone di Bohumil Hrabal.
Venendo alla mostra – seriosa in Punta della Dogana, dove le incrostazioni del tempo e del mare dovrebbero deporre per la maestosa autenticità dei reperti archeologici, volentieri scherzosa a Palazzo Grassi, dove i presunti riscontri testuali s’alternano ai vezzi parodici – ognuno la prenda come vuole e può. L’artista rimane ambiguo: “Tutto sta in quel che volete credere”. Di certo l’immaginario di Amotan non deve essere stato dei più allegri, declinando miti e culti in chiave pressoché unicamente mostruosa e mortifera.
Sfingi e draghi, meduse e serpenti, demoni e cani affamati, cerberi, teschi e teste mozzate spadroneggiano tra i reperti, disegnando un gigantesco divertissement al nero. Che poi è la cifra concettuale da sempre cara all’immaginario di Damien Hirst, famosissimo per le teche degli animali in formaldeide, le teste di vitello divorate dalle larve, il teschio umano che, ricoperto di platino e diamanti, ha voluto battezzare For the Love of God. Qui, in linea con i tempi, a intrigare c’è la novità del misterioso storytelling, enfatizzato dalle dimensioni gigantesche di talune installazioni. Stupore, meraviglia, mistero ma poca adrenalina…
In Propizio è avere ove recarsi (Adelphi, 2017), Emmanuel Carrère parla di Damien Hirst da Davos, dove i “grandi” si danno ogni anno appuntamento per cazzeggiare sulle sorti del mondo. Osserva che l’artista è
la trasposizione nel campo dell’arte del sogno di un uomo di finanza, l’effetto leva spinto al parossismo: investimento minimo (di talento, di integrità, sia detto senza offesa per nessuno), rendimento superiore al massimale. Jackpot assoluto (…) Come diceva Freud a proposito della nevrosi di una delle sue pazienti, «è così ben organizzata da essere un vero piacere».
E Orson Welles? Credo di averlo visto uscire da Punta della Dogana sogghignante, diretto al vaporetto per traghettare al consueto Harry’s Bar. Credenze, appunto.

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