L‘impegno civile che dimostrò lo storico Sergio Luzzatto (ma anche il coraggio di mettersi fuori dal coro spesso acritico di alcuni intransigenti apologeti resistenziali) era già noto prima che uscisse nel 2013 il suo bellissimo libro Partigia che gettò nuova luce, creando di conseguenza nuove ombre, sulla vicenda di Primo Levi dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 e il conseguente vertiginoso sbandamento dell’intera nazione italiana.
Partigiano suo malgrado per tre mesi (si trovava in vacanza in Val d’Aosta con la madre e la sorella minore quando si venne a sapere dell’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre e reso noto cinque giorni dopo), quindi catturato dai repubblicani di Salò e consegnato, in quanto ebreo, ai tedeschi, Levi venne internato ad Auschwitz dove ebbe un trattamento di relativo “favore” grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca che gli permise di lavorare in un ufficio amministrativo del campo di sterminio.
Proprio quest’anno si ricorda il quarantennale della sua scomparsa. Una morte autoinflitta decisa con ogni probabilità a seguito dei gravi stati depressivi di cui negli ultimi tempi era vittima. Nel suo volo nella tromba delle scale di quel palazzo torinese in Corso Re Umberto (proprio dove sessantotto anni prima era nato), molti vollero vedere la definitiva liberazione dall’ossessione degli anni bui vissuti nel campo della morte al cui ingresso campeggiava l’irridente scritta “Arbeit macht frei“.
Ma Sergio Luzzatto, anch’egli israelita torinese, politicamente molto schierato a sinistra, volle onorare la sua professione di storico indagando su altri possibili motivi di quel male oscuro che ebbe la meglio su un uomo che aveva sopportato la prigionia e poi la turbinosa, travagliata odissea del suo rientro in patria raccontate in Se questo è un uomo e ne La tregua. Ebbene, durante la lunghissima gestazione del libro, Luzzatto cercò e trovò negli stessi scritti di Levi (nel Sistema periodico e in una poesia) alcuni indizi, alcuni accenni a un “segreto”, a un “segreto brutto” che avrebbe lentamente avvelenato la sua coscienza fino a concorrere alla decisione estrema del suicidio.
Il fatto cui alludeva il chimico e scrittore torinese era noto ma sottaciuto. Si trattava dell’esecuzione a freddo di due giovanissimi partigiani (diciassette e venti anni) da parte dello stesso gruppetto di neo-partigiani (sbandati? idealisti?) al quale Levi si era aggregato scegliendo di restare sulle alture del Col de Joux (vicino a Saint Vincent) dove, appunto, si trovava in vacanza con la famiglia da prima dell’8 settembre.
Forse per un furtarello di farina o di formaggi in casa di alcuni contadini, i due furono fucilati dai loro compagni, ovviamente senza alcuna parvenza di processo, davanti ad alcuni testimoni muti e impauriti tra i quali c’era anche il futuro scrittore allora ventiquattrenne. Fu un trauma di cui Levi risentì per sempre senza mai parlarne ad alcuno. Dopo la liberazione, alle famiglie e ai compaesani di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano (questi i nomi delle vittime) fu detto che gli sventurati erano stati “trucidati dai fascisti” e a loro nome furono intestate due strade in un paese della valle, come ricorda anche Paolo Mieli.
“Fulvio Oppezzo viene ancora oggi ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria”, concesse Gad Lerner in un lungo articolo su Repubblica in cui tentò di demolire il libro dello storico torinese al quale non risparmiò ingiuste critiche. Più moderato, ma con evidenti intenti denigratori, fu l’intervento di un altro giornalista sul Corriere della Sera dove il libro venne definito un “bel romanzo” e Luzzatto derubricato da storico a narratore. Partigia, al cui autore fu anche contestata la citazione dei libri di Giampaolo Pansa e in particolare de Il sangue dei vinti, fu rifiutato dalla Einaudi e uscì per i tipi della Mondadori.

Primo Levi
Sul “cuore di tenebra” che si celava nella memoria e nell’anima di Primo Levi si continua a dibattere a settant’anni e più da quegli avvenimenti. Ma il giovane chimico torinese, scrive Luzzatto,
non era salito in montagna per votarsi senza indugi alla macchia e alla guerriglia, poiché sarebbe stato illogico farlo portandosi appresso la sorella minore e la madre cinquantenne: né era salito per rispondere alla chiamata ideale di una resistenza antifascista, poiché una chiamata del genere si era a malapena sentita all’indomani immediato dell’8 settembre, la resistenza degli uni o degli altri era diventata da subito una Resistenza con la lettera maiuscola.
Sono frasi come questa, in cui erroneamente si vuole ancora leggere una sorta di sfida ai tabù resistenziali, che non vennero e non vengono perdonate a Luzzatto dai “custodi” di una parte della comune storia e memoria collettiva italiana. Da quegli stessi che poi consentono, durante le manifestazioni dell’Anpi per il 25 aprile, che i pochi reduci e i figli degli uomini della Brigata ebraica vengano regolarmente fischiati e insultati.