Quattro passi tra i padiglioni nazionali della Biennale

ENNIO POUCHARD
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A Venezia, in Ca’ Giustinian, il 13 maggio 2017, la giuria della 57. Biennale annunciava che il Leone d’oro per la miglior Partecipazione Nazionale era assegnato al padiglione della Germania e attribuiva una menzione speciale al Brasile.

È logico immaginare che per i successivi sei mesi di apertura sciami di visitatori, passato il controllo al cancello d’entrata ai Giardini e imboccato il viale subito a destra, trascurando i padiglioni che vi si affacciano, dallo svizzero al sud-coreano, si precipiteranno verso quello tedesco. L’ingresso, sotto il celebre pronao classico, è chiuso, e si entra dalla consueta uscita. Appena dentro ho provato un senso di gelo (mentale) trovando non proprio originale il pavimento sopraelevato trasparente (di vetro) sopra quello esistente, per provocare… cosa?

Padiglione Germania, Anne Imhof, “Faust” (Foto Ennio Pouchard)[in alto, sotto il titolo, un dettaglio dell’opera]

Vertigine, stupore, disagio, curiosità? Per me, niente di questo. La sopraelevazione s’interrompe in due zone laterali, visibili ma non accessibili, dove rimane qualche oggetto abbandonato (un paio di scarponi inzuppati, una chitarra, …) dai giovani performer, ragazze e ragazzi, che si sono esibiti anche all’esterno nel recinto costruito a ridosso della facciata, per giocare con dei doberman addestrati al combattimento. Performance ideate da Anne Imhof per implicare, sotto il titolo “Faust”, attuali inquietudini e alienazioni attraverso “oggetti, corpi, immagini e suoni”, visti nei giorni del vernissage e fruibili in rete.

I visitatori che passeranno a constatare il merito della menzione speciale al padiglione brasiliano per l’installazione di Cinthia Marcelle, vi troveranno un video con scene e dialoghi vertenti su problemi sociali, una pavimentazione fittizia in grigliato di ferro con tanti ciottoli bianchi incastrati, quasi come residuo di una valanga di pietre, e al centro un insieme di bandierine bianche su aste di legno grezzo, che dovrebbero alludere a qualcosa di enigmaticamente allarmante.

Padiglione Brasile: Cinthia Marcelle, “Chão de chacha”. (Foto Elsa Dezuanni)

E i non premiati? Sono ottantacinque – dislocati ai Giardini, all’Arsenale e in città – tra i quali ciascun visitatore potrà cercare motivi, a parer suo, più coinvolgenti. Nel padiglione degli Stati Uniti, per esempio, convocato da Christofer Bedford e Katy Siegel, direttore e curatrice del Baltimore Musem of Art, c’è un artista cinquantaseienne di origini africane, Mark Bradford, nato e attivo a Los Angeles. Figura eminente nel panorama dell’arte contemporanea americana, si presenta con l’installazione “Tomorrow is another day” (Domani è un altro giorno), con la quale esprime il proprio desiderio di portare l’arte in contesti sociali di emarginati, facendone acquisire, soprattutto ai ragazzi in affido, le diverse forme di conoscenze tecniche teoriche e pratiche. Avendo già creato a tal fine una fondazione, “Art + Practice for arts and education”, con sede a Leimert Park, in prossimità del luogo natio, ha attivato a Venezia, in vista della Biennale, una collaborazione con la cooperativa sociale-onlus “RTdP” (per Rio Terà dei Pensieri), definita “Processo Collettivo” e destinata a offrire sia opportunità occupazionali all’interno del sistema carcerario veneziano, sia la gestione di un centro di vendita di prodotti artigianali (cosmetici, oggetti di design, borse in tessuti di seta e PVC,…) prodotti impiegando ex-detenuti. Lui parla, a tal proposito, di un “accesso” per il quale bisogna sviluppare la consapevolezza di una “necessità”; non è immediato però capire come egli affidi alle sue opere la funzione di esprimere e diffondere tali ideali.

Padiglione Stati Uniti: Mark Bradford, “Tomorrow is another day” (Foto Ennio Pouchard)

Si tratta per lo più di pitture rigorosamente astratte, fatte utilizzando cartacce e altri materiali raccolti – dice lui – per le strade. Se ne serve per creare collage e strutture solide, non inverosimilmente destinate a sollevare un gran polverone tra i suoi connazionali, per il fatto che quanto esprimono è per voce di un nero. Un nero gentile e colto, di bell’aspetto, altissimo (direi sui due metri) che palesa in modo esauriente il suo pensiero sui mai superati malanni di classe, genere e, ahimè, razza, propri della società americana e propagati a macchia d’olio.

Converge su una diversa e molto personale visione di altri problemi globali il lavoro di Tracey Moffatt (natia di Brisbane, classe 1960), che rappresenta l’Australia e, da fotografa e cinema-video maker, viaggia con la fantasia nel repertorio di conoscenze raccolte da ogni possibile fonte. La sua mostra, intitolata “My Horizon”, si articola su due serie fotografiche: “Body remembers” (Il corpo ricorda) e “Passage” (La traversata), e due brevi video digitali: “The white ghosts sailed in” (I fantasmi bianchi arrivarono a vela in porto) e “Vigil” (La veglia). Il tutto datato 2017. I rispettivi argomenti sono storie che continuano a sobbollire nel suo inconscio: nella prima serie, il ritorno con l’immaginazione nella casa (ormai in rovina, ma vista anche com’era una volta) di una donna (da lei interpretata) che lì era vissuta in qualità di domestica.

Padiglione Australia, Tracey Moffatt, “My horizon” (Foto Francesco Galli) [Courtesy La Biennale di Venezia]

Nell’altra, la gente (madre con bambino, capitano di nave impazzito, il poliziotto motociclista, il dandy nell’inferno e il paradiso di quella vita…) che lavora o brancola tra banchine, cantieri e uffici.

Padiglione Australia: dalla serie Passage, Inferno (Foto Ennio Pouchard)

I video parlano invece di tragedie collettive: di quanti, nel tardo Settecento, arrivarono in Australia come coloni o da galeotti, portando degenerazione, violenza e massacri tra le popolazioni autoctone; e degli immigrati di oggi, che qui e dovunque sono stati e continuano a essere vittime. Si vedono naufragare da imbarcazioni precarie, mentre nel contempo il dramma viene enfatizzato per traslato dall’orrore riflesso nelle espressioni di Elizabeth Taylor, Kathleen Turner e Julie Christie, in fermo-immagini e primi piani tratti da vecchi film. Anche qui la tesi riguarda temi di sesso e razza, senza che dalle inquadrature si possa capire in quale parte del mondo (Australia, Africa, Americhe, o anche Italia) siano state riprese: perché la radice del male penetra dovunque in profondo. Ed è per questo che Tracey Moffatt, per tutti i media che usa, spizzica da fonti diverse: poesia, prosa, musica, cinema sperimentale o TV spazzatura, opere d’arte di tutti i tempi; o anche storie delle donne di famiglia, nel ricordo o solo per averne sentito parlare.

Un’artista per noi da scoprire è la romena Geta Brătescu, scelta per rappresentare il proprio Paese. Trent’anni fa, in una pagina del suo diario di viaggio pubblicato con il titolo “Studio vagabondo” – nelle cui pagine l’Italia conta molto, e Venezia in particolare – scriveva che pochi si rendono conto di quante cure, proprio come un malato, abbia bisogno un poeta o un artista; e del perché nel suo grido ‘Io devo creare’ non sia mai riconosciuta un’importanza uguale all’urlo ‘Io devo mangiare’… Quest’incomprensione, che all’uno e all’altro fa male, lei la vive ancora, pur avendo celebrato, il 4 maggio appena trascorso, il suo 91° compleanno, con tre delle ennesime personali in atto: a Londra, presso il Camden Art Centre, e a Venezia alla Biennale (dov’è già stata nel 2013), con una propaggine nella Nuova Galleria dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Palazzo Correr (Campo Santa Fosca, Cannaregio 2214). In entrambe le rassegne veneziane, aperte sotto il titolo “Apparizioni”, questa esponente dell’arte rumena da più di mezzo secolo (con laurea in lettere e filosofia e diploma all’accademia di belle arti e riconosciuta quale artista e intellettuale di primo livello nella motivazione della laurea honoris causa ricevuta a Bucarest nel 2008) dipana la molteplicità dei media che da sempre sono la caratteristica del suo lavoro: pittura, collage, installazioni, grafica, cinema, video, fotografia, performance, libri-oggetto e un ventaglio di applicazioni concettualistiche sviluppate a forza di meditazioni sullo spazio fisico e – secondo la curatrice, Magda Radu – meta-artistico del suo atelier.

Padiglione Romania, Geta Brătescu: “Mothers” (Foto Ennio Pouchard)

In “Apparizioni” c’è un po’ di tutto, diluito nel tempo: figurano in prima linea le parti dedicate alla madre, o piuttosto “alle madri”, simbolo della creatività femminile; e pure lei stessa vi si coinvolge ciclicamente. Per altri temi attinge motivi e personaggi da Euripide (“Medea”), Goethe (“Faust”), Brecht (“Madre Coraggio”); ma un forte stimolo lo trova in se stessa, con disegni di “Mani” e con “the bird Bird” (lo trascrivo com’è, in inglese, perché tutti capiscono che si tratta di “un uccello che lei chiama Uccello”, mentre tradotto letteralmente in italiano non ha senso), i tre momenti (“Sonno”, “Veglia”, “Gioco”) di un film (“Studio”), e fotografie di alcuni oggetti articolati da lei prodotti intitolandoli “No alla violenza”.
In questo insieme, gli stili variano tra l’accurata ricerca realistica, l’agile grafismo fumettistico, le sintesi vagamente espressionistiche, l’astratto-geometrico, l’indagine dell’inconscio e l’automatismo totale, ripetuto in collage di carta nera su carta nera che concludono il lungo percorso della mostra, dai primi anni ’60 al nostro presente. Per Geta Brătescu rappresenta l’avventura nello spirito.

Lo storico padiglione britannico ospita una donna formidabile, Phillida Barlow, che, nata nel 1944, è professore emerito, membro della Royal Academy e CBE (ossia Commander of the Order of the British Empire), ma anche affettuosa madre di famiglia. È stata sua la decisione di scegliere per l’installazione, con la quale occupa tutti gli spazi disponibili, un titolo provocatorio: “Folly”. Una follia consistente nel coraggio di stringere – o piuttosto costringere – i suoi ventidue lavori (opere singole o multiple) nei sette ambienti della palazzina e all’esterno, accanto alla scala d’ingresso e sulla terrazza antistante. Parecchi sono di dimensioni ciclopiche, e a volte tra l’uno e l’altro si stenta quasi a muoversi.

Padiglione Gran Bretagna: Phillida Barlow, “Colonne squarciate” (Foto Ennio Pouchard)

Inquietudine e allegrezza convivono nei loro volumi sin dall’idea che li ha generati. Sono colonne che sfiorano i soffitti, strutture globulari, forme che si richiamano a oggetti familiari – sedie, pneumatici, uno schermo, gli scarti di una festa… – e un balcone sporgente verso la laguna da un’intera contro-parete dipinta. Fatti con materie povere (tessuti da sacco ingrigiti con il calcestruzzo che li rende solidi, legnami, corde tinte di rosso, …), si chiamano “colonna squarciata”, “incudine”, “tendone”, persino “ninnolo” e altro; nella loro fattura c’è un quid di programmato assurdo, mirante a far capire l’influenza del caso, di una precarietà, persino di un errore, che si adattano bene alla parola “folly”; ma tenendo conto che in inglese essa può indicare una esplosione sia di pazzia, sia di scatenata allegria, può darsi che tutto quell’insieme voglia delineare il senso di una profonda, sentita, umana tragedia.

Di diversa follia si sente parlare all’Arsenale tra i visitatori del padiglione italiano: sono discorsi basati su considerazioni piuttosto ovvie, in cui ci si chiede come mai la terra che, con i suoi Giotto, Mantegna, Giorgione, Tiziano, Raffaello, ha dato al mondo colore e luce, può mai diventare il paese della morte e del buio. Il primo degli artisti coinvolti dalla curatrice Cecilia Alemani, è Roberto Cuoghi, che – incapsulati in igloo di plastica a bolle – ha schierato nella sua mostra un tunnel con la serie di Cristi morti, modellati a stampo con impasti decomponibili.

Padiglione Italiano: panoramica del salone di Roberto Cuoghi (Foto Jacopo Salvi) [Courtesy La Biennale di Venezia]

Day-by-day, infatti, assumono diversi stadi di degrado (eccezion fatta per la versione surgelata, in un freezer con il portello trasparente), fino alla parete di fondo dove i corpi figurano appesi a pezzi.

Padiglione Italiano: Roberto Cuoghi, corpo e frammenti, e la parete di fondo con i Cristi appesi (Foto Ennio Pouchard)

Il titolo “Imitazione di Cristo” è mutuato dal celeberrimo libretto tre-quattrocentesco, di autore ignoto, dedicato alla vita ascetica. Orbene, se si può dire che in qualsiasi opera d’arte la parola (in questo caso il titolo del libro) è idea, ossia componente non meno essenziale della materia, qui il conto non torna.

Per il secondo degli artisti italiani, Adelita Husni-Bay, autrice di una seduta filmata, “The Reading”, in cui dialoga di discriminazioni con un gruppo di giovani, la situazione è diametralmente opposta.

Padiglione Italiano, Adelita Husni-Bay, “The Reading” (Foto Jacopo Salvi) [Courtesy La Biennale di Venezia]

In essa, infatti, l’opera – un video di 14 minuti su grande schermo, in un ambiente tenebroso marcato con oggetti in silicone e luci LED – è testimonianza della parola registrata, quindi immutabile nel suo continuo andamento ciclico. Gli argomenti, sono appassionanti: da parte dell’artista, con tarocchi da lei disegnati frequentando dei nativi Lakotara d’America, contrari alla costruzione di un oleodotto, cui i ragazzi replicano citando altri abusi nello sfruttare la terra. Diverso sarebbe un happening di presenze vive, in cui il verbo diventa azione, e quindi atto creativo in being; ma dovrebbe durare, rinnovandosi sempre, per sei mesi.

Giorgio Andreotta Calò, infine, con il suo “Senza titolo”, cui ha aggiunto – scritta proprio così, tra parentesi – (La fine del mondo), invita “a salire al secondo livello” del capannone: un secondo livello creato artificiosamente con una selva di tubi Innocenti, cui si accede, in un buio per niente “invitante”, tramite una scala tipo cantiere edile. Lì si dovrebbe godere l’effetto, peraltro non inedito e non eccezionale, di un soffitto a capriata che si duplica nello specchio d’acqua.

Padiglione italiano, Giorgio Andreotta Calò, “La fine del mondo” (Foto Jacopo Salvi) [Courtesy La Biennale di Venezia]

Scesa la scala a tentoni e trovata l’uscita da questo “Mondo magico” (denominazione ufficiale inventata dalla curatrice), ci si trova nel Giardino delle Vergini, cui si affaccia il padiglione della Cina.

Occupa un enorme capannone e si presenta come teatro di un multi-spettacolo in cui il paese più popoloso e maggiormente responsabile degli inquinamenti atmosferici del mondo, erede di una cultura tra le più avanzate dell’antichità, ha voluto mostrare non le proprie glorie, ma la continuità e l’amalgama che l’hanno alimenta e la alimentano, intitolando significativamente il progetto espositivo Continuum – Generation by generation. È la vitalità in esso riconoscibile che stupisce noi discendenti di quel Marco Polo da cui l’Occidente ha ricevuto, sia pure ampiamente corredate di fantasia, le cronache scritte in prima persona su quel mondo. Attirate dal progetto di Christine Macel, “VIVA ARTE VIVA”, le autorità responsabili hanno proposto il tema al curatore designato Qiu Zhije, fotografo e video-maker, che l’ha interpretato come invito a una ricerca della forma di energia indispensabile per ritrovare i valori dell’ininterrotta rigenerazione di cui trattano gli antichi testi, definita “Bu Xi”. Valori secondo i quali la creatività nell’arte deve essere opera della collettività, non di un singolo artista; e ogni maestro, nel trasmettere il proprio sapere, non può smettere di considerarsi ancora allievo. I quattro artisti coordinati da Qiu Zhije sono il maestro del teatro di ombre Wang Tianwen, il teatrante figlio d’arte Tang Nannan, lo scultore e incisore Wu Jian’an e la maestra di “Suzhou” (il ricamo dell’alta tradizione) Yao Huifen.

Padiglione Cina, Il teatro delle ombre di Wang Tianwen (Foto Italo Rondinella) [Courtesy La Biennale di Venezia]

I loro lavori, ispirati ad antiche favole popolari, comprendono sculture in lastra di rame (“Sogni a occhi aperti”, alte quasi sei metri), video su leggende e miti, incisioni su cuoio che sviluppano soggetti storici, collage (una serie dei quali, a colori, è lunga ventiquattro metri e alta due e mezzo) e, soprattutto, la fantastica serie del teatro di ombre che costituisce la maggiore attrattiva. Il fondo musicale non manca. Può non essere – questa sì – un’arte “viva”?
Troppo lunga la lista dei padiglioni nazionali ed è giocoforza per me lasciare ai visitatori volonterosi la decisione di come continuare le ricerche: buon cammino e tante scoperte.

Quattro passi tra i padiglioni nazionali della Biennale ultima modifica: 2017-05-30T13:03:26+02:00 da ENNIO POUCHARD
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