[PARIGI]
In questi mesi di immersione totale nella politica francese ho capito alcune cose e ne ho tratto alcune considerazioni.
Si tratta ovviamente di riflessioni personali, impressioni probabilmente anche parziali. Sicuramente non descrivono comportamenti accettati da tutti: si tratta forse più di tendenze. Orientamenti che spesso, e forse inconsciamente, sembrano definire le parole della politica. Il risultato di chiacchierate con “autoctoni”, di discussioni sentite al caffè, della lettura dei giornali, di infinite passeggiate nelle librerie.
1 “Débat, débat, débat, come se non ci fosse mai fine”
Il primo punto è il mio preferito. In Francia la passione per il dibattito e la contrapposizione delle argomentazioni è l’anima stessa del paese.
Ve li ricordate i Philosophes? Ne ho avuto un esempio recente, quando il comune di Parigi mi ha inviato un interessante invito per partecipare alla “Nuit de débats”.
Arrivata alla terza edizione, questa manifestazione ideata dalla sindaca socialista Anne Hidalgo affascina, soprattutto gli italiani (e questo vorrà dire pure qualcosa, ma non so se sia positivo).
In pieno luglio, nei bar, nei caffè, nei giardini della città si organizzeranno dibattiti su moltissimi temi, che possono essere facilmente proposti dai cittadini, muniti di una piccola guida per il buon dibattito.
Attenzione: lo scopo è solo il dibattito e lo scambio di idee. Un’iniziativa simpatica. E rivelatrice. Certo, in democrazia il dibattito è fondamentale. Si deve discutere. Poi si dovrebbe decidere e, magari, produrre dei risultati. Talvolta però i dibattiti durano decenni e nel frattempo nulla si decide, né si producono dei risultati per i cittadini.
Nulla di nuovo per gli italiani. Tuttavia non è nemmeno possibile fare paragoni con il caso italiano, dove tutto ciò assume tratti molto più caotici.
In Francia c’è una passione “codificata” per il dibattito, che si fonda molto spesso su un discorso pubblico astratto, molto ideologico e poco pragmatico. Il contrasto è ancora più forte quando si fa il paragone con la realtà d’Oltremanica, con il pragmatismo anglosassone, meno incline alla teoria e all’astrazione.
La politica in particolare è molto spesso guidata dal puro desiderio di fare dell’astrazione e tiene poco conto della complessità della realtà.
Tutto tende a essere riportato a opposizioni binarie, quasi a voler eliminare qualsiasi elemento di convergenza e di condivisione. La Francia, è bene ricordarselo, è la patria del clivage destra e sinistra. Divisioni retoricamente presentate come nette ma molto meno marcate in realtà delle stesse divisioni interne alla destra e alla sinistra. E la passione per l’argomentazione procede di pari passo con l’amore per il paradosso, per le posizioni intellettualmente eccentriche.
Se il sistema dell’istruzione insegna effettivamente ai futuri cittadini francesi dei veri e propri schemi argomentativi – ben conosciuti agli stranieri che cercano di ottenere la certificazione della lingua – tuttavia, a dispetto dell’attaccamento retorico all’idea della contrapposizione, si riproducono schemi e abitudini della cultura francese, promuovendo l’altra ossessione: l’unità.
2 “Rassembler” La parola magica
Il gusto della contrapposizione è talmente radicato che si assiste facilmente a paradossi, a comportamenti che risultano all’osservatore esterno bizzarri e sorprendenti. Il caso più evidente è il vero e proprio culto dell’unità.
Se da un lato infatti si alimenta culturalmente l’idea del dibattito continuo e della contrapposizione, dall’altro lato esiste una tradizione repubblicana che pone l’unità del paese sopra ogni cosa.
L’unità del paese per difendere la repubblica, che è indivisibile e laica, dotata di un’amministrazione centralizzata, che guarda alle culture regionali e alle lingue minoritarie con sospetto (la Francia è uno dei pochi paesi europei a non aver ratificato la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie). L’unità del paese a scapito della società civile: i cittadini devono dissolversi in quest’unità generale, di questa comunità che deve pensare all’unisono.
Quando si parla di giacobinismo politico, ci si riferisce esattamente a questo. E qualche problema sorge e il tema dell’identità diventa onnipresente nella ricerca sociale. Diritto alla differenza, ma non troppo.
3 “Marx è vivo e lotta insieme a noi”
L’amore per il dibattito continuo e per l’astrazione s’accompagna a una certa tendenza al radicalismo, l’utopia diventa l’obiettivo dell’azione politica.
Raymond Aron ha saputo descrivere perfettamente questa passione: riformare è noioso mentre la rivoluzione è eccitante perché conserva poesia, il gusto dell’ignoto, dell’avvenire, dell’assoluto. L’idea rivoluzionaria della rottura culturale con il mondo occidentale, come se la Francia non ne facesse parte, poiché essa ha aspirazioni universali. Un atteggiamento molto radicato a sinistra.
Se ormai per molti Marx è solo un autore oggetto di studio, il pensiero marxista è vivo e vegeto in Francia e non confinato all’estrema sinistra. O forse sarebbe meglio dire che la vulgata marxista è parte integrante del dibattito pubblico: la lotta di classe, la globalizzazione come strumento delle classi dominanti, la classe padronale, i governi moderati e borghesi (vedi Macron) sono tutti temi ben presenti nella retorica politica.
Anche i socialisti francesi continuano a rappresentare il processo sociale come un gioco a somma zero tra classe dominante e classe dominata. E il liberalismo esiste solo e sempre come ultraliberismo, neoliberismo, liberismo selvaggio.
Basta vedere i risultati di Mélenchon, un maestro in questa retorica. Tuttavia, in particolare, è il dibattito interno al Partito Socialista che lascia perplessi: si alimenta al proprio interno di questa retorica politica, ma poi la pratica di governo è molto diversa. Una contraddizione che perseguita i socialisti dalla nascita.
Il Partito Socialista, come lo conosciamo oggi, nasce ad Epinay nel 1972. Per opera soprattutto di quello che era diventato il principale oppositore di de Gaulle: François Mitterrand. L’uomo politico che segnerà la storia recente della gauche, pur appartenendo a un ambiente culturale moderato (qualcuno lo ha definito un ambiente culturale di destra), diventa il propugnatore di una sinistra “rivoluzionaria”, per quanto forza tranquilla: si tratta di ribaltare il sistema economico della Francia e avviarla verso un sistema terzo fra il comunismo e il capitalismo.
Mitterrand era un uomo di intelligenza politica come pochi. E dotato di enorme ambizione. Il suo scopo era diventare Presidente delle Repubblica e sapeva che per farlo doveva tenere assieme tutta la sinistra, in particolare aveva bisogno del sostegno del Partito Comunista Francese.
Gli insuccessi di chi l’aveva preceduto lo dimostravano empiricamente. Nasce però questa duplicità del PS: parla di rivoluzione ma governa come i socialdemocratici. Henri Emmanuelli, storico leader della sinistra interna al PS, lo aveva spiegato molto bene: “Abbiamo fatto la nostra Bad Godesberg il 23 maggio 1983 alle 11 del mattino” quando “abbiamo deciso di aprire le frontiere e di non uscire dallo SME, abbiamo scelto un’economia di mercato”.
Tuttavia una chiarificazione “dottrinale” tra l’ala destra e alla sinistra del partito non c’è mai stata. E qualche conseguenza l’ha avuta anche nella recente gestione Hollande.
Ciò che stupisce è che molto spesso nella sinistra francese siano guardati con sospetto quelli che sono i padri del pensiero liberale francese (e non solo): Nicolas de Condorcet, Benjamin Constant, Alexis De Tocqueville.
4 “Liberté, égalité, fraternité”
Mi servo di un aneddoto per spiegare questo punto. Hollande presidente, venne creato un segretariato di stato per l’uguaglianza dipendente dal primo ministro. In realtà il nome completo era: Segretariato di Stato per l’Uguaglianza… Reale.
Non s’occupava tanto di questioni relative alla rappresentanza di genere o delle minoranze. Si trattava di un segretariato che doveva in qualche modo realizzare l’eguaglianza reale tra i cittadini. È durato quattro mesi. Non si è trattato di una vicenda edificante anche perché il messaggio trasmesso è l’opposto di quello che si voleva dare: l’eguaglianza reale non è realizzabile, per tanto si accontentino dell’eguaglianza formale. Come se non vi fosse nulla in mezzo tra le due.
Amartya Sen dice che l’eguaglianza in sé non ha alcun senso. Deve sempre essere definito l’ambito in cui si applica. Perché la troppa “eguaglianza” talvolta genera anche ingiustizia (ad esempio quando non viene premiato il merito oppure quando si generano politiche assistenziali).
L’importante però è parlare di eguaglianza reale, a scapito di tutto il resto. Meglio additare dei facili colpevoli – chi ad esempio ha un reddito alto – per evitare di affrontare i problemi del paese, che sia il disequilibrio dei conti o la mancanza di crescita. Perché in momenti di difficoltà è meglio indicare dei capri espiatori. Per poi magari fare dei passi indietro quando di fronte alla possibile fuga di capitali si definiscono norme che disinnescano il processo che la stessa classe politica ha avviato.

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