Oltre la suggestione della Jihad che si fa Stato. Di più: califfato. Oltre la dimensione integrista-religiosa che si fa legge – la “sharia – e regola ogni atto della vita quotidiana del miliziano. La “fascinazione” dell’Isis non è nelle sue indubbie capacità mediatiche né in una invincibilità militare fortemente intaccata sia in Iraq (Mosul) che a Raqqa (Siria). E non sta neanche nella figura, tutt’altro che carismatica, del (vivo o morto) Abu Bakr al-Baghdadi.
La forza dell’Isis, quella che attira a sé migliaia di giovani con passaporto europeo, è la sua narrazione.
Come ben argomenta Olivier Roy nel suo libro “Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente” (Feltrinelli 2017), il fascino dell’Isis risiede nella
volontà del movimento, presente fin dalle origini, di creare un nuovo tipo di ‘homo islamicus’, staccato da tutte le appartenenze nazionali, tribali, razziali o etniche, ma anche familiari e affettive, per creare una nuova società a partire da una sorta di tabula rasa…
La fascinazione è in questo, così come l’elemento di novità dell’Isis risiede, riflette Roy, nell’associazione di jihadismo e terrorismo con la ricerca deliberata della morte. Non è dunque l’Islam che si radicalizza ma, guardando all’identikit dei terroristi entrati in azione in Europa, da Parigi a Bruxelles, da Nizza a Manchester, da Monaco a Berlino e Londra, ciò che colpisce è il fatto che, tranne pochi casi, i jihadisti non passano alla violenza dopo una riflessione sui testi.
Per farlo, rimarca ancora lo studioso francese,
dovrebbero disporre di una cultura religiosa che non hanno e, soprattutto, non sembrano intenzionati ad acquisire. Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli.
Non è il “Paradiso di Allah” ad esercitare su di loro una fascinazione che li porta ad ambire a divenire “shahid” (martiri). Ad affascinarli è l’idea della “bella morte”.
Qui, e viene in soccorso Roy,
sta qui il paradosso: questi giovani radicali non sono utopisti, sono nichilisti in quanto millenaristi. Il domani non sarà mai all’altezza del crepuscolo. Si tratta della generazione “no future”.
Guardano al “Califfo Ibrahim” come un tempo potevano identificarsi con altri “miti” rivoluzionari: il sub comandante Marcos, ad esempio.
Il loro avvicinamento alla Jihad globale non si fonda tanto sulla condivisione dei precetti più estremi dell’Islam radicale, quanto sulla convinzione che il riscatto dei diseredati, se un tempo passava attraverso il terzomondismo “modello Che” oggi s’incarna nella sollevazione contro l’Occidente colonizzatore operata dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. Sociologia più che religione. Volontà sovversiva globalizzata. La Jihad come tratto identitario unificante.
Molti di loro non hanno alle spalle storie di disperazione sociale, di nuclei famigliari distrutti, la loro conversione all’Islam è un processo di identificazione con una causa per la quale vale la pena combattere e sacrificare la propria vita. Alcuni cercano di fuggire dall’emarginazione, ma altri, la maggioranza, è alla ricerca di una realizzazione personale. La “bandiera nera” dello Stato Islamico attrae come un tempo riusciva farlo la “bandiera rossa”.
Quella che prende forma è una identità transnazionale messa al servizio della comunità in pericolo. Cresce sempre più il numero dei reclutati e quello dei Paesi da cui provengono: in Europa, soprattutto Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Finlandia, Norvegia, Irlanda, Danimarca.
Molti di loro si addestrano nelle trincee mediorientali per poi far ritorno nel Vecchio Continente. Pronti a colpire. Nel nome di una rivoluzione (jihadista) capace di sovvertire l’ordine di cose esistenti.
Fonti di intelligence occidentali spiegano che la nuova leva di foreign fighters è più difficile da individuare perché l’avvicinamento alla Jihad globale non avviene attraverso la frequentazione delle moschee radicali nel Vecchio Continente, poste sotto controllo dai servizi di sicurezza occidentale.
Nella stessa popolazione carceraria di alcuni Paesi europei la componente musulmana è sovra-rappresentata: ad esempio in Francia i musulmani sono il 7-8 per cento dei cittadini ma le stime sui carcerati parlano di un 50-70 per cento.
A parlare è Scott Atran, antropologo franco-americano che da anni studia i combattenti musulmani e ha condotto decine di interviste con miliziani catturati in Siria e Iraq – o disertori per delusione – e giovani europei finiti nei guai per avere collegamenti con reti terroristiche a Parigi, Londra, Barcellona.
Per molti che si sentono esclusi, che pensano di non avere una parte nella società, l’Isis è attraente.
“Mi sento come una transgender, non francese e nemmeno araba. Il Califfato è forse l’unico luogo in cui posso essere una musulmana con dignità” Ci ha detto una donna intervistata di recente.
Non ci sono solo i giovani delle periferie, un problema di identità lo hanno in tanti.Un altro gruppo attratto dall’Isis sono i giovani brillanti che sentono di essere lasciati indietro a causa della loro provenienza o appartenenza religiosa e per questo covano rabbia e frustrazione,
annota Atran.

Scott Atran, Department of Psychology, Research Center for Group Dynamics
La frequentazione di ragazzi di origini arabe avviene inoltre nelle palestre, le prime manifestazioni a cui si partecipa hanno origine dalla rabbia sociale piuttosto che in solidarietà verso i “fratelli mujaheddin” iracheni, siriani, palestinesi. Usano il web per le lezioni coraniche e dal web traggono i contenuti motivatori di un nuovo terzomondismo che vede proprio nel jihadismo militante l’opportunità di combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente.

Giuliano Ibrahim Delnevo con il padre Carlo
Così è avvenuto per Giuliano Delnevo, il ventiquattrenne genovese convertitosi all’Islam col nome Ibrahim, rimasto ucciso in uno scontro a fuoco nei pressi di Aleppo all’inizio del maggio 2013: Giuliano Ibrahim Delnevo, usava il Web per le lezioni coraniche, e il suo avvicinamento al jihadismo militante nasceva anzitutto nella volontà di combattere le “ingiustizie perpetrate dall’Occidente”, in primo luogo in Medio Oriente, e in particolare nella Siria dove un dittatore sanguinario, “sostenuto dall’Occidente”, Bashar al-Assad, “aveva dichiarato guerra al popolo siriano”.

Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo
Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo, è tra i più autorevoli studiosi arabi dell’Islam radicale armato. Le sue considerazioni sono una traccia di lavoro per una Europa che guardi oltre i muri innalzati, la securizzazione e le velleità militariste:
Basta studiare le biografie di alcuni dei foreign fighters europei morti in Siria o in Iraq o anche di alcuni degli attentatori di Parigi o di Bruxelles non siamo di fronte a dei disperati che devono vendicarsi della fame patita, ma abbiamo a che fare con individui che trovano nella suggestione politico-terroristica del Califfato un ancoraggio identitario, una ragione di vita e di morte. Per contrastare questa deriva, non è solo questione di intelligence, di sicurezza, di militarizzazione delle città, Né bombardare a tappeto Raqqa o Mosul. Quella che va condotta è anche una battaglia culturale.
Ma di essa ancor oggi in Europa non vi è traccia.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!