La Pittura Analitica è il tema di una mostra suddivisa in due sedi storiche: a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta, nel Padovano, inaugurata il 7 luglio e aperta fino al 1° ottobre, con quarantacinque grandi dipinti, e nella trecentesca Rocca di Umbertide, simbolo dell’omonima cittadina umbra, dal 29 luglio al 27 agosto, con cinquanta opere di dimensioni minori. C’è un sottotitolo, “Origine e continuità”, che — secondo l’impostazione dei tre curatori Giorgio Bonomi (responsabile per Umbertide), Alberto Rigoni e Michele Beraldo — allude alla prospettiva storico-critica di quella tendenza, in conformità alla quale si articola la rassegna. In essa si presentano dieci degli undici “Protagonisti” (nati tra il 1933 e il’45; otto i sopravvissuti, tra cui la cilena Carmengloria Morales, non in mostra), otto “Presenze” (1933-1949, attivi in parallelo nei medesimi anni, ma indipendentemente) che in più occasioni hanno esposto assieme a loro, e cinque di “Continuità” (1952-1968), che più tardi si sono dedicati a ricerche strettamente analoghe, a volte ampliandole.
L’evento — documentato da un catalogo di 240 pagine, a cura di Alberto Rigoni, con i contributi critici in italiano e in inglese dei curatori, pubblicato da Silvana editoriale — ha fruito della collaborazione della Regione del Veneto, del Comune di Umbertide e di Immobiliare Marco Polo s.r.l. che, nello specifico, gestisce Villa Contarini. Sul piano organizzativo ha partecipato Giorgio Ferrarin, fondatore di FerrarinArte (Legnago).
Ecco i dieci “Protagonisti” del movimento originario…
- Carlo Battaglia
- Enzo Cacciola
- Paolo Cotani
- Marco Gastini
- Giorgio Griffa
- Riccardo Guarnieri
- Claudio Olivieri
- Gino Pinelli
- Claudio Verna
- Gianfranco Zappettini
…gli otto di “Presenze”…
- Mauro Cappelletti
- Vincenzo Cecchini
- Sandro De Alexandris
- Paolo Masi
- Paolo Patelli
- Pope
- Lucio Pozzi
- Claudio Rotta Loria
…e i cinque di “Continuità”:
- Sonia Costantini
- Domenico D’Oora
- Paolo Iacchetti
- Gianni Pellegrini
- Rolando Tessandri
A tale distinzione corrispondono le tre sezioni che marcano il percorso della mostra nelle due sedi.
Fin qui tutto bene; ma di cosa stiamo parlando? L’argomento è complesso. Chi ha seguito i fatti dell’universo dell’arte negli anni tra i Cinquanta e i Settanta del secolo scorso è facile che provi una certa emozione nel ricordare le inquietudini che li animavano, pur agitati com’erano a volte, e anche violenti, difficili da comprendere; ma sempre controbilanciati dal bisogno vitale di rompere ogni rapporto con il passato. Il segnale di partenza era stato dato dal semiologo e critico letterario francese Roland Barthes, con la teoria del “Degré zéro de l’écriture” trattata nell’omonimo libro, edito nel 1953 (del quale non ci si dovrebbe dimenticare quando si usa l’ormai universale espressione “il grado zero”). Barthes la riferiva all’écriture, cioè alla letteratura, ma essa ne oltrepassò in breve i confini, dilagando in tutte le forme d’arte: per quelle visive, negli ambiti di Spazialismo, Nouveau Réalisme, Arte Povera, Land Art, Arte programmata e cinetica, Concettualismo, Minimalismo…
Pensando a qualche caso specifico, si possono ricordare un certo Pop del mondo anglofono, e in particolare negli U.S.A. (con autori come Robert Mangold, Brice Marden e Robert Ryman), in Francia nei gruppi BMTP (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni) e Support/Surface (Alocco, Arnal, Cane, Grand, Viallat, …), in Germania e Olanda con numerosi altri; da noi, con Lucio Fontana, Mario Schifano, Piero Manzoni. Gli “analisti” agirono come individui autonomi, senza formare mai un gruppo né pubblicare manifesti, e spizzicando elementi anche nel cumulo di formule progettuali dei succitati: il materiale dall’Arte povera, il processo dai concettualisti, il monocromo da Manzoni. Il loro proposito era di trasformare l’iter pittorico in un’indagine sulle componenti fisiche della pittura, annullando ogni referenzialità propria dei figurativismi.
I pittori, in pratica, escludevano dal proprio lavoro qualsiasi figurazione, significato, espressione, narrazione, simbolo, ideologia, passione, sentimento, ed elaboravano le opere impegnandosi ad affrontare e approfondire la natura fisica del supporto (tela e telaio, tavola, metalli, plastica, carta, stoffa), le peculiarità dei materiali (colori e additivi, collage e solidi applicati), il segno (beninteso: non significante).
Il dipinto finito, inoltre, lo pensavano solo in funzione della fruizione diretta, senza il tramite di riproduzioni in cui le finezze cromatiche degli originali non avrebbero potuto essere raffigurate con il dovuto risalto. Qualsiasi compromesso avrebbe nullificato le possibilità di valutare criticamente l’opera d’arte.
La notorietà di questa corrente, che mai ha avuto una struttura organizzativa, dipendeva molto dalle presenze dei singoli artisti in mostre importanti: dalle Biennali di Venezia (cui per primo partecipò, nel 1966, Guarnieri, che peraltro non fu definito pittore analitico) ad altre strettamente tematiche, meno influenti ma storicamente fondamentali: come, nel 1973, “Tempi di percezione”, alla Casa della Cultura di Livorno (a cura di Luigi Lambertini e Lara-Vinca Masini), e “Un futuro possibile – Nuova pittura” al Palazzo dei Diamanti di Ferrara (a cura di Giorgio Cortenova). Nel ’74 Klaus Honnef organizzò “Geplante Malerei” (Pittura progettata) al Westfälischer Kunstverein di Münster, riproposta quasi integralmente, pochi mesi dopo, alla Galleria Il Milione di Milano, e, assieme a Catherine Millet, nel 1975 curò a Düsseldorf l’esposizione “Analytische Malerei”, dove per la prima volta nel testo di un catalogo comparve l’espressione “Pittura analitica”.
Nel medesimo anno l’influente critico e docente salernitano Filiberto Menna pubblicava presso Einaudi il libro “La linea analitica dell’arte moderna”, tratto in buona parte dal suo testo “Per una linea analitica dell’Arte Moderna”, scritto per la mostra collettiva “La riflessione sulla pittura del 1973”, allestita al Palazzo Comunale di Acireale. Oggi il volume appare come un vaticinio sulla storia per allora futura di quei protagonisti e rimane quale fondamentale pilastro sulla cui profonda ed esauriente base teorica essa può continuare ad aggiornarsi. L’autore purtroppo è scomparso troppo presto per seguirne l’iter quando il declino critico-commerciale del movimento si è fatto sentire e quando, agli inizi del nostro millennio, è subentrata la fase di ripresa.
A quella flessione corrispondeva già negli anni Ottanta qualche calo nell’uniforme coesione delle tipologie programmatiche dei protagonisti: alcuni di essi, infatti, imboccarono strade nuove; prendendo il caso di Carlo Battaglia, si consideri per un confronto questo pastello del 1980 (con accanto un particolare in cui si può distinguerne meglio la chiara caratteristica modulare) e un dipinto del 2000.

Carlo Battaglia, Come un giovane mare temerario, pastello su carta intelata, 1980

Carlo Battaglia, Come un giovane mare temerario, pastello su carta intelata, dettaglio, 1980

…e Orimonti, canto X, olio e tempera all’uovo su tela 2000
Il cambiamento radicale è indice non di uno sviluppo per gradi del pensiero, ma della negazione di un modo di essere, facendolo a un’età prossima ai settanta!
Battaglia, nato nel 1933 sull’isola de La Maddalena, si era diplomato in scenografia, passando alla pittura con le lezioni di Toti Scialoja, e trascorse poi qualche mese negli Stati Uniti; lì, in assiduo contatto con gli artisti, assimilò la sostanza delle poetiche di Motherwell e Rothko. Ventiquattrenne, fu invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia e in seguito espose nelle mostre di maggiore rilievo della “Nuova pittura”; ma col tempo percepì che le sue idee dissentivano dalle formulazioni teoriche della Pittura Analitica e se ne allontanò, applicandosi, nella terra natia (dove morì nel 2005), a una pittura in cui dominava il tema del paesaggio.
Dalla sezione “Presenze” ecco Paolo Patelli, di un anno più giovane: non è la radice dell’albero che qui si presenta diversa, bensì le sue fioriture, come per un possibile innesto.
- Paolo Patelli, Triad, acrilico e smalto su tela, 1973
- Paolo Patelli, I have tried to write Paradise, acrilico su legno, 2006
Nato ad Abbazia, nell’Istria allora italiana, e pur dipingendo da autodidatta ha un esordio fuori dalla norma, nel 1962, con una mostra a Vienna accanto a Rainer, Nitsch, Mikl, Lassnig e Twombly, seguita quasi subito — nelle gallerie di Carlo Cardazzo a Venezia (il Cavallino) e a Milano (il Naviglio) — dalla partecipazione alle autorevoli collettive, curate da Gillo Dorfles, Nuove Tendenze in Italia e Zero: International Avant-garde of the 50s and 60s. Docente in accademie italiane e università americane, la notorietà che Patelli via via acquisisce si lega a rassegne, accanto anche a Battaglia, Griffa, Guarnieri, Olivieri, Vago, Verna, dov’è centrale il pensiero analitico. Si data al decennio seguente il suo progressivo allontanamento dal rigore analitico, con l’adozione di scritture informali in una pittura astratta aperta all’emotivo (si vedano sopra gli esempi di un’opera del 1973 e di una del 2006).
Per gli esponenti della Pittura Analitica seguitarono anni di notevole calo d’interesse da parte di musei, gallerie, critici e pubblico, finché, a partire dal 2003, si annunciarono i sintomi della rinascita, grazie ad alcune mostre che ne avviavano la ripresa. Da citare, al Museo Angelo Bozzola di Galliate novarese, “Pittura analitica – Una ricognizione storica, Italia 1966-1978”, curata da Marco Meneguzzo, e alla Fondazione Zappettini di Chiavari (itinerante poi nella Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate e negli Istituti Italiani di Cultura di Praga e Londra), “Pittura 70, Pittura-Pittura e astrazione analitica”, curata da Giorgio Bonomi, che dirigeva la fondazione (Pittura-Pittura era stata, nei primi tempi, la definizione usata in parallelo, che differiva dall’analitica per una certa elasticità programmatica).
In entrambe le sedi della duplice mostra attuale è rispettata, come si è detto, la separazione tra i dieci “Protagonisti”, gli otto delle “Presenze” e i cinque di “Continuità”. Per evidenziarne le peculiarità in modo essenziale, ho pensato di proporre ai lettori un solo lavoro di alcuni artisti, in cui se ne concentrano di ben definite, precisando per ciascheduno il movente delle scelte; il primo, per il rigore di un estremo ed efficacissimo controllo degli interventi, è di Cacciola:

Enzo Cacciola, 15.12.1973 con superficie integrativa, dipinta con vernice industriale
Segue Catani, per la struttura anomala del supporto, che diventa essa stessa segno:

Paolo Catani, Bende elastiche, bende elastiche avvolte sul telaio, acrilici, 1975
E Pinelli, per il montaggio solido sul supporto floscio, che crea un contrasto concettuale:

Pino Pinelli Pittura GR, flanella non preparata, acrilico, 1976
Tra le “Presenze” ritengo interessante far notare un Cappelletti:

Mauro Cappelletti, Direzionali fluorescenti, acrilici e fluorescenti su tela, 1978.

Mauro Cappelletti, Direzionali fluorescenti, acrilici e fluorescenti su tela, 1978 (i particolari superiore e inferiore)
Diviso verticalmente in due strisce monocromatiche elaborate su varianti minime dell’azzurro, termina in alto e in basso con due sottili e appena distinguibili aggiunte orizzontali rosse, da considerare quali parti attive dell’indagine — tipicamente analitica — sulla percezione.
Della sezione “Continuità”, infine, ecco un immacolato monocromo di Sonia Costantini:

Sonia Costantini, G13-29 Blu King chiaro, acrilici e olio su tela, 2003
La medesima soluzione pittorica ricorre anche tra le opere degli altri quattro artisti, ma solo questa — di un colore, sì, perfettamente uniforme, ma soprattutto blu — sembra riferirsi al celebre precedente degli Yves Klein/metà anni Cinquanta, per il quale l’artista nizzardo, ricercando il blu perfetto e unico che sognava, aveva studiato, inventato e persino brevettato un “International Klein Blue”, peraltro mai entrato in produzione. Per lui, però, la scelta era legata a un vuoto-Zen simile al nirvana, impostato su un concetto ideologico radicalmente estraneo al pensiero degli analisti. Tale rapporto di identità formale non significante, tuttavia, è di notevole interesse, perché dimostra quale debba essere, nell’esercizio della critica d’arte, l’irrinunciabile cautela per non incorrere nel precipizio di ingannevoli considerazioni frettolose.
Per concludere, cerco di rispondere a una domanda che credo ovvia: come e quando si è manifestata l’idea di un’indagine analitica in pittura?
Nel succitato libro di Filiberto Menna ne parla l’intero secondo capitolo:
Quando Seurat costruisce il quadro della Grande Jatte — dice nella premessa — ricorre a un procedimento tipicamente analitico che scompone il tono delle sue componenti elementari nelle sue unità atomiche e organizza queste unità sulla base di relazioni e dipendenze interne fondate su regole costanti; con lo stesso procedimento, scompone la continuità dello spazio in unità elementari (linee verticali, orizzontali, diagonali, zone puntiformi di colore) e organizza queste unità in un insieme fortemente solidale, in una struttura, dove ciò che conta non è la corrispondenza tra interno ed esterno, tra il quadro e le esperienze fenomeniche, ma più semplicemente e coerentemente la relazione interna di quelle unità…
Quest’opera, esposta nell’ottava e ultima mostra degli impressionisti (1886) e diventata subito argomento di accesi dibattiti, aveva l’apparente movente scientifico della fusione ottica dei colori primari giallo-rosso-blu, ma in effetti nasceva da un metodicità disciplinare ideologicamente mirata a togliere di mezzo la baldanza del fare operativo romanticamente libero e veloce dei dipinti impressionisti. Il contrasto tra i due sistemi è deciso, se si pensa ai due anni impiegati da Seurat per quest’opera di due metri per tre, spesi per le innumerevoli visite sul posto a studiare le luci, e i numerosi disegni e bozzetti preparatori. Con esso nasceva non soltanto la tecnica del “divisionismo”, chiamata così dall’autore, diventata “puntinismo” (“pointillisme”) nelle cronache contemporanee, ma pure il movimento post-impressionista.

Georges Seurat, Une dimanche après-midi à l’île la Grande Jatte, 1884-1885

Georges Seurat, Une dimanche après-midi à l’île la Grande Jatte, 1884-1885 (un particolare)
La realtà, poi, come succede spesso, non corrisponde sempre alle premesse; Seurat stesso se ne rese conto e si avviò verso esperienze diverse. Tuttavia, se il non-figurativo, allora, non fosse stato impensabile, potremmo immaginare che il primo pittore analitico sarebbe stato lui.

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