Il sottotenente Federico Cocito, del 12° Bersaglieri, si arrampicò agilmente sui massi residui delle mura abbattute per una trentina di metri a colpi di cannone, e da quella leggera altezza di un paio di metri da terra ebbe un dubbio che gli rimase anche oltre l’attimo che lo aveva fatto esitare: le mura entro cui era stata fatta una breccia erano davvero quelle di Roma?
Non è che i generali Cosenz e Mazé dell’undicesima e della dodicesima Divisione di artiglieria, o addirittura il generale Cadorna avevano sbagliato città? Ma no! La Porta a soli cinquanta metri dalla breccia era proprio la michelangiolesca Porta Pia, l’aveva anche studiata alla Scuola ufficiali, a Torino. Era impensabile un errore! Lo Stato maggiore aveva deciso per lo sfondamento in quel punto delle mura proprio perché era il più vicino al Palazzo del Quirinale, la residenza del Papa Re.
Il dubbio del sottotenente Cocito nasceva da quello che aveva davanti agli occhi: nessuna vetusta colonna o arco dell’antica Roma, nessuna cupola barocca, ma orti e vigne. A destra, a sinistra e davanti a lui orti e vigne, e qua e là gruppi di lecci che ogni villa a Roma aveva per creare zone di fresco in estate. Erano ettari ed ettari di verde coltivato. Il militare non lo sapeva, ma uno dei motivi del fascino che l’Urbe esercitava verso gli stranieri che dal Nord Europa venivano per il Grand Tour in Italia era quel pezzo di campagna entro le mura, nella zona del Macao: così si chiamava quell’area, perché laddove al tempo degli imperatori romani sorgeva il Castro Pretorio, nel Seicento i Gesuiti edificarono un collegio per i loro missionari in Cina, da poco ceduto e divenuto la caserma degli Zuavi.

pianta di Roma, della zona di Porta Pia, di Filippo Troiani, del 1840
Il sottotenente Cocito e gli altri bersaglieri, dopo aver aperto la Porta dall’interno per consentire un ingresso veloce agli altri soldati dell’Esercito Regio, procedettero per il rettilineo della via Pia per un chilometro e solo allora ogni dubbio fu sciolto, quando scorsero sulla sinistra il chiostro benedettino adiacente alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, costruita dentro le Terme di Diocleziano; davanti il Convento dei Carmelitani di Santa Maria della Vittoria, e poco oltre a destra sul declivio del Quirinale, il Convento dei Frati Cappuccini. Cocito non avrebbe potuto immaginare che dietro i reggimenti dei bersaglieri erano pronti ad entrare quelli dei costruttori piemontesi e genovesi, che avrebbero trasformato quegli ettari di verde in una colata di cemento, con i futuri quartieri ministeriali. E anche gli spauriti frati dei tre conventi non avrebbero potuto immaginare che nel giro di pochi anni si sarebbero ritrovati dall’estrema periferia della città al suo centro: i Carmelitani in Largo di Santa Susanna, i Benedettini in Piazza Esedra e i Cappuccini in via Veneto.
Una cosa la potevano supporre sia il sottotenente Cocito che i frati dei tre ordini: tutti e tre i Conventi e le rispettive Chiese sarebbero stati sicuramente incamerati dallo Stato, come finora nel resto della penisola divenuta Regno d’Italia, erano stati incamerati i beni degli Ordini e delle Congregazioni religiose, dopo le leggi del 1866 e 1867, le “leggi eversive”. Un’altra cosa invece non potevano immaginare i Cappuccini: che dopo meno di cento anni sarebbero stati al centro di un “giallo” artistico, e che avrebbero benedetto quelle “leggi eversive” che sul momento erano state invece maledette. E con loro tutti gli Ordini religiosi presenti in Italia.
I Cappuccini avevano nella loro Chiesa una bellissima tela del Seicento con un intenso San Francesco in meditazione. Nel 1908 gli studiosi di Caravaggio giunsero ad attribuire al Maestro lombardo la tela. Era suo lo stile naturalistico, ed era sua la spiritualità: il Santo di Assisi non era colto al momento di ricevere le stigmate, come quasi tutte le tele del periodo della Controriforma, bensì mentre tenendo tra le mani un teschio medita sulla morte che dà significato alla vita e alle sue scelte. E anche alcuni documenti indicavano nel Merisi l’autore.
Tuttavia nel 1968, in un’altra Chiesa incamerata dallo Stato nel 1867 ecco spuntare una copia identica di quel San Francesco. Qual era dunque l’originale? Quello dei Cappuccini di via Veneto o quello della chiesa di San Pietro a Carpineto, retta dai Frati minori Riformati? Un restauro delle due tele forse avrebbe potuto aiutare a sciogliere il nodo, ma entrambi gli Ordini non avrebbero avuto i fondi necessari per condurre una operazione del genere. Per fortuna entrambe le Chiese e i Conventi, benché abitati dai frati, erano tra quelle incamerate dallo Stato e facevano quindi parte del Demanio, che qualche anno dopo – nel 1982 – avviò il restauro.

Le due tele di San Francesco in Meditazione: a sinistra l’originale di Caravaggio (1606), a destra la copia
Ed effettivamente l’analisi dei pigmenti e di altri elementi materiali aiutò a svelare il mistero, in favore della tela di Carpineto. Le radiografie svelano una particolarità. Il san Francesco di Carpineto ha il cappuccio modificato da una mano diversa da quella del pittore originario: il cappuccio, inizialmente a punta come quello dei Cappuccini, diventa arrotondato come quello dei Minori Riformati. E in effetti a questi ultimi la Chiesa di Carpineto – fondata nel 1609 da Pietro Aldobrandini – fu affidata al posto dei Cappuccini, nel 1611 dopo la morte del Caravaggio. Il san Francesco dei Cappuccini di via Veneto non mostra dalle radiografie alcuna correzione e il suo cappuccio è tuttora a punta: esso è dunque una copia di quello di Carpineto, effettuata prima della “correzione” e ci fa conoscere l’aspetto originale dell’opera di Caravaggio, che la dipinse nel 1606. E il restauro ha chiarito anche che le due tele non sono entrambe opera della stessa mano, cioè dello stesso Merisi, come alcuni studiosi avevano ipotizzato vista la qualità della tela dei Cappuccini.
Nel frattempo lo Stato ha deciso di dare un governo ben preciso a questo immenso Patrimonio artistico dando vita nel 1987 al Fondo Edifici di Culto (FEC), un ente dotato di personalità giuridica, che fa capo alla Direzione centrale per l’amministrazione del Fondo, al ministero dell’interno, che provvede al restauro e al mantenimento delle oltre 820 tra chiese, rettorie e conventi sparsi in tutta Italia, e alle opere d’arte in essi conservati. E parliamo di capolavori come Santa Croce (con il ciclo di Giotto e il crocifisso ligneo di Donatello) o Santa Maria Novella a Firenze (con la Trinità del Masaccio e il crocifisso di Giotto), oppure Santa Maria del Popolo (con gli affreschi di Caravaggio), Santa Maria in Ara Coeli e Santa Francesca Romana a Roma, oppure le Chiese di Santa Chiara, San Gregorio Armeno o San Domenico Maggiore a Napoli, o ancora Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo e Santa Lucia ad Adrano a Catania. Tutti scrigni preziosi che racchiudono tesori.
E un altro “doppio” del Caravaggio, come quello di San Francesco prima visto, coinvolge i tesori del Fondo edifici di culto. Nella cappella del Rosario in San Domenico Maggiore a Napoli è conservata una Flagellazione di Cristo identica alla tela conservata al Museo di Capodimonte, sempre nella città partenopea. Quale è l’originale e quale la copia? I dati stilistici emersi con il restauro del 1928 inducono ad indicare la tela di Capodimonte rispetto a quella di San Domenico, benché sappiamo da fonte documentale che il Maestro dipinse una Crocifissione di Cristo per la cappella della famiglia De Franchis proprio in San Domenico. Tuttavia l’espressione del Cristo di Capodimonte esprime sgomento e dolore, in un verismo tipico del Merisi, il primo pittore che prende sul serio l’umanità del Nazareno; nel volto del Cristo di san Domenico c’è invece rassegnazione, più consono alla spiritualità della Controriforma. La maggior parte degli studiosi è di questo parere e più d’uno indica in Andrea Vaccaro, noto copista di Caravaggio, l’autore della tela di San Domenico.

Flagellazione di Cristo, di Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1607)
Anche in questo caso è il recentissimo restauro della tela di Capodimonte a sciogliere ogni dubbio. Le radiografie mostrano un ripensamento che manca invece nella tela di San Domenico, il che dimostra che è la seconda ad essere la copia della prima. Dalla radiografia emerge sotto lo sgherro di destra la figura di un frate domenicano (un santo? Un committente?). Caravaggio ci ha ripensato, ha tolto il frate ed è tornato al suo crudo realismo, che ci fa meglio capire non solo la sofferenza e la solitudine del Nazareno, ma anche la malvagità umana, che è anche la nostra che osserviamo l’opera.
Le quattro tele, cioè i due capolavori di Caravaggio e le due pregevoli copie, sono state esposte alla Galleria nazionale di arte antica, nella sede di Palazzo Barberini in Roma, assieme all’apparato emerso nei restauri, comprese le radiografie. Il tutto per celebrare i trent’anni dell’istituzione del Fondo Edifici di Culto, e per far conoscere al più ampio pubblico degli amanti dell’arte il suo prezioso ruolo.
È grazie allo Stato che l’Italia riesce a conservare e restaurare questa parte così importante del proprio patrimonio artistico che gli originari proprietari, gli Ordini e le Congregazioni religiose, non erano più economicamente in grado di fare. Rimane intatto però un altro grande problema, quello dei monasteri, dei conventi e delle chiese non incamerati dallo Stato. Questi segnano l’urbanistica delle nostre città storiche o il paesaggio delle nostre Regioni e dei nostri territori, rendendoli unici al mondo, in questo mirabile sposalizio tra natura, edifici storici e paesaggio agricolo. Gli ordini religiosi una volta avevano così tanti membri che rendevano necessari per loro questi conventi, che erano anche in grado di produrre redditi attraverso l’agricoltura e mantenersi. Senza contare che le donazioni permettevano di accogliere nei conventi, specie quelli femminili, quelle persone che in età anziana, dopo la vedovanza, chiedevano di entrare.

Radiografia di un particolare della Flagellazione di Cristo di Caravaggio.
Oggi non ci sono più donazioni, le vedove non chiedono più di entrare in convento dato che esiste l’Inps e gli ordini hanno un patrimonio edilizio sovradimensionato. Certo, potrebbero alienare alcuni monasteri o conventi cittadini, ma per quello che riguarda noi laici, il problema riguarda il mantenimento del profilo storico delle nostre città e le nostre campagne. Se tutti i monasteri con pochi frati o monache sulle colline dell’Umbria o della Toscana (solo per fare un esempio) divenissero beauty-farm, l’Umbria e la Toscana sarebbero lo stesso quello che sono ora? E se i conventi dei nostri piccoli centri divenissero tutti alberghi o residence, i nostri borghi sarebbero quelli che conosciamo?
Una cosa non avrebbero potuto immaginare il sottotenente Cocito, e neanche i frati Cappuccini, Carmelitani e Benedettini che in quel 20 settembre 1870 si sbarrarono in chiesa terrorizzati: 140 anni dopo, il 20 settembre 2010 alle celebrazioni per la Breccia di Porta Pia sarà presente il segretario di stato, il cardinale Tarcisio Bertone.

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