Arabia Saudita, l'”Isis bianco”

Autorevoli esperti sostengono che il vero “Stato islamico” esiste già e la sua capitale non è Raqqa, o Mosul, ma Riyadh. Ma per gli Usa e l'Occidente la petromonarchia è il pilastro della loro politica mediorientale.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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C’è chi sostiene che il vero “Stato islamico” esista già e la sua capitale non sia Raqqa, o Mosul, ma Riyadh.

È evidente come le attività di controllo e di coercizione, lo stato poliziesco e l’uso del terrore attraverso punizioni corporali e la morte, il mancato rispetto dei più elementari diritti umani, l’applicazione delle pene coraniche, l’utilizzo dell’Islam come ideologia e indottrinamento di stato, il totale disprezzo per la democrazia e il pluralismo, rendano l’Is e l’Arabia Saudita complanari,

rimarca in proposito Barbara De Poli, docente di Storia delle istituzioni dei paesi islamici e Storia del pensiero politico dei paesi islamici all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Teocrazia più petrodollari: l’Arabia Saudita. Con l’avvento della manna petrolifera, come scrive lo studioso francese Gilles Kepel, gli obiettivi dei sauditi erano diventati quelli di

espandersi, diffondendo il wahhabismo in tutto il mondo musulmano, di “wahhabizzare” l’Islam, riducendo così la pluralità delle voci all’interno di questa religione in un unico credo, un movimento che avrebbe trasceso le divisioni nazionali.

L’Arabia Saudita non esporta soltanto petrolio, ma anche intolleranza religiosa e volontari per la jihad,

incalza David Gardner sul Financial Times.

Stando ad alcune stime, ci sarebbero più di mille volontari sauditi nelle fila dell’Isis. Stima che le autorità di Riyadh respingono, ma che, se confermata, farebbe dei sauditi il secondo gruppo di stranieri più presenti nella milizia di al-Baghdadi, dopo i giordani. Nei palazzi del potere (politico, economico, finanziario) occidentali si continua a rappresentare l’Arabia Saudita come un paese retto da un regime “moderato”. Niente di più falso. Cosa c’è di “moderato” in un paese le cui leggi condannano a mille frustate i dissidenti, consentono la decapitazione di duecento persone all’anno e chiudono in carcere tutti i difensori dei diritti umani… Lo stato islamico saudita ha decapitato più persone di quanto abbia fatto lo “stato islamico” di Abu Bakr al-Baghdadi.

Donald Trump con il re saudita Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd

Ma su questo i “grandi della terra” preferiscono non parlare. Potenza dei petromiliardi. Che violentano la realtà e danno corpo a patti scellerati, come quello tra il Re e il Presidente, che può cambiare il volto del Medio Oriente. In peggio. È il patto che lega Washington a Riyadh, l’ottuagenario re Salman, e il suo giovane erede designato Mohammed bin Salman, a Donald Trump. Un patto che esalta la “diplomazia degli affari” più che la geopolitica. In questo senso,  il  viaggio del presidente Usa a Riyadh, nel maggio scorso, verrà ricordato per uno dei più grandi accordi nella storia della vendita di armi: navi da guerra, missili, veicoli blindati, aerei, munizioni e altro ancora per un valore di 110 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo dichiarato è di arrivare a 350 miliardi entro i prossimi dieci anni.

Continuare a inondare di armi un paese che dal marzo 2015 è alla guida di una coalizione militare che compie regolarmente crimini di guerra in Yemen è un atto irresponsabile che equivale a complicità in crimini di diritto internazionale.

Barack Obama e re Salman

Una complicità iniziata sotto l’amministrazione Obama, con trasferimenti di armi superiori a tre miliardi di dollari, e che ora diventerà ancora più palese.

D’altro canto, fu Hillary Clinton, in un’ammissione clamorosa svelata da Wikileaks, a riconoscere come Arabia Saudita e Qatar (oggi su fronti opposti in uno scontro intersunnita) fornissero

supporto finanziario e logistico clandestino all’Isis e ad altri gruppi sunniti radicali.

Affermazione forte ma che non portò la candidata democratica alla Casa Bianca a rifiutare il finanziamento alla “Bill, Hillary & Chelsea Clinton Foundation”, in una forbice indicata tra un minimo di dieci e un massimo di venticinque ricevuti dal “reame dell’Arabia Saudita”, con  il rinforzo di “uno-cinque milioni di dollari” avuti dagli “amici dell’Arabia Saudita”.

Quanto ai Saud, la presunta guerra all’Isis è solo una copertura. A chiarirlo molto bene è un editoriale pubblicato nel sito del quotidiano Al-Arabiya il 28 febbraio 2017 – scritto da una giornalista del Bahrain, divenuto di fatto un protettorato saudita – nel quale viene anticipata la strategia di Riyadh e dei suoi alleati del Golfo nella nuova fase di guerra solo nominalmente rivolta contro l’Isis:

L’idea non è limitata al dislocamento di elicotteri e artiglieria a Raqqa e a Mosul o al rafforzamento delle truppe speciali, ma si tratta anche di creare un fronte comune tra gli Stati Uniti e gli stati del Golfo che contribuiscono a combattere l’Isis, ma a condizione che le aree liberate dall’Isis non vengano occupate dall’Iran oppure dalle milizie associate a questo paese.

I passaggi successivi sviluppano ulteriormente il concetto:

Il contributo (militare e finanziario) degli arabi e del Golfo richiede in cambio che, sia in Iraq sia in Siria, l’Iran debba essere messo fuori da queste aree. Questo messaggio deve essere mandato in modo chiaro al governo iracheno (a guida sciita, ndr). Mattis (il generale James Mattis, segretario alla difesa degli Usa) ha detto che gli Stati Uniti sosterranno l’Iraq anche dopo la sua liberazione dall’Isis. Se noi associamo questa presa di posizione di Mattis a quella pronunciata dal ministro della difesa sull’Iran, identificato come stato che sponsorizza il terrorismo, ci rendiamo conto di avere un fronte unito che non solo insiste sull’uscita dell’Iran dall’Iraq e dalla Siria, ma vuole anche porre fine all’influenza iraniana in questi due Paesi”.

E conclude:

La creazione di un fronte unico tra Stati Uniti e paesi del Golfo è l’obiettivo della prossima fase. Il suo nome d’ordine sarà l’arabismo (la vittoria dell’arabismo) nelle terre liberate dall’Isis.

John Kerry, ex ministro degli Esteri americano, con il suo corrispettivo saudita, Adel al-Jubeir

Anche il ministro degli esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha annunciato in un’intervista che il suo paese e altri paesi del Golfo intendono partecipare con l’invio di truppe speciali alleate in una coalizione guidata dagli Stati Uniti alla battaglia contro l’estremismo in Siria:

L’idea di fondo è di liberare aree occupate dall’Isis e garantire che queste aree non finiscano nelle mani di Hezbollah, dell’Iran e del regime siriano, ma che le zone così liberate in Siria siano consegnate nelle mani dell’opposizione.

Un disegno che per essere realizzato deve mettere in conto un conflitto diretto con Teheran. La Siria, spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Storia e istituzioni dei paesi del Medio Oriente all’Università di Genova,

è strategica per l’Iran per avere una continuità territoriale dal Golfo Persico al Mediterraneo attraverso le comunità sciite del Bahrain, la maggioranza sciita irachena, l’alleanza con Assad e gli Hezbollah nel sud del Libano. La caduta di Assad  metterebbe a rischio il sostegno a Hezbollah in Libano, rendendo impossibile la pressione su Israele e minando la creazione del “triangolo sciita”.

Poco o nulla importa all’alleato americano che di “moderato” il regime integralista saudita non abbia neanche il sentore. Miliardi non olet.

L’ultima beffa, in ordine di tempo: Riyadh presenzierà nella commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (Uncsw). Un seggio ottenuto con una procedura a dir poco anomala, dal momento in cui è stato conferito con una votazione a scrutinio segreto, diversamente dalla consuetudine, su proposta, guarda un po’, degli Stati Uniti. Evidentemente poco importa se si tratta di un paese in cui le donne sono considerate alla stregua di una proprietà del padre o del marito, alle quali è vietato guidare, persino andare in bicicletta, obbligate a portare il velo e sono interdette da alcune cariche pubbliche (come il ministero degli esteri) e da incarichi nel settore petrolifero.

L’Arabia Saudita è un Paese in cui la segregazione femminile e il sottodimensionamento della donna sono una realtà concreta. È legge di stato il divieto di frequentarsi per uomini e donne non legati da parentela, le donne non guidano e hanno votato per la prima volta soltanto nel 2015. Le donne, inoltre, costituiscono soltanto il ventidue per cento del totale della forza lavoro.

Ogni donna saudita deve avere un tutore maschio che prenda tutte le decisioni al suo posto, controllando la vita di una donna dalla sua nascita fino alla morte,

rimarca Hillel Neuer, direttore dell’UN Watch. A marzo la “moderata” Arabia Saudita ha lanciato la sua prima riunione del Consiglio delle ragazze con foto pubblicitarie che mostrano tredici uomini sul palco e nessuna donna. Gli organizzatori hanno dichiarato che le donne erano coinvolte nell’evento, ma che erano state obbligate a sedersi in una stanza separata.

Il Global Gender Gap del 2015 ha classificato l’Arabia Saudita 134a su 145 Paesi per la parità di genere. Tra gli stati che hanno permesso questo scempio ci sono anche cinque paesi europei. Uno è quasi sicuramente il Belgio, visto che, quando sono state interrogate in merito, le autorità di Bruxelles non hanno voluto condannare la nomina saudita.

Ambiguità, doppiogiochismi. E la non volontà di fare i conti con una “verità” inquietante. Quella che Kamel Daoud espone un articolo sul New York Times:

L’Arabia Saudita, sorta di Is bianco, resta un alleato dell’Occidente nel gioco delle alleanze mediorientali. Viene preferita all’Iran, un Is grigio. Ma si tratta di una trappola che, attraverso la negazione, produce un equilibrio illusorio: il jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non ci si concentra su ciò che lo ha creato e lo sostiene. Questo permette di salvare la faccia, ma non le vite umane.

Lo stato islamico, aggiunge Daoud,

ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e la sua industria ideologica. Se l’intervento occidentale ha fornito delle ragioni ai disperati del mondo arabo, il regno saudita gli ha offerto un credo e delle convinzioni. Se non lo capiamo, perderemo la guerra anche se dovessimo vincere delle battaglie. Uccideremo dei jihadisti ma questi rinasceranno nelle prossime generazioni, nutriti dagli stessi libri.

 

Arabia Saudita, l'”Isis bianco” ultima modifica: 2017-08-01T11:19:20+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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