Il carnevale, da poco concluso, ha portato con sé le ormai celebri questioni riguardanti l’insostenibile turismo di massa, lo spopolamento della città, il muro, il numero chiuso e l’ingresso a pagamento, la Città Metropolitana e chi più ne ha, più ne metta.
Certo è che il carnevale – come ogni altro grande evento veneziano – porterà via con sé la volontà di affrontare tali questioni concretamente, salvo poi ripresentarle l’anno successivo.
Tra le polemiche attuali, quella inerente la separazione di Venezia da Mestre sembra essere di maggior rilievo per riflettere sulle prospettive future della città. Senza entrare nel merito dei risvolti politici e amministrativi sollevati dalla vicenda, sorge spontaneo interrogarsi su quali saranno le eventuali conseguenze di una ulteriore delimitazione e compressione di Venezia, guardando oltre la sua conclamata realtà di città museo e la sua vocazione a parco tematico.
Vicina all’implosione, la città da decenni propaga frammenti della sua identità che si concretizzano per lo più in manifestazioni kitsch e in innumerevoli varianti semiotiche sul tema.
Così, vittima di un processo mitopoietico, Venezia diventa talvolta soggetto narrativo, contenuto. La realtà territoriale si trasforma in immaginario, attivando un paradosso di significazione capace di produrre infinite rappresentazioni diffuse sul globo terrestre.

The Venetian Resort Hotel & Casino
Tra le sue interpretazioni più sfavillanti spicca The Venetian Resort Hotel & Casino, sorto a Las Vegas nel 1996 sulle macerie del più sobrio Sands Hotel. Negli oltre 70.000 m2 ispirati a Venezia si trovano ad esempio il campanile di piazza San Marco, il ponte di Rialto – sotto il quale però sfrecciano automobili – e il Canal Grande, situato al primo piano sopraelevato della galleria commerciale interna coronata da un cielo finto, dove è possibile prendere parte a gettonatissimi giri in gondola comprensivi del canto lirico dei gondolieri. A completare l’esperienza, l’acquisto di un souvenir o di una cartolina from Venice e lo slalom tra le comitive di turisti.

Un souvenir su calamita
Un’altra Venice degna di nota si trova alle porte di Tokyo, all’interno del Mediterranean Harbour del parco Tokyo Disney Sea.
Una themed land, come si autodefinisce, costruita nel 2001, che raffigura una confusa visione asiatica dell’estetica tipica dei piccoli porti mediterranei. A prevalere è lo stereotipo della cittadina italiana, in cui spicca senza timidezza alcuna Venezia.
Anche qua i giri in gondola sul lago artificiale sembrano essere l’attrazione principale, ma l’imbarcazione, adattata alle esigenze del parco, scimmiotta solamente la gondola veneziana e accoglie oltre dieci persone per volta. Perfino le divise dei gondolieri sono vittime della disneyfication, a metà tra il vestito della domenica di Donald Duck e l’abito da charro dei mariachi. La messa in scena arriva al punto che sui muri, fittiziamente scrostati e ammuffiti, si rintracciano cartelli che recitano, ad esempio, “passaggio Minnie”.
Interessante è notare che sempre a Tokyo, nell’area di Jiyugaoka-Meguro, sorge La Vita, un piccolo mall a cielo aperto di ispirazione veneziana, conosciuto come little Venice. Nonostante la celebrità ottenuta a seguito della sua comparsa in una serie televisiva locale, in questo tranquillo isolato circondato da abitazioni e café, la vita quotidiana scorre tranquilla mentre sporadici turisti si procurano selfie made in Venice.
La trasposizione di Venezia in sfondo è dunque un altro fenomeno degno di nota. Sfruttata nella sua accezione di oggetto semiotico, da sempre la città è cornice passiva di film, pubblicità e videogiochi. Ciò che rende questo fenomeno peculiare è l’assenza di pertinenza dei contenuti rispetto al contesto. Il video del brano cult Like a Virgin di Madonna, il secondo livello del videogame Tomb Raider II e la schiera di spot pubblicitari che hanno via via trasformato l’acqua della laguna in nuvole o campi di grano, sono ambientati a Venezia unicamente per godere della sua iconica immagine bidimensionale.

Fort Lauderdale, Florida
L’ambito, commercialmente efficace, in cui più di frequente Venezia funge da sfondo, è quello cinematografico. Escludendo alcuni sporadici episodi in cui la città è effettivamente parte della trama – come ad esempio, per citare alcune pellicole, in Venezia, la luna e tu (1958) di Dino Risi, incentrato sullo stereotipo del Don Giovanni nonché gondoliere Bepi interpretato da Alberto Sordi, o ancora in Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Mann –, Venezia nella maggior parte dei casi la città è ridotta a quinta, percorso di gioco, cartolina. Svariate celebri scene appartenenti alla saga di James Bond ad esempio, nel corso di decenni, sono state girate nella città lagunare, unicamente al fine di appropriarsi di quel particolare mood. Anche Orson Welles, nella sua interpretazione di Otello (1952), tratto dall’omonimo dramma di Shakespeare, sceglie Venezia e l’epoca delle Repubbliche Marinare come circostanza ideale per ambientare la vicenda e intriderla così del fascino veneziano.
Si affianca a queste espressioni anche il fenomeno di stereotipizzazione di Venezia, indispensabile per rendere possibile la codifica del tema mediante la sintesi e la costruzione dei segni iconici che lo identificano. Una sorta di sineddoche della città, così che la sua complessità si possa presentare semplice a livello cognitivo e pronta al consumo, adeguata a essere contenuta in una calamita da frigo. Un’immagine talmente ovvia che permette la trasposizione oggettuale di Venezia, ma che ha tuttavia la pretesa di essere esaustiva e contenere il suo intero valore, riducendo ancor più la città, metaforicamente, a oggetto di consumo al quale attribuire un significato iconico anziché un valore simbolico.
Alle esplicite e concrete manifestazioni retoriche di Venezia, che restituiscono altrettanti fatti inerenti la sua rappresentazione, si affianca l’interpretazione della città come modello, così che molti territori hanno scelto di forgiarsi sul suo esempio.
Un esempio esemplificativo a questo proposito è l’idealizzata affinità con Manhattan. All’epoca in cui in Europa Marinetti declamava una futuristica Venezia di moderni grattacieli, costruiti sulle macerie della città antica e putrescente, oltreoceano si guardava proprio alla città lagunare come modello urbanistico.
Benché infatti il gridion plan, la griglia dell’abitato di Manhattan, fu definito nei primi anni dell’Ottocento, l’aumento della densità urbana creò i presupposti, circa un secolo dopo, per un nuovo progetto capace di integrare all’urbe esistente le esigenze di una popolazione in rapida evoluzione. L’ipotesi più celebre arrivò nel 1923 da Harvey W. Corbett, che propose di isolare il traffico di veicoli a strade e tunnel, spostando il transito pedonale a un livello sopraelevato composto da portici e ponti. Corbett stesso definì la sua visione “una Venezia molto modernizzata”, una tra le molte future “reincarnations of the City on the Lagoon”. Negli anni che seguirono la visionaria proposta, l’influenza del modello Venezia si manifestò spesso nella pianificazione urbana dell’isola di Manhattan. Il Rockefeller Center, ad esempio, fu dichiaratamente progettato con l’idea di connettere tra loro, “alla veneziana”, i diversi edifici che lo compongono, come se fossero isole.
Anche nella contea di Miami è possibile rintracciare elementi e strutture riconducibili a Venezia. Miami Beach ad esempio, città appena centenaria, sorge su un’isola in fronte a Miami Downtown. I due insediamenti sono collegati da un sistema organico di ponti e isole su diversa scala che ricalcano il modello veneziano, talvolta discretamente, limitandosi a evocarlo nella conformazione urbana, talvolta al limite della tematizzazione. Nello specifico, tra le superstrade che collegano Beach e Downtown vi è Venetian Way, costellata dalle artificialmente regolari Venetian Islands, le quali, foggiate da nomi evocativi come San Marco e Rivo Alto, ospitano quartieri residenziali esclusivi.
Esempi espliciti di tematizzazione si hanno invece a Coral Gables, quartiere indipendente in stile prepotentemente europeo alle soglie di Miami Downtown, entro i cui confini si trova la Venetian Pool, oltre che Vizcaya, una “Stunningly Beautiful American Villa” in stile veneziano.

Fort Lauderdale, Florida
In bilico tra molte delle declinazioni di Venezia fino ad ora interpellate, è possibile citare infine Fort Lauderdale, cittadina satellite della contea di Miami, denominata Venice of America. Tale appellativo è dovuto alla sua conformazione, anche in questo caso artificiale, descritta da un reticolo ordinato di canali e ponti che esplicitamente evocano il modello veneziano. Il quartiere Venice inoltre, similmente alle Venetian Islands di Miami, rasenta la tematizzazione sfoggiando paline da ormeggio colorate e battezzando gli isolati San Marco, Lido e ovviamente Venice.
Non da meno, tornando alla “vera” Venezia, non sono certamente mancate manifestazioni retoriche e stereotipate “fatte in casa”.

Il marchio di Venezia disegnato da Philippe Stark
Sotto questo aspetto, il culmine fu raggiunto quando anche Venezia, vittima dello zeitgeist, decise di intraprendere l’avventura del city brand. Il tentativo più celebre è da attribuire al concorso internazionale bandito nel 2002, vinto dallo studio parigino Cake Design con il progetto firmato da Thibaut Mathieu e Philippe Starck. Il marchio raffigurava una “V” sormontata dalla testa del celebre leone alato, apparentemente mutilato considerata la presenza di una sola ala. Indipendentemente dall’esprimere un giudizio sul valore e l’adeguatezza del marchio, le tracce sconnesse del leone e del lettering, che oggi assumono le sembianze di reperti, presto decretarono il fallimento di quel primo tentativo di sintesi segnica, e quando fu chiaro che i decantanti introiti derivati dal branding non sarebbero mai arrivati, l’amministrazione ideò nel 2012 un altro concorso per un nuovo marchio.
Si arrivò così a definire Hello Venezia, il marchio attuale, dichiaratamente funzionale all’industria del turismo, accolto talvolta ingenuo stupore e per lo più con assoluta indifferenza.
Apparentemente abbandonando ogni illusione di segno identitario, il marchio raffigura la conformazione topografica delle isole principali che definiscono la città lagunare, così che, sfruttando una elementare somiglianza in termini di figura, sembra semplicemente dire Venezia è un pesce.
Tornando dunque alla premessa: dove porta questo impianto semiotico che sfrutta memoria e identità a fini commerciali e che sta inevitabilmente diventando parte stessa dell’esperienza della città? Quale può essere l’ipotetico destino “post-compressione” di Venezia?
In primo luogo, riflettere su cosa sia oggi la realtà esperienziale di Venezia ci costringe a interrogarci tanto più sul destino di altri territori che dispongono di un più debole patrimonio identitario, se paragonati appunto alla “città del mondo”, in caso dovessero subire lo stesso processo semiotico. Venezia appare allora come antimodello piuttosto che come modello, surrogato di città che, indagato mediante le ripercussioni concrete dei fenomeni che la definiscono, esplicita l’impossibilità di relazionarsi al territorio secondo dinamiche commerciali.
In secondo luogo, se come ormai sembra evidente le declinazioni, le copie, le rappresentazioni e le sintesi iconiche di Venezia sono esperite come surrogati della realtà, e se è vero che, come ha sostenuto McLuhan nella sua celebre tesi, il medium è il messaggio, in un futuro non troppo lontano saranno forse le Venice propagate nel mondo a plasmare l’identità in crisi della Venezia nostrana.
Le immagini sono dell’autrice
pubblicato il 2 marzo, 2017 @ 17:32

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!