La stampa italiana ha spesso toni apocalittici. In pochi mesi sarebbe tramontata la stella di Macron. Si confonde la mancata corrispondenza di amorosi sensi tra l’Italia e la Francia del neo-eletto presidente con un suo fallimento tout court.
Si deve tuttavia fare molta attenzione. C’è un calo di popolarità. Innegabile. Quando l’azione di governo si fa concreta qualche consenso infatti lo si perde. Certamente alcune posizioni – o assenze di posizioni – hanno colpito (anche se forse più all’estero): la scarsa empatia sul dossier immigrazione, il buon rapporto con il presidente statunitense Donald Trump e l’infelice gestione delle relazioni tra fazioni libiche sono soltanto alcuni degli esempi che si possono citare.
In realtà, molto cinicamente, Emmanuel Macron sta dialogando con i suoi concittadini. Ai cittadini francesi deve fornire un’immagine diversa della presidenza della repubblica dopo gli anni di Sarkozy e Hollande. Un’immagine rispettabile, quasi sacrale e perciò lontana, seppure molto presente (al governo e nei social media).
Ai cittadini francesi deve dimostrare di poter realizzare le riforme strutturali del paese, per sbloccarne l’immobilismo, mantenere il consenso e ridurre le fratture politiche e sociali che le ultime elezioni presidenziali hanno messo chiaramente in rilievo.
Ai cittadini francesi deve infine indicare un percorso che, pur nelle difficoltà future, porti la Francia sul sentiero della crescita, per contare di più in Europa.
I recenti sondaggi hanno messo in evidenza il calo di popolarità del presidente: il 54 per cento dei francesi approva il suo lavoro (era il 62 per cento a inizio mandato).
Si tratta di percentuali alte e, tuttavia, più basse dei suoi predecessori a inizio mandato. Il neo-presidente sta in effetti affrontando un momento difficile: le dimissioni di François Bayrou (leader del partito centrista MoDem e, ormai, ex-ministro della giustizia), lo scontro con il capo di stato maggiore sui tagli alla difesa (con le dimissioni di quest’ultimo), la questione dello statuto della première dame.

Emmanuel Macron e, alla sua destra, l’ex capo di stato maggiore Pierre de Villiers
Un periodo soprattutto molto denso. Moltissimi fronti sono stati aperti, con l’obiettivo di fornire l’immagine di un governo zelante e rapido. Paga tuttavia l’inesperienza della maggioranza presidenziale e una certa difficoltà a gestire le relazioni con i media.
La stampa ha mal digerito una serie di sgarbi. Come la proposta di trasferimento della sala stampa in un edifico esterno all’Eliseo. O il rifiuto di concedere la tradizionale intervista del 14 luglio, una modalità che, secondo l’Eliseo, impedirebbe di affrontare la complessità delle questioni politiche. O ancora il rifiuto di commentare le statistiche, come il caso del ministro del lavoro Muriel Pénicaud che rifiuta di commentare i dati mensili sull’occupazione, considerati troppo “volatili”.
Eppure Macron l’aveva annunciato. Dopo le esperienze dei predecessori, segnate dalle vicende della vita privata, dallo sfarzo (Nicolas Sarkozy) e da un interminabile chiacchiericcio con la stampa su questioni di ogni tipo (François Hollande), il neo-eletto aveva promosso l’idea della “rarefazione della parola presidenziale”: il presidente della repubblica parla solo in occasioni solenni e nelle sedi apposite. E le sue posizioni e riflessioni riguardano le scelte strategiche per il paese. Il lavoro quotidiano per implementare il programma del presidente in tutti i suoi dettagli spetta al primo ministro e ai parlamentari.
È questa in sintesi l’idea di potere che Macron ha definito “jupitérien”: come Giove dall’Olimpo non interviene direttamente nelle vicende umane ma sovrintende. E la sua autorità dipende dalla scarsità di apparizioni. Che Macron ha sostituito con la scarsità di parole.
L’immagine di Giove rimanda anche all’idea di un presidente, che accentra e decide. E scontenta molti. In realtà questa gestione del potere in parte piace. Nei sondaggi (Paris Match) Emmanuel Macron rimane ai primi posti tra i politici più graditi (circa il 66 per cento dei francesi). In altri sondaggi (Elabe per Les Echos) il 38 per cento delle persone interrogate giudica il ritmo delle riforme buone, il 34 per cento troppo lento. La maggioranza dei francesi pensa che la ripresa economica sia vicina: a oggi nessuno dei suoi predecessori ha potuto contare di questo ottimismo tra i suoi cittadini rispetto alla situazione economica del paese. E la soddisfazione per alcune decisioni in effetti lo dimostra: dalla nazionalizzazione temporanea dei cantieri navali di Saint-Nazaire a scapito di Fincantieri (approvata dal 72 per cento dei francesi) alla soppressione della tassa sulla prima casa (approvata dall’ottanta per cento degli intervistati).

Emmanuel Macron e il primo ministro Eduard Phillippe
Molti francesi tuttavia sentono che adesso devono fare degli sforzi e sono inquieti. Alcune decisioni controverse hanno preoccupato: la diminuzione di cinque euro dell’APL (Aide Personnalisée au Logement, un aiuto finanziario a persone con redditi bassi per l’alloggio); il taglio di trecento milioni di euro agli enti locali; l’innalzamento della CSG (Contribution Sociale Généralisée, un’imposta che è prelevata sui redditi da lavoro, pensioni, patrimonio e altro, allo scopo di contribuire al finanziamento della sicurezza sociale); alcune misure sui funzionari pubblici; la riforma del codice del lavoro attraverso le ordinanze (vale a dire, per semplificare, attraverso una delega legislativa del parlamento al governo). Una sorta di schizofrenia dell’elettorato, che vuole porre fine all’immobilismo francese, ma spera sempre che gli sforzi richiesti non li tocchino personalmente.
Nonostante questa schizofrenia la strategia di Emmanuel Macron è molto limpida (potremmo chiamarla “montiana”): avviare le riforme strutturali necessarie, rispettare i vincoli di bilancio, ottenere maggiore forza contrattuale con la Germania. E mantenere il consenso.
Dimostrando ai francesi di saper riformare il paese con un occhio alla giustizia sociale. Ma riformare innanzitutto.
L’incubo di Macron è che passi l’idea che ai suoi impegni non seguano i fatti. Deve evitare di fare la fine di François Hollande, delle promesse non mantenute, dei voltafaccia improvvisi.
E quindi se si lancia nell’annunciare l’obiettivo della riduzione del debito, per rientrare sotto la soglia del tre per cento (tagli agli enti locali, alla difesa, ai costi della politica), nello stesso tempo cerca di realizzare alcune riforme: la riforma del diritto del lavoro, la possibilità per chi da le dimissioni e i lavoratori indipendenti di ottenere il sussidio di disoccupazione, la riforma dell’apprendistato, la riforma delle pensioni, la riduzione delle imposte. E non smette di incalzare i ministri del governo presieduto da Eduard Phillippe: si deve riformare il paese e non ci si può perdere in chiacchiere.

Emmanuel Macron e François Hollande
Ha invitato anche i ministri a diffidare dell’amministrazione pubblica, non lasciandosi ostacolare da montagne di documenti che i ministeri producono poiché “porvi nelle loro mani vi potrebbe inizialmente sembrare una buona cosa da fare, anche confortevole” ma “vedrete che in sei mesi, se continuate così, sarete completamente scomparsi”. Pertanto il neo-presidente ha suggerito di cambiare i dirigenti dei ministeri, se non funzionano, di “liberarsi dell’amministrazione” e di guardare alle questioni con l’orizzonte dei cinque anni.
Se il calo di popolarità di Emmanuel Macron fornisce qualche idea rispetto alle vicende politiche e alle riforme future, le prossime elezioni ci diranno molto dell’estensione del potere politico del neo-presidente. Il 24 settembre si terranno infatti le elezioni senatoriali. I senatori sono eletti per sei anni, e rinnovati per la metà ogni tre anni, a suffragio indiretto, da un collegio di grandi elettori composto dai deputati, dai senatori, dai consiglieri regionali e soprattutto dai delegati dei consigli municipali.
Si tratta di 162.000 elettori, che hanno l’obbligo di votare. Il sistema è maggioritario a doppio turno (con il secondo turno che si svolge nella stessa giornata) nei collegi piccoli e proporzionale nei collegi grandi. In palio ci sono 170 senatori (su 348), 136 eletti con metodo proporzionale e 34 col maggioritario. Di solito il risultato delle elezioni senatoriali riflette quello delle municipali precedenti, dato che il corpo elettorale più consistente è quello composto dai delegati municipali (circa il 95 per cento dei votanti).
Attualmente Les Républicains (il partito di Nicolas Sarkozy e François Fillon) ha la maggioranza e teoricamente dovrebbe conservarla. Tuttavia l’irruzione sulla scena politica del movimento di Emmanuel Macron cambia qualcosa. Un gruppo La République En marche (LREM) era stato già creato al senato, dopo la vittoria di Macron: sono trenta senatori, per lo più ex socialisti (e tra questi il capogruppo, François Patriat). L’obiettivo è di diventare il secondo gruppo al Senato e ottenere cinquanta-sessanta senatori. Una missione non impossibile per La République En marche.
Saranno elezioni di grande interesse. Non per la stabilità della nuova maggioranza. È vero che tutte le leggi devono essere approvate dall’assemblea nazionale e dal senato, ma esiste un massimo di letture – due – in ogni ramo del parlamento e, quando non si raggiunge un accordo, la decisione finale spetta all’assemblea nazionale.

Angela Merkel e Emmanuel Macron
Saranno elezioni interessanti per altre ragioni. La prima riguarda il movimento di cui Emmanuel Macron è il leader. La crescita di LREM passa per il suo radicamento tra gli eletti a livello locale. Se Macron avrà la capacità di attrarne una parte all’interno della maggioranza presidenziale, dimostrerà ancora una volta la propria forza, di fronte a un sistema dei partiti che si sta sgretolando. Non solo il Partito socialista. Se Macron otterrà un buon numero di senatori, lo dovrà soprattutto alle divisioni della destra: a Parigi, ad esempio, Les Républicains hanno presentato in molti collegi quattro-cinque liste a sostegno di candidature diverse.
La seconda ragione riguarda le riforme costituzionali. Per la revisione della costituzione vi sono due strade. La prima prevede che il presidente della repubblica e i parlamentari possano proporre un disegno di revisione che deve essere votato nelle due camere e poi approvato con referendum. La seconda prevede che il progetto di revisione non sia sottoposto a referendum quando il presidente della repubblica lo sottoponga al parlamento convocato in congresso. In quest’ultimo caso, il progetto di revisione è approvato se riporta la maggioranza dei tre quinti dei voti.
François Hollande non ha mai avuto la maggioranza dei tre quinti necessari per le riforme della costituzione – l’istituzionalizzazione dello stato di emergenza e la perdita della nazionalità -, poiché il senato era saldamente nelle mani della destra. Attualmente Emmanuel Macron può contare sui 400 deputati dell’assemblea nazionale e gliene servono circa centocinquanta. Anche se riuscisse a ottenere sessanta senatori, la barra è molto in alto.
Tuttavia si vedrà l’ampiezza della riserva “macronista” tra i senatori eletti a destra e a sinistra (molti sono a fine carriera dopo la riforma sul cumulo dei mandati). Certo il desiderio di ridurre il numero di eletti a livello locale, la riforma della tassa sulla casa (che incide soprattutto sulle finanze dei comuni) e i tagli agli enti locali stanno complicando la partita del senato.

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