Una “giunta militare” per gestire Trump

Dopo i commenti su Charlottesville, comizio a Phoenix. Il presidente rilancerà la sua sfida "bianca", sotto la regia di Steve Bannon? O sarà un Donald ammorbidito, perché ormai sotto il controllo dei generali al vertice del suo staff?
GUIDO MOLTEDO
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L’appuntamento è martedì prossimo. Alle sette di sera, al Convention Center di Phoenix. Via tweet, con un semplice “join me”, Donald Trump ha convocato i suoi sostenitori nella città dell’Arizona. Aggiungendo, in coda al messaggio, il link al suo sito www.donaldjtrump.com. Per acquistare i biglietti d’ingresso. Già, per ascoltare il presidente degli Stati Uniti in carica, si paga.

Strano? Fosse come i 44 che l’hanno preceduto, lo sarebbe di certo, ma l’attuale non ha niente in comune con loro. È sì il presidente degli Usa, ma continua a essere un candidato. In campagna permanente. I suoi non sono interventi istituzionali ma prevalentemente attacchi personali, i suoi non sono discorsi ma comizi. E i proventi dagli eventi e dalla vendita dei suoi gadget finanzia questa sua infinita campagna. La scelta stessa dei luoghi simbolici fa riferimento più all’immagine del miliardario-showman che a quella presidenziale. La sua predilezione per i tweet non fa che accentuare questo stile, che è lo specchio fedele della scelta di continuare a essere, anche alla Casa Bianca, un outsider con le mani libere.

Nella fase finale della sfida con Hillary Clinton, quando per la gran parte dei media aveva sicuramente già perso, l’unico a credere nelle sue possibilità di farcela, fu Steve Bannon, e con lui il potente gruppo di finanziatori della destra estrema che ruota intorno al miliardario Robert Mercer e a sua figlia Rebekah. Mentre tutti i repubblicani e la loro stampa amica imploravano Trump perché smorzasse i toni, per avere qualche speranza di farcela, Bannon lo spingeva nel senso opposto. A “essere Trump”, anche più.

Su Steve Bannon si è molto discettato, più volte è stato dato per spacciato nei retroscena sulle lotte intestine nella cerchia ristretta del presidente. Figura diabolica che ha ispirato un’infinità di ritratti. Di fatto, non solo ha conservato il suo posto di stratega-capo della Casa Bianca, ma è tornato a essere – se mai ha smesso di esserlo – il personaggio più ascoltato da Trump.

A Phoenix sarà ancora Bannon a dare le carte? Il presidente reciterà la parte del duro che non s’arrende, solo contro tutti, lo stesso schema del finale della campagna presidenziale, lo stesso schema seguito in tutte le circostanze critiche della sua breve presidenza?

A temere che andrà così è Greg Stanton, il sindaco democratico di Phoenix, che ha invitato con energia Trump a rinviare il comizio, anche nel timore che sia l’occasione perché annunci il perdono presidenziale per Joe Arpaio, lo sceriffo della Maricopa County, Arizona, noto per le continue, innumerevoli violazioni dei diritti civili, abuso di potere e discriminazione razziale nei confronti della comunità ispanica. Per anni ha coordinato la caccia agli immigrati nella sua contea. E recentemente è finito sott’accusa per la partecipazione a pattugliamenti al confine alla ricerca specifica di ispanici, in spregio della legge che vieta il cosiddetto “profiling” e recidivo a precedenti ingiunzioni simili.

Ovvio che un evento così, con Trump all’attacco, moltiplicherebbe in modo esponenziale il conflitto, che non si placa, dalla marcia di nazisti e KKK a Charlottesville seguita dalle sue scandalose dichiarazioni cerchiobottiste, ma di fatto simpatizzanti con i suprematisti bianchi.

Oppure vedremo un Trump in ritirata tattica, sciolti i legami con Bannon e i circoli dell’estrema destra?

La scelta è nella dinamica dello scontro in corso tra gli “ideologi” e i “realisti” all’interno dell’amministrazione, che caratterizza fin dal suo esordio questa amministrazione e, in tempi più recenti, in particolare è sopratutto tra Bannon e i militari al comando della macchina della Casa Bianca, McMaster e Kelly.

Dietro di loro si profila una scelta chiaramente di strategia politica. Tra due opzioni.

La prima è galvanizzare ancora di più lo zoccolo duro della sua base elettorale, rendere ancor più visible il suo essere presidente non degli americani ma dei “bianchi arrabbiati”, e andare allo scontro con lo stesso Partito repubblicano, con numerosi esponenti della sua stessa amministrazione, con i vertici militari, con gli imprenditori che l’hanno sostenuto, per non parlare di settori elettorali cruciali, come l’elettorato ebraico conservatore, che, per quanto minoritario rispetto al grosso dei votanti ebrei, in grande maggioranza democratici, aveva conferito rispettabilità tra i moderati a un presidente evidentemente razzista.

L’altra opzione è una manovra di ammorbidimento, nel tentativo di riconquistare i sostenitori della prima fase e di riprendere fiato, una via che è frutto di considerazioni realistiche dei rapporti di forza. Trump può sempre contare sui suoi sostenitori, può mobilitarli, ma ha perso pezzi importanti del variegato mondo conservatore che l’aveva appoggiato, pur non condividendone lo stile, ma considerando la sua presidenza un passaggio indispensabile per una conquista piena e duratura della maggioranza politica.

Il male minore, ai loro occhi, si sta rivelando un male e basta.
Significativo il disagio e poi l’abbandono della nave trumpista da parte di magnati dell’impresa che erano entrati in due gruppi di lavoro, Manufacturing Council e nel Strategy and Policy Forum, per dare una mano al loro collega diventato presidente all’insegna di America First.

La loro uscita, anche se ridicolizzata con un tweet da Trump, è una doppia brutta botta per lui, non solo come fatto in sé ma anche come ratifica del fallimento di uno dei due pilastri del programma di Trump, il rilancio dell’industria manifatturiera e edile, e dunque dell’occupazione, grazie al coinvolgimento diretto al suo fianco dei boss dell’impresa amici suoi.

L’altro pilastro è proprio quello che ha contribuito, peraltro, al crollo del primo. È il razzismo, in forme ora più dure ora più edulcorate rispetto ai suoi commenti sui fatti di Charlottesville, che ha caratterizzato la corsa al successo di Trump, fin da quando guidava il fronte dei birther, il movimento che metteva in dubbio la nascita di Barack Obama in terra americana e quindi il suo diritto a essere presidente.

Non essendo in grado di gestire e portare avanti i dossier principali, come il rigetto dell’Obamacare, balbettando sul fronte dell’economia e della politica internazionale, Trump si direbbe destinato a essere sempre più Trump sul fronte domestico.

Ma va anche ricordato che lui non segue una linea consequenziale. Cosicché si potrà assistere a un cambiamento significativo di rotta, nel raduno di Phoenix, o anche prima. Probabilmente non per sua volontà. Implicherebbe che è finito sotto tutela. Dei militari. Messi da lui nei posti di comando alla Casa Bianca per tenersi buono il complesso militare industriale. Ma finora neutralizzati da Bannon.

Fuori Bannon, dunque, avanti i generali? Una giunta militare al potere? Per scongiurare l’impeachment, potrebbe essere la via obbligata.

il manifesto

Una “giunta militare” per gestire Trump ultima modifica: 2017-08-18T11:31:47+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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