La cronologia del destino dei monumenti confederati rispecchia molto da vicino lo stato delle relazioni razziali, certo nel Sud ma anche nell’intero paese. La timeline preparata dal Southern Poverty Law Center (qui sotto) è chiara in proposito. Il successo e il controverso declino della canonizzazione degli sconfitti della Guerra civile coincide con importanti date nella memoria pubblica della guerra stessa, date istituzionali come il suo cinquantenario (1911-15), il centenario (1961-65) e infine, conclusosi poco fa, il centocinquantesimo anniversario (2011-15). Ma coincide anche e soprattutto con periodi significativi nelle lotte di razza e di potere, in cui i simboli del passato sono usati per dare un senso al presente.
Innanzitutto, una cosa è evidente. Il moltiplicarsi delle statue dei generali e dei soldati sudisti, l’attribuzione dei loro nomi a scuole (e strade e luoghi pubblici), sono solo in minima parte un prodotto immediato della fine della guerra. Solo in minima parte sono voci di lutto, di dolore, di ricordo collettivo dei caduti appena caduti, di conforto collettivo dei sopravvissuti. La loro impennata è invece successiva al 1900, a babbo morto, quando la generazione che ha fatto la guerra è scomparsa. E il lavoro di costruzione della memoria è intrapreso da istituzioni pubbliche che hanno altro per la testa, e da associazioni private di ex combattenti in cui i veri combattenti non ci sono più, e ci sono invece i loro figli e nipoti impegnati in un altro tipo di business.
La prima vera esplosione monumentale avviene dunque dopo il 1900, dura fino alla Grande guerra e si riaccende negli anni ’20. E che cosa davvero celebri è ovvio ai contemporanei: il completamento della segregazione razziale nel Sud, le leggi Jim Crow, l’espulsione dei neri meridionali dalla vita pubblica (con l’aiuto di migliaia di linciaggi). Celebra insomma il trionfo dei bianchi negli stati della ex Confederazione, un trionfo che non c’è stato fino ad allora. Perché fino alla fine dell’Ottocento i durissimi conflitti sociali e razziali l’hanno impedito, perché gli ex schiavi liberati che hanno ottenuto ed esercitato i diritti civili e politici dalla fine della guerra non si fanno “rimettere al loro posto” tanto facilmente. Ci vogliono trent’anni perché ciò accada.
Ma poi i bianchi vincono e nel primo trentennio del Novecento, giustamente, innalzano inni di bronzo e pietra alla loro vittoria nella guerra di razza – chiamando a testimoni i padri sconfitti nella guerra di secessione. Il bronzo e la pietra sono soprattutto nel Sud, ma gli stessi sentimenti sono condivisi da molta opinione pubblica del Nord. Basti ricordare il vero monumento di luce e motion alla supremazia bianca sudista creato dal regista virginiano D. W. Griffith con il film hollywoodiano Nascita di una nazione (1915). Un film amato e odiato, contestato ma di grande successo nazionale, che ha fra i suoi eroi romantici gli incappucciati del Ku Klux Klan (fra l’altro in quegli anni il KKK rinasce nella sua versione moderna, grazie anche al film, alcuni dicono).
La seconda, più ridotta ondata monumentale è negli anni ’50 e ’60, con caratteri diversi. Non è più un inno di trionfo, di padronale affermazione. Ora è piuttosto un segnale di attiva resistenza alla crescita del civil rights movement che mette in crisi la struttura dei diritti e gli equilibri di potere nel Sud. Anche la vecchia bandiera di battaglia sudista, la Southern Cross, diventa ubiqua e non certo per interessi antiquari. È la bandiera dell’uomo bianco. Il governatore dell’Alabama George Wallace la usa come simbolo delle sue campagne politiche. Lo sceriffo di Birmingham, Bull Connor, invita i concittadini “a innalzare la bandiera confederata come fecero i nostri avi e a dire ai Negri, Non passerete”.
La terza ondata non c’è, o meglio è negativa, ed è quella di oggi. Monumenti nuovi non se ne fanno più, è piuttosto la legittimità dei vecchi a essere nettamente in declino, e sotto attacco. La critica di afro-americani e progressisti è diventata un movimento nazionale, anche militante, con episodi di azione diretta, di abbattimento fisico non autorizzato (a sacra imitazione di ciò che si fece ai tempi della Rivoluzione del 1776 con la statua di re Giorgio III?). La loro difesa esprime una resistenza che è a questo punto disperata, sia nella forma esplicita e aggressiva dei gruppi minoritari di white supremacists, sia in quella implicita, silenziosa, confusa di molta opinione pubblica bianca. È disperata perché c’è la sensazione che sia destinata alla sconfitta, se non altro per ragioni numeriche.
I bianchi sono infatti in diminuzione da decenni. Per dire, erano il novanta per cento degli elettori nel 1976, sono diventati il settanta per cento nel 2016, a metà secolo saranno minoranza: temono di perdere il controllo del paese. Fra l’altro, votare sempre più compatti per il partito repubblicano è un modo per esorcizzare questo timore. Votare per Donald Trump è ancora meglio. Non solo The Donald si è atteggiato a defender-in-chief dei monumenti confederati, via twitter (“Triste vedere la storia e la cultura del nostro grande paese fatte a pezzi con la rimozione delle nostre belle statue”) e nei comizi più truci e partigiani (“Cercano di portarci via la nostra cultura, la nostra storia”). Ma a pensarci bene potrebbe essere lui stesso l’ultimo di questi monumenti – benché newyorkese e vivente.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!