Quest’anno celebriamo il Centenario dalla fondazione di Porto Marghera avvenuta nel 1917. Ma cosa è stata e cosa ci lascia in eredità la storia di Porto Marghera?
Dovremmo davvero chiamarlo LABORATORIO MARGHERA l’insieme di saperi intrecciati e di pratiche ed esperienze maturate in campo economico, politico, sociale, ambientale, sanitario, culturale e civile che costituiscono la trama di questi cento anni di storia.Non ci si può fermare certo alla mera celebrazione di un Centenario che porta in sé una storia partita come una epopea eroica e conclusasi con un dramma corale non soltanto per l’alto costo in termini di malattie e morte ma anche per la fine di un modello di sviluppo che sembra incapace di reinventare un nuovo paradigma in grado di sostenere e rilanciare l’occupazione in modo radicalmente diverso, creando ricchezza e benessere diffusi e mantenendo sempre alto il rispetto per la salute e l’ambiente.
Proviamo dunque a vedere se è possibile indagare la lezione che ci lascia la storia di Porto Marghera, non solo ripercorrendo alcuni aspetti della storia sanitaria di quest’area densamente abitata, in cui alla fine degli anni Sessanta erano occupati oltre 40mila lavoratori, ma anche e soprattutto cercando di guardare avanti, affinando gli strumenti e la capacità critica che derivano dalla storia di Porto Marghera al fine di potenziare la tutela della salute pubblica anche per le future generazioni.*
Tra il 1969 e il 1971 Pier Luigi Viola, che svolge attività di medico del lavoro alla Solvey di Rosignano, lancia l’allarme sulla pericolosità del cvm chiedendo una riduzione dell’esposizione dei lavoratori.
Nel 1971 Montedison affida all’oncologo Cesare Maltoni uno studio sperimentale per verificare se il cvm è cancerogeno. I risultati finali dello studio, che dimostrano l’azione cancerogena del cvm, saranno presentati tra il ’73 e il ’74. Per Maltoni il cvm è un cancergogeno multipotente per il quale non vi è soglia di esposizione biologicamente sicura.
Il celebre oncologo nella sua testimonianza al maxi processo cvm dirà che già nell’ottobre del 1972 egli rese noto alla Montedison che il cvm poteva provocare il cancro.
Nel 1975 la FULC – il sindacato unitario dei lavoratori chimici – promuove una indagine sulla salute dei lavoratori addetti al cvm. Gli esiti dell’indagine Fulc registrano che tre quarti dei lavoratori addetti al cvm presenta alterazioni epatiche, tanto che la Medicina del Lavoro sconsiglia di proseguire l’esposizione dei lavoratori a una sostanza ormai definita cancerogena.
Le sostanze cancerogene spesso hanno un periodo di latenza lunghissimo, dai venti ai trent’anni, prima della comparsa della malattia.
1972 UN’ INDAGINE SULLA SALUTE INFANTILE
All’inizio degli anni Settanta, viene condotta una indagine sulla salute infantile promossa dal servizio di Medicina Scolastica del Comune di Venezia, in collaborazione con l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’università di Padova.
A seguito degli esiti dell’indagine, i medici Erminio Conflero, Marcello Dotti e Giuseppe Mastrangelo, preoccupati per lo stato di salute dei bambini della scuola elementare Lombardo Radice – che si trova al villaggio san Marco a due passi dalla rotonda di san Giuliano – scrivono una lettera ai genitori.
La lettera porta la data del 24 maggio 1972. L’indagine compiuta dai medici mira a verificare gli effetti dell’inquinamento atmosferico.
La scuola Lombardo Radice si trova in una delle aree più inquinate della città pari soltanto alla zona di Ca’ Emiliani a Marghera, che sorge a ridosso del Petrolchimico – scrivono i medici. – Secondo gli esperti inglesi, alto inquinamento e basso reddito sono due fattori che aumentano il rischio di insorgenza di malattia. Siamo profondamente colpiti dal fatto che soltanto 14 bambini, su un totale di 116 esaminati, siano risultati del tutto privi di qualsiasi patologia. La maggior parte dei bambini presenta inoltre la presenza di due patologie. Ciò significa che, in questi primi dieci anni di vita, l’attuale organizzazione sociale e sanitaria non è stata in grado di difendere e conservare lo stato di salute di circa il novanta per cento dei bambini.
BAMBINI DELLE ELEMENTARI IN GITA ALLA MONTEEFIBRE
Alla fine degli Settanta i bambini andavano in gita scolastica alla Montefibre di Porto Marghera.
Del resto il numero dei padri che lavoravano in fabbrica era ancora pari a quello di un paese di provincia.
Ricordo benissimo che una mattina d’inverno, noi bambini della scuola elementare Giacomo Leopardi di viale san Marco partimmo per andare a visitare la Montefibre.
Ci diedero un caschetto giallo e alcuni rappresentanti della fabbrica ci accompagnarono, insieme alle nostre maestre, in una vera e propria visita guidata degli impianti. All’interno c’erano i serbatoi delle sostanze pastiche allo stato liquido. I vari trattamenti traformavano questa sostanza via via in una sorta di filamento bianco simile a zucchero filato: il materiale finale che usciva dalle varie trasformazioni era la fibra utile per diversi utilizzi.
Porto Marghera era un panorama che ci era familiare, generazioni di bambini infatti sono cresciute infatti in uno scenario che, rispetto ad alberi, prati, e fiori privilegiava proponeva intrecci di tubi, camini e ciminiere.
Noi bambini pensavamo che Marghera c’era da sempre e che forse tutte le città avevano una Marghera dove lavoravano i papà.
1982 CLINI DENUNCIA IL RISCHIO UNA EPIDEMIA DI TUMORI
Nell’agosto del 1982, Corrado Clini – che ricopre l’incarico di responsabile della Medicina del Lavoro di Marghera, proprio a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta – scrive una lettera alle autorità – enti locali e istituzioni sanitarie – in cui denuncia il rischio di “una epidemia occulta di tumori nell’area di Marghera”.
In una intervista rilasciata a Il Gazzettino l‘8 maggio del 1998 – ricordiamo che il maxi processo per le morti e le malattie degli operai del Petrolchimico è cominciato da pochi mesi, esattamente dal 13 marzo1998 – Corrado Clini – nel frattempo è diventato direttore generale del ministero dell’ambiente – torna sull’argomento con dovizia di particolari.
La Medicina del lavoro di Marghera, alla fine degli anni Settanta, aveva individuato 68 sostanze tossiche e cancerogene presenti nei processi di lavorazione della zona industriale – racconta Clini. – Sapevamo che un gran numero di operai nei decenni precedenti era stato esposto a quelle sostanze ed era perciò a rischio di sviluppare malattie degenerative e tumorali che potevano manifestarsi anche a distanza di dieci, quindici anni.
Clini precisa che già dal ’79 la Medicina del lavoro cercò di organizzare un osservatorio sulla salute dei lavoratori per raccogliere ed interpretare i dati sui casi di malattia, ricovero etc degli operai. Sarebbe stato necessario creare dei registri della salute per tutti i lavoratori ed ex lavoratori per monitorare gli effetti dell’esposizione prolungata a sostanze tossiche e cancerogene.
Ma, secondo Clini, la sanità pubblica fu in gran parte indifferente e le istituzioni continuarono a dare scarso rilievo alla raccolta di informazioni precise ed organizzate sulle patologie sviluppate dai lavoratori di impianti ad alto rischio.
Infine Clini afferma anche di aver denunciato alla magistratura, nel 1983, la morte di un operaio avvenuta per angiosarcoma epatico (quello che sarà poi riconosciuto come tipico tumore da esposizione a cvm).
LA BATTAGLIA DI GABRIELE BORTOLOZZO
All’inizio degli anni Novanta sarà Gabriele Bortolozzo, ex operario del reparto CV 6 – dove dal 1955 si lavora cvm e pvc – a raccogliere le cartelle cliniche dei propri compagni di lavoro morti di cancro.
Quella di Bortolozzo è una intuizione che si fonda però su un sapere diffuso in alcuni ambienti della fabbrica e che ha come radice organizzazioni come Medicina Democratica basate sull’empowerment di lavoratori e cittadini.
Bortolozzo recupera le cartelle cliniche di operai morti di cancro, soggetti che in molti casi hanno iniziato a lavorare nel 1955 ai reparti CV6, CV14-16 etc dove la lavorazione del cvm – per molto tempo avvenuta a ciclo aperto – esponeva gli operai a un contatto diretto con notevoli quantità della sostanza riconosciuta poi cancerogena.
Nel ’94 Bortolozzo pubblica nella rivista Medicina democratica l’esito delle sue ricerche: nei reparti di cvm i morti per tumore sono 84 su 424 addetti, pari al 20 per cento circa.
Ma Bortolozzo non si ferma qui e con gli esiti del suo studio costruisce un esposto alla magistratura.
L’esposto finisce nelle mani dell’allora pubblico ministero Felice Casson. Casson avvia una indagine preliminare da cui prende avvio, nel marzo 1998, il maxi processo.
IL 13 MARZO 1998 PARTE IL MAXI PROCESSO CVM
Solo in primo grado vengono celebrate 150 udienze; il totale delle pagine agli atti supera il milione e mezzo di pagine.
I capi di imputazione sono due: il primo riguarda la morte e la malattia dei lavoratori addetti al cvm-pvc; il secondo riguarda il disastro ambientale dovuto alle emissioni di cvm-pvc nell’ambiente.
Sono 157 i casi di lavoratori addetti al cvm-pvc morti di tumore esaminati nel processo e 103 i casi di malattia: l’accusa si basa su quanto affermato dalla IARC (agenzia internazionale di ricerca sul cancro) che inquadra il cvm come sostanza cancerogena in grado di produrre tumori del fegato e del polmone nonché altre malattie.
Vengono presentati dalla pubblica accusa anche i dati dell’indagine epidemiologica svolta dall’Istituto Superiore di Sanità sui lavoratori presenti, dal 1956 al 1985, nei reparti del cvm-pvc. I dati che emergono mostrano una mortalità superiore alla media per alcuni tipi di tumore.
Sul fronte ambientale invece sono 35 le discariche abusive per un totale di cinque milioni i metri cubi di rifiuti tossici.
Gli imputati sono 28 manager dirigenti di Montedison ed Enichem. Tra gli imputati eccellenti Eugenio Cefis, prima presidente Montedison e poi presidente Eni. In aula bunker gli imputati sono difesi da più brillanti avvocati d’Italia, tra questi il professor Federico Stella che svilupperà la tesi che il processo non si sarebbe nemmeno dovuto fare poiché è impossibile ricostruire le responsabilità penali degli imputati.
Casson mette alla sbarra un intero sistema produttivo e sembra un’impresa titanica ricostruire, accuratamente e con assoluta certezza, le responsabilità di ciascun manager dirigente.
Per quanto riguarda le parti civili, non ci sono soltanto i familiari delle vittime, ma anche Comune di Venezia, Provincia di Venezia, Regione Veneto e ministero dell’ambiente rappresentato dall’avvocatura dello Stato. Sono rappresentati anche sindacati ed associazioni ambientaliste.
DALL’ASSOLUZIONE ALLE CONDANNE
Il 1 novembre 2001, poche ore prima del pronunciamento della sentenza di assoluzione in primo grado, il ministero dell’ambiente – rappresentato dall’avvocatura dello Stato – ottiene, mediante una transazione extragiudiziale, ben 525 miliardi di lire come risarcimento del danno ambientale.
In primo grado gli imputati saranno assolti, per poi essere condannati in appello. La conferma delle condanne sarà pronunciata dalla Corte di cassazione il 19 maggio del 2006.
In primo grado l’assoluzione da parte del tribunale presieduto da Ivano Nelson Salvarani si basa tutta su un punto cruciale: quando si seppe con assoluta certezza che il cvm era cancerogeno? E quali sarebbero state dunque le responsabilità dei singoli manager dirigenti di azienda?
Il 2 novembre 2001 la sentenza di assoluzione sancisce che per il tribunale manca l’elemento psicologico del reato contestato dalla pubblica accusa: i dirigenti seppero solo nel 1973 che il cvm era cancerogeno e a partire da quel momento misero in atto interventi operative per la riduzione dell’esposizione negli ambienti di lavoro.
GLI IMPUTATI NON TUTELARONO LA SALUTE DEGLI OPERAI
Nel dicembre 2004 però la sentenza d’appello – emessa nel dicembre 2004 dal presidente Francesco Aliprandi e dai giudici a latere Gino Contini e Antonio Lucisano – non solo riconosce il nesso di causa tra l’esposizione a cvm e alcune malattie (angiosarcoma del fegato, alcuni tipi di epatopatie e morbo di Raynaud)– ma sancisce anche la responsabilità dei vertici di Montedison, che avrebbero dovuto tutelare la salute degli operai. La sentenza d’appello legittima la tesi dell’accusa sostenuta dal pm Casson fin dal processo di primo grado.
In appello infatti per la morte da angiosarcoma epatico dell’operaio Tullio Faggian, i giudici condannano anche il responsabile civile Edison Spa a liquidare una provvisionale ai familiari del lavoratore deceduto. Nel frattempo però gli altri sei casi di morte per angiosarcoma (un tipo di cancro del fegato che in natura colpisce circa un soggetto su un milione)- avvenuti prima del 1999 – sono caduti in prescrizione. La diagnosi di angiosarcoma da cvm nel caso di Faggian era stata riconosciuta anche dal tribunale di primo grado, ma allora per il presidente Ivano Nelson Salvarani non era provata alcuna responsabilità dei singoli imputati.
La sentenza d’appello invece associa al caso di Faggian il riconoscimento della colpa degli imputati Montedison che ricoprivano i vertici aziendali tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta. I giudici d’appello hanno accolto la tesi del Pm Casson che aveva sottolineato come fin dagli anni Sessanta fosse noto che il cvm era una sostanza perlomeno tossica e perciò i vertici aziendali sarebbero stati tenuti per legge a tutelare adeguatamente la salute dei lavoratori, anche prima della scoperta della cancerogenicità della sostanza.
Se la sentenza di primo grado aveva comunque riconosciuto la correlazione tra l’esposizione a cvm e la morte degli operai per angiosarcoma del fegato, alcuni tipi di epatopatie e i casi di morbo di Raynaud, ma aveva assolto gli imputati, perché non ritenuti a conoscenza dei rischi; il giudizio d’appello interviene dunque con una parziale modifica che diventa però sostanziale nel suo significato.
UN PROCESSO CHE SI DOVEVA FARE
La sentenza di primo grado infatti sposava in parte la tesi del professor Federico Stella, difensore di Enichem, noto docente della Università Cattolica di Milano, che nel suo testo “Giustizia e modernità” – pubblicato durante il dibattimento di primo grado – sosteneva l’impossibilità di accertare le responsabilità penali personali in processi così complessi.
Tradotto in termini meno tecnici: per Stella il processo istruito da Casson non si doveva nemmeno fare perché inutile, visto che non era possibile individuare i colpevoli, la soluzione proposta in alternativa era l’avvio di cause civili per ottenere il risarcimento dei danni da parte delle vittime così come avviene negli Stati Uniti. È questa la battaglia teorica che il professor Stella sembrava aver vinto in primo grado.
Ma il presidente Aliprandi con il suo collegio è partito dal giudizio emesso dal Tribunale, lo ha in parte modificato e in questo modo ne ha in concreto ribaltato il significato. E il collegio di giudici della Seconda sezione della Corte d’appello di Venezia ha fornito anche altre indicazioni. La sentenza d’appello ha riconosciuto la responsabilità degli imputati anche sul fronte impiantistico per la mancata collocazione di cappe di aspirazione tra il ’74 e l’80 e per quanto riguarda i reati ambientali, ha sancito la violazione delle normative sugli scarichi in laguna fino al ’96, coinvolgendo così non solo gli imputati Montedison, ma anche i vertici di Enichem.
Il 19 maggio la Corte di cassazione conferma le condanne inflitte già con la sentenza d’appello ai manager di Montedison che ricoprirono ruoli di primo piano al Petrolchimico di Porto Marghera, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta: un anno e sei mesi di reclusione (con sospensione della pena) ad Emilio Bartalini, responsabile del servizio sanitario dal ‘65 al ‘79, ed ai direttori Renato Calvi, Alberto Grandi, Pier Giorgio Gatti e Giovanni D’Arminio Monforte.
2004 LA CASSAZIONE CONFERMA LE CONDANNE
La condanna è stabilita in relazione alla morte per angiosarcoma del fegato dell’operaio Tullio Faggian, deceduto nel 1999. In tutto i casi di angiosarcoma trattati nel maxi processo sono sette, ma i tempi diversi in cui sono avvenuti gli altri sei decessi ha fatto intervenire la prescrizione. La sentenza riconosce anche la responsabilità dei vertici delle aziende, tra il ‘74 e l’80, per l’omessa collocazione di impianti di aspirazione nei luoghi di lavoro. Infine la responsabilità di altri manager del Petrolchimico è riconosciuta (anche se è intervenuta la prescrizione) per la violazione delle normative sugli scarichi in laguna fino alla fine degli anni Novanta.
La sentenza della Corte di cassazione accoglie anche la tesi sostenuta dal sostituto procuratore generale della Suprema corte, Guglielmo Passacantando, che ha puntato sul concetto chiave della prevedibilità delle malattie sviluppatesi a danno degli operai. Il collegio di Cassazione, guidato dal presidente Giovanni Silvio Coco, ha chiuso così definitivamente il lungo capitolo del maxi processo per le morti da cvm dei lavoratori del Petrolchimico istruito dal Pm Felice Casson. Dopo la conferma definitiva da parte della Corte di cassazione, è destinato dunque ad entrare nella storia della giurisprudenza anche il giudizio emesso dai giudici della Corte d’appello di Venezia nel dicembre 2004, al termine di un dibattimento durato un anno.
*Il testo che qui proponiamo ai lettori di ytali è la relazione svolta dall’autrice nel corso di una mattinata di analisi e studio lo scorso 13 maggio al Centro Culturale Candiani di Mestre, organizzata dall’OMCeO veneziano e dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto.
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#portomarghera100
Festival della Politica – Anteprima di mercoledì 6 settembre
Ore 17.00 – Piazzetta Pellicani
“Ripartiamo dal lavoro”
Intervengono Paolo BIZZOTTO (CISL), Gerardo COLAMARCO (UIL), Enrico PIRON (CGIL)
Ore 19.00 – Piazzetta Pellicani
“Un futuro ancora da scrivere”
Apertura del Festival: Cesare DE MICHELIS, Nicola PELLICANI
Luigi BRUGNARO, Roberto MARCATO, Pino MUSOLINO, Giuseppe RICCI
con Maria Pia ZORZI
Ore 18.00 – Piazzetta Battisti
Nicoletta Benatelli, Gianfranco Bettin, Maurizio Dianese, Gianluca Prestigiacomo
“Porto Marghera. Cento anni di storie (1917-2017)”

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