Géographe le jour, auteur de polars la nuit: titolava così qualche tempo fa L’Express, sintetizzando in breve il profilo di Michel Bussi, autore di punta della narrativa popolare francese da una decina d’anni a questa parte, invariabilmente in testa alle classifiche di vendita ad ogni sua nuova uscita e tradotto in un’infinità di paesi, compreso il nostro, ottimamente proposto qui da noi dalle edizioni e/o, per le cure di Alberto Bracci Testasecca.
Della dozzina di romanzi all’attivo, disponibili in edizione italiana “Ninfee nere” (“Nymphéas noirs”, 2011, in Italia 2016), “Non lasciare la mia mano” (“Ne lâche pas ma main”, (2013, 2017) e “Tempo assassino” (“Le temps est assassin”, 2016), in attesa di “Mai dimenticare” (“N’oublier jamais”, 2014), annunciato per il prossimo novembre. E stavamo dimenticando “Un aereo senza di lei” (“Un avion sans elle”, 2012), proposto da Mondadori nel 2014.
Normanno di Louviers, cittadina d’antico lignaggio medievale sulle rive dell’Eure, non distante dalla Senna, cinquantaduenne dall’aspetto gioviale e giovanile, Michel Bussi è per prima cosa uno stimato docente di geografia all’Università di Rouen, all’esordio letterario nel 2006 con Code Lupin e best seller cinque anni dopo con il citato “Ninfee nere”, per giunta accolto trionfalmente dalla critica e vincitore di numerosissimi premi.
Giallista di successo, si direbbe qui da noi, e infatti i suoi romanzi ruotano invariabilmente intorno a misteri e delitti di non facile soluzione, che ti seducono per la rapidità del loro compiersi (si entra nelle sue storie per così dire in medias res) e per la complessità del loro spiegarsi, in ambientazioni (ecco il geografo) tutt’altro che banali o casuali, tanto da assurgere a luoghi topici, protagonisti non meno dei personaggi che vi interagiscono, generalmente lungo differenti piani temporali.
Il passato che non passa, destinato a motivare gli accadimenti altrimenti inspiegabili del presente, è l’espediente narrativo che consente, non solo a Bussi beninteso, di mandare in parallelo le storie e i loro moventi, ma senza muoversi troppo dal medesimo paesaggio, fisico o antropizzato che sia, mirabilmente “vissuto” come pochi sanno con le parole (e qui Bussi è maestro), cosicché – familiarizzando con quei luoghi – pare anche a te lettore d’esserci dentro, di vivere quelle storie, con un effetto visivo assai simile ad una costruzione cinematografica che non ha bisogno di occhialini ed effetti speciali per trasportarti nella terza dimensione.
Ci sono sempre poliziotti che indagano naturalmente, ma nei romanzi di Bussi la vera detection appartiene a coloro che sono vittime (e in parte anche artefici, magari involontari) dei fatti delittuosi. E dunque non c’è mai, semplicemente, un caso da risolvere, bensì una pellaccia da salvare. La tua e quella di chi ti sta accanto.
Normandia, dicevamo, spesso presente nei lavori di Bussi. Con “Ninfee nere” siamo a Giverny, e non poteva essere altrimenti, per le strade e e fra i giardini oggi meta del turismo internazionale per via di Claude Monet e dei suoi celebri dipinti, fra cui le presunte ninfee del titolo, di cui si favoleggia da sempre, ultima versione di un soggetto eternamente ritratto e mai uguale a se stesso negli occhi del grande impressionista, colui che ebbe a portare la rappresentazione paesaggistica sino ai limiti dell’astrazione.
Tre personaggi femminili ci fanno da guida in momenti differenti, tutti costellati da misteriosi e insoluti delitti: l’undicenne Fanette, appassionata di pittura e pittrice lei stessa, in procinto di esordire con un suo lavoro ad un concorso internazionale; la maestra del villaggio Stéphanie, bella e mal sposata; infine una vecchia e acida signora che passa il suo tempo a spiare concittadini e ospiti con propositi poco onorevoli. E in mezzo a loro un ispettore di polizia, tale Sérénac, che intuisce la verità senza venirne veramente a capo. Forse perché lui stesso troppo coinvolto…
Con “Non lasciare la mia mano” siamo nel dipartimento francese d’oltremare della Réunion, un’isola al largo del Madagascar, non lontana da Mauritius, con cui forma le isole Mascarene. L’isola intensa, la chiamano i francesi: al centro un vulcano di oltre duemila metri, circondato da deserti lavici, foreste tropicali e un’unica litoranea circolare sulla costa, punteggiata di località turistiche e attorniata da barriere coralline. Quel che si dice un paradiso tropicale, dove tutti sono un po’ meticci (l’isola è rimasta disabitata sino alla metà del Seicento, quando venne occupata dai francesi, e poi raggiunta da africani, malesi, cinesi e indiani, curioso prototipo di melting pot) e riesce difficile, se non altro per ragioni logistiche, ammazzare qualcuno e farla franca.
Eppure, Liane, in vacanza pasquale a Saint-Gilles-Les-Bains con il marito Martial e la piccola Sofa, quasi subito scompare, in circostanze che andranno via via avvalorando la tesi dell’uxoricidio, tanto più che subito dopo s’involano anche Martial e Sofa, vanamente ricercati dalla polizia. Ma il cadavere di Liane non si trova e dunque che omicidio può essere? Caccia all’uomo, forse colpevole molto tempo prima di qualcos’altro…
Da un’isola all’altra: in “Tempo assassino” va in scena la Corsica, e più precisamente la Penisola della Revellata, ad ovest di Calvi, un gioiello naturalistico non ancora del tutto aggredito dal turismo anche per merito del vecchio Cassanu, boss all’antica del milieu corso, tradizione, famiglia e mano dura quando serve. Nell’estate del 1989 un’auto corre troppo veloce sulla mezza costa e va a sfracellarsi nel dirupo, con una sola sopravvissuta, la quindicenne Clotilde, morti sotto i suoi occhi i genitori e il fratello. Diciassette anni dopo, estate 2016, Clotilde vi fa ritorno per le vacanze, con figlia e marito, ricevendo strane lettere firmate dalla madre. Troppe omertà in giro per pensare ad uno scherzo di cattivo gusto. E poi la calligrafia è proprio quella…
Ormai star del moderno romanzo popolare, Michel Bussi è troppo intelligente per mescolare la professione scientifica di ricerca con la vocazione narrativa, peraltro esplosa tardi, dopo lunghi anni di manoscritti restituiti al mittente e di pubblicazioni in proprio, o quasi. Sa bene che les mots savants necessariamente impiegati all’università mal si concilierebbero con i lettori che divorano i suoi romanzi, avvinti dai mille colpi di scena delle sue architetture narrative.
Non si nega al lieto fine e qualche traccia di mélo qua e là si avverte nei risvolti sentimentali che reggono al fondo gli intrecci. Eppure, ben salda e riconosciuta l’abilità narrativa, ridurre il tutto a letteratura grand public sarebbe sbagliato. In fondo Simenon scriveva capolavori usando non più di duemila parole, e i Balzac, Flaubert, Hugo e Zola del romanzo ottocentesco non disdegnavano di certo la coda dei lettori in libreria. Un ingegnoso geografo del delitto, questo Bussi, che ci fa viaggiare senza mai staccare gli occhi dal libro.

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