Se i poteri forti sono deboli

"Poteri forti (o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo" di Ferruccio de Bortoli rivisita la storia professionale dell’autore al fine di riflettere su quella della nazione. Un libro costituito da memorie, quindi anche dal richiamo di errori, che possono divenire scomodi ricordi per il loro stesso autore.
FRANCESCO MOROSINI
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La memoria è una nebbiolina invisibile che toglie nitore ai contorni e deforma vigliaccamente il tempo. Pensiamo di dominarla anche quando ci sfugge. Ma è lei che domina noi.

È l’incipit, certo non a caso, della riflessione di de Bortoli (Ferruccio de Bortoli, “Poteri forti (o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo”, La nave di Teseo, Milano, 2017) su idee, eventi e persone che hanno incrociato, accompagnandola, la sua storia professionale di giornalista; e, con essa, dell’Italia. È questa, infatti, una manifestazione di onestà intellettuale; che equivale, come lo stesso de Bortoli sostiene poche righe oltre, ad avere uno spirito attento all’accuratezza e alla verifica di ciò che si sostiene, facendo di ciò la missione laicamente etica del lavorare nei giornali.

Certo, forse la verità è difficilmente raggiungibile; ma mai questo giustifica, sostiene sempre l’autore, cedere all’illusione del sapere che talvolta, sollecitando la pigrizia intellettuale, è la nostra stessa memoria a darci. Insomma, il mestiere del redattore, dell’inviato come dell’editorialista, è di osservare, pensare, analizzare; ma poi incessantemente di verificare. Tuttavia, questi pensieri che aprono “Poteri forti (o quasi)” vanno, per de Bortoli, ben oltre al richiamo, a garanzia del lettore, all’autodisciplina analitica come etica dello scrivere. Piuttosto, sono un richiamo generale alla professione nel suo rapportarsi all’opinione pubblica; in particolare nell’attuale fase di vita delle democrazie, e di cui la prima è parte fondante.

Qui de Bortoli esprime una preoccupazione che richiama drammaticamente la necessità del buon giornalismo in opposizione al troppo semplicismo d’analisi e alla conseguente chiusura – inevitabile il richiamo a Bloom (Harold Bloom, “La chiusura delle mente americana”), studioso che tali pericoli già vedeva sorgere negli anni Sessanta del ‘900 – della “mente democratica”. E lo fa denunciando con timore il fatto che la stessa opinione pubblica è “sempre meno ‘architrave della democrazia’, come l’ha definita Giovanni Sartori” trasformandosi viceversa sempre di più in “uno scolmatore di umori che peraltro si riflette sull’esercizio del voto”. Pertanto, a opporsi a questa deriva per de Bortoli deve esserci la scrupolosità e la credibilità di chi fa il giornalista. Che poi null’altro è che fare del proprio lavoro il “guardiano della democrazia”.

Ragionando in questa prospettiva, è logico che il libro, nel rivisitare la storia professionale dell’autore al fine di riflettere su quella della nazione, sia costituito da memorie, quindi anche dal richiamo di errori, che possono divenire scomodi ricordi per il loro stesso autore. Tuttavia, a ben guardare, è questo il prezzo che si paga al “pensiero critico”, cioè al rifiuto a quell’autoimmunizzazione da critica che, viceversa, spesso caratterizza quelle “comunità chiuse” (e di cui oggi la rete consente nuova capacità diffusiva) che da sempre, ricorda l’autore, minano, svuotandola dall’interno, la democrazia.

Emergono così condivisibili preoccupazioni sul nostro presente e futuro contro le quali, sostiene de Bortoli, è utile l’esercizio critico della memoria. Il libro “Poteri forti (o quasi)”, pertanto, è un invito a condividere con l’autore il racconto di quei personaggi ed eventi che, assieme alla vita lavorativa dello scrittore, accompagnano quella dell’Italia repubblicana di cui egli si fa qui testimone; e questo al fine, senza illusionismi ideologici, di capirci meglio.

Da quanto fin qui detto, è evidente che l’autore di “Poteri forti (o quasi)”, attraverso gli eventi e i volti dei protagonisti di quest’ultimo quarantennio di vita italiana, sviluppa un’idea di fondo: ed è che senza buon giornalismo (lo si vede in tutta evidenza nei momenti tragici) una democrazia soffre, e, probabilmente, muore. È questa una chiamata in causa della professione cui ricorda che, “quando tace o deforma”, essa opera a favore delle classi dirigenti meno responsabili, portando, in ultima analisi, un paese alla condanna del declino.

Vero, quello italiano ha molti padri e molte madri; ma è difficile non concordare con l’autore quando richiama, tra i cofattori del declino medesimo, qualche “distrazione” della professione. Non a caso, dopo la presentazione, la prima parte del libro titola: “Amiamo molto questo lavoro”. E dove, essendo la memoria la protagonista prima del libro, vi troviamo assieme le note biografiche dell’autore stesso (dal suo dal formarsi sul campo negli anni Settanta alla sua maturità) e l’evoluzione dell’Italia dal terrorismo endogeno (rosso e nero) a Grillo. Nel farlo, l’autore richiama i pericoli cui la democrazia è stata esposta nel passato; e gli attuali. Contro cui, coerentemente, schiera sempre, vedendovi un’ancora di salvezza, il buon giornalismo. Perché questo è il senso di “amare questo lavoro”.

“Oh, è eccellente avere la forza di un gigante, ma è tirannico usarla come un gigante”

Ma quali sono, a dire di de Bortoli, le minacce sorgenti oggi contro la democrazia? Paradossalmente, esse sono costituite da un effetto perverso di una rivoluzione per altri versi positiva come’è l’informatica. Che null’altro sono che una riedizione dell’oscuro mito della democrazia diretta (questa volta grazie alla rete che escluderebbe – o, meglio, maschera, gli intermediari, stampa compresa), contro la quale il politologo Sartori (Giovanni Sartori, “La democrazia in trenta lezioni”) afferma che “chi la reclama altri non è che espressione di una élite che irretisce masse inermi e credule denunciando l’elitismo altrui”. È un pensiero che pare lecito affiancare a quello di de Bortoli, giustamente convinto della complessità del reale, e che pertanto aborre le semplificazioni (spesso, appunto, negatrici di democrazia); e che a tutto ciò contrappone, ma è il Leitmotiv del libro, il ruolo del giornalismo, se credibile, per la difesa, oltreché per il buon funzionamento della democrazia. “Amiamo molto questo lavoro”, in fondo, esprime la formula della democrazia medesima: buon giornalismo per avere un’opinione pubblica attenta.

La seconda parte del libro, che non a caso ne condivide il titolo di “Poteri forti (o quasi)”, si presenta come una riflessione, critica e non scontata, sulla classe dirigente italiana (politica e non). Qui l’autore punta a mettere in luce le metamorfosi e le debolezze del potere in Italia proprio interrogandosi e rispondendosi – attraverso l’esperienza vissuta direttamente come protagonista dell’informazione (il coinvolgimento autobiografico fa l’originalità e, assieme, l’interesse del lavoro) – al quesito: è il potere nel Belpaese “forte”?
Per de Bortoli no; o, meglio, non come dovrebbe essere in una democrazia ben funzionante.

Messe così, però, simili affermazioni potrebbero, ma è un rischio che l’autore evita, apparire generiche; infatti, nel volume la dizione “poteri forti” è l’esatto contrario dell’arbitrio; precisamente, in essi l’autore vede la forza propria, quasi l’essenza, di uno Stato di diritto ben funzionante. Non a caso, per chiarire il proprio pensiero, l’autore cita il “caso Sindona” (eventi su cui tornerà parlando di Giorgio Ambrosoli); più precisamente, il modo in cui il banchiere fu fermato dalla capacità di parte – purtroppo altra parte mancò al compito – della classe dirigente, politica, istituzionale ed economica (Ugo la Malfa, Cuccia e Bankitalia), di tutelare la Repubblica secondo, appunto, i dettami dello Stato di diritto.

Ragionamenti che l’autore così chiarisce ulteriormente:

Un paese con poteri forti e responsabili, bilanciati da regole certe e con la necessaria trasparenza garantita da una informazione libera, non è esposto ai raider di qualunque natura.

Insomma, nessun rimando a retoriche muscolari da bassa cucina politica. Tant’è che, coerentemente, il “quasi” riferito nel titolo ai “poteri forti” indica le difficoltà al pieno dispiegarsi (si tratti di industria, banche, politica) nella cultura politica del Belpaese del costituzionalismo liberale. Non a caso è proprio dalle difficoltà dell’affermarsi in Italia dei valori della liberaldemocrazia che il libro individua, con ottimi argomenti, dei freni che ha subito l’economia italiana negli ultimi quaranta/cinquant’anni.

La saggezza è meglio della forza

Pessimismo della ragione spinto all’eccesso? Tutt’altro, perché la capacità di vedere le luci, oltre alle ombre, è ben presente nel volume. E neppure vi si sostiene che l’economia italiana è ferma da quarant’anni. No, l’argomento è diverso. E ricorda alcune analisi, anticipatorie di molti eventi susseguenti, dell’economista Savona che già nel 1974 (Paolo Savona, “La sovranità monetaria”) osservava come, al di là di buone riforme fatte negli anni Cinquanta del Novecento, la crescita del dopoguerra fosse effetto, più che di un modello di sviluppo autoalimentantesi, di spinta esterna; un po’ come accade oggi, senza voler essere troppo “gufi” e senza azzardare troppo in comparazioni storiche, per la nostra attuale mini-ripresa.

Tutto ciò, nell’analisi di de Bortoli, rivolta soprattutto al “capitalismo senza capitali” di molti grandi gruppi e alle vicende, privatizzazione comprese, dello Stato imprenditore, si manifesta con la faccia di un capitalismo nostrano diffidente del mercato e eccessivamente attento allo scambio politico/partitico.

La tesi, condividibile, è che troppa classe dirigente italiana sia espressione di un capitalismo relazionale (il problema è il “troppo”, perché in parte lo è inevitabilmente). Insomma, l’Italia industriale e finanziaria delle grandi dimensioni ha subito il fascino del rapporto con la politica – alcuni grandi gruppi come Benetton, rileva l’autore, si sono addirittura spostati sul tariffario (autostrade, ad esempio), necessariamente legato alla politica medesima -, cosa che spesso si è tradotta in domanda di protezione.

Emblematica, come già anticipato, è, per de Bortoli, la vicenda delle privatizzazioni, che spesso furono “privatizzazione senza mercato”; e, prima, la distruzione clientelare di molte valide aziende pubbliche. Pensieri che richiamano il preoccupato allarme, seppure da un angolo visuale opposto perché più vicino al marxismo che alla tradizione liberale, sulla crisi industriale italiana del sociologo Gallino (Luciano Gallino, “La scomparsa dell’Italia industriale”).

Il punto è che, sebbene il lato più capitalistico/liberale dell’impresa italiana – ossia le medie e le piccole con il fiore all’occhiello del capitalismo 4.0 – faccia tuttora dell’Italia il secondo paese manifatturiero d’Europa, resta che i “grandi gruppi sono pochi. E la ricerca la fanno soprattutto loro, quelli che fanno massa critica”. Di conseguenza, dalla chimica, ai pc, alla grande distribuzione, dall’alimentare all’arredo, ovvero pure a molte delle filiere tipiche del made in Italy, siamo privi di “players internazionali del calibro di Danone e Ikea”. La qualcosa conta, perché poi le decisioni strategiche (prezzi, occupazione, investimenti) vengono prese fuori dalla Penisola perché, come ricorda l’economista Ha-Joon Chang, pure “il capitale ha nazione”.

LA FORZA nella debolezza. Basta la grazia

Variabile decisiva per spiegare i “limiti” dello sviluppo della Penisola, è, per de Bortoli, in coerenza con la sua analisi della cultura politica nazionale, il fatto che nel Belpaese più che “poteri forti”, ossia uno Stato di diritto ben funzionante, ci sono troppi “poteri opachi”. Ed è proprio questa lettura del paese che all’autore fa apparire la politica affascinante e, al contempo, un’alternativa di vita diabolica. Ragione per cui, nonostante la sua dichiarata fascinazione per essa, de Bortoli alla fine ha sempre rifiutato di scendere nell’arena politica.

Certo, queste, in apparenza, sono prioritariamente note autobiografiche, che comunque in un libro di memorie hanno il loro peso; tuttavia, meritano d’essere riportate perché quando egli afferma che, se “decidi di il gran salto, è inevitabile che tutto quello che hai scritto e hai fatto venga letto alla luce della tua scelta politica”, emerge con esse una filosofia professionale che riporta alla sua idea di giornalismo nel suo rapporto con l’opinione pubblica. Scelta, certo non dogmatica come mostra il rispetto per colleghi di diversa opinione, utile a capire ancor meglio quel servire la democrazia che, in fondo, è il senso ultimo di “Poteri forti (o quasi)”.

La terza parte del libro, titolata “I volti del potere”, racconta il quarantennio repubblicano in questione attraverso i contatti dell’autore con i suoi protagonisti. Tra questi, il primo che s’incontra, forse inevitabilmente per il ruolo che ricoprì di gran sacerdote di quella che allora era la “finanza laica”, è Enrico Cuccia, con la sua Mediobanca.

È bene ricordare che Cuccia operò nell’Italia della legge bancaria del ’36, con la sua “foresta pietrificata” del credito, come ebbe a dire Giuliano Amato, con la “sua” Mediobanca preposta alla gestione e garanzia del complesso equilibrio tra i grandi potentati del capitalismo in stile Prima repubblica. Cuccia fu una personalità decisiva di quegli anni; in particolare se si fa mente al fatto che Mediobanca stessa fu concepita da Raffaele Mattioli e poi gestita da Cuccia medesimo – come ricorda La Malfa in un libro citato dallo stesso de Bortoli (Giorgio La Malfa, “Cuccia e il segreto di Mediobanca”) – per superare i limiti della legislazione del ’36 agendo come unica banca d’affari italiana.

Immagini di un’era passata; così l’autore può dire, forse richiamandosi il regista Sergio Leone, “c’era una volta Mediobanca”; difatti, il suo ricordo di Cuccia, e con esso si potrebbero intravvedere i profili di Carli, Baffi, Ciampi, racconta di un’Italia, sebbene molte delle pecche della sua economia vengono di lì, diversa dall’attuale. Ma che allora aveva in queste personalità, pur con tutti i loro limiti, una classe dirigente che merita entrare nella nostra memoria nazionale.

La vita ti metterà alla prova, ma ricorda questo: quando sali una montagna ti si rafforzeranno le gambe.

Lo stesso vale per Gianni Agnelli, Cesare Romiti e la loro Fiat, a lungo il dominus oligopolista del mercato automobilistico italiano; perché anch’essi, che pure seppero approfittare dello scambio politico, avevano un senso di responsabilità verso il paese che, sottolinea de Bortoli, ad esempio mostrarono non abbandonando il paese ai tempi del terrorismo. Ma pure qui vale il “c’era una volta”: perché la Fiat è sopravvissuta, con Sergio Marchionne, sposandosi negli Usa con Chrysler (divenendo FCA); e ora nuovamente l’azienda e gli Agnelli cercano un nuovo destino, tra industria (partner cinese; General Motors o chissà) e finanza.

Altro capitalismo e altra storia. Che, in politica, vedrà l’ascesa della Seconda Repubblica e del Cavaliere, cioè Silvio Berlusconi. E, con questi, della breve illusione di una rivoluzione liberale, invero difficile da realizzare per la cultura politica della Destra allora emergente, condizionata da localismi e dallo statalismo corporativo della Destra sociale post missina. Per il vero de Bortoli vede negli inizi del centrodestra un’impronta liberale; ma, questa, innegabile, fu più il muoversi di alcuni spiriti liberali che la visione profonda del leader, Berlusconi, e della poderosa ed innovativa (col Cavaliere fu introdotto su scala industriale il marketing politico in Italia) macchia partitico-elettorale.

Ma è proprio l’autore, ripercorrendo le sue vicende di direttore del Corriere (del manifesto, fu una battuta del Cavaliere) ai tempi del governo di centrodestra a far emergere la distanza tra quest’ultimo e quell’idea di “poteri forti”, cioè di una democrazia poggiante su di un solido Stato di diritto, che tanto servirebbe all’Italia.

Come si vede, il Leitmotiv del libro è costante: la carenza di valori liberaldemocratici condivisi pesa negativamente. Purtroppo, però, l’approdo dell’Italia a essi resta lontano. D’altronde, a riprova, neppure l’alternativa al Cavaliere, ovvero il Centrosinistra, un’area balcanizzata da personalismi e conflitti ideologici difficili da colmare, è riuscita, e forse neppure ci ha mai provato veramente, ad essere una vera alternativa capace di rafforzare lo Stato di diritto in Italia.

Tuttavia, nello sfogliare l’album di quest’area, bene fa de Bortoli a soffermarsi sulla figura di Tommaso Padoa-Schioppa, un po’ un’eccezione in questa parte politica. Giusto quindi ricordarne la personalità di convinto servitore dello Stato; e di studioso che, conscio delle tragedie passate dal Vecchio continente, vedeva (oggi forse diremmo che peccava di eccessivo ottimismo e poca Realpolitik) nell’europeismo l’unica arma per evitare di reiterare quel tragico passato delle “Guerre civili europee”. E del quale è giusto dire come oggi manchi “al dibattito sul futuro dell’Europa il contributo di una mente aperta e di straordinaria competenza tecnica come la sua”.

Tra i volti dell’attualità emerge quello di Mario Draghi, il banchiere centrale che ha salvato l’Eurozona. Il presidente della Bce lo fece con il suo famoso “The ECB is ready to do whatever it takes to preserve euro“, che evidenziò come l’arte delle decisioni dell’Autorità monetaria si esprima con parole – così richiamando la tradizione filosofica che ci ricorda, a partire dalle “parole sono fatti” di Wittgenstein per giungere poi agli atti linguistici dei filosofi Austin e Searle – che sono fatti causa di altri fatti (la stabilizzazione dei mercati). Potenza del linguaggio del banchiere centrale, anche quando si esprime solo con annunci, come effettivamente accadde con la frase di Draghi prima citata e pronunciata il 26 luglio 2012.

Tuttavia, la lingua della politica monetaria dei banchieri centrali per creare fiducia (Alberto Orioli, “Gli oracoli della moneta”) – e lo deve fare operando tra Scilla, il mostro finanziario del panico e Cariddi, quello dell’euforia – deve disporre di un capitale di fiducia assai elevato. Draghi, per nostra fortuna, ne dispone in abbondanza, e per questo è a ottimo titolo tra i protagonisti positivi del periodo.

Infatti quelle parole fecero la salvezza dell’Eurozona. de Bortoli, riferendosi al presidente della Bce, coglie perfettamente il senso filosofico delle parole citate; ma le riprende, a vantaggio del lettore (com’è giusto fare in un libro di memorie), per disegnarne i tratti salienti della personalità. E lo fa sottolineando come il suo linguaggio sia “coerente con il suo senso di disciplina” che ne produce quell’autorevolezza senza la quale le parole di un banchiere centrale possono ricadere malamente e pericolosamente (incertezza) sui mercati. E bene fa l’autore di “Poteri forti (o quasi)” a vedere in Draghi l’eredità del suo maestro, Federico Caffè, quantomeno in due tratti salienti: gentilezza e determinazione. Così, giungendo al presidente della Bce, la memoria diviene “giornalismo storico del presente”; ed è proprio grazie ad esso, volgendo lo sguardo all’indietro, ci consente, comparando, di meglio valutare il “chi siamo”.

Il libro chiude con i “Ritratti”, dove le personalità di cui si parla sono avvicinate con altra intenzione. Nel senso, se s’interpreta correttamente, che qui a prevalere, oltre l’attualità, è il messaggio etico, specie per i leader religiosi incontrati e raccontati, o etico/politico, se il riferimento è a personalità laiche e tra le quali un posto a parte merita Giorgio Ambrosoli, la tragica e rara figura di “eroe borghese” italiano.

Certo, è sempre evidente la volontà dell’autore di narrare l’ultimo quarantennio repubblicano; ma qui il discorso cambia piano. D’altronde, l’impone anche la scelta dei “ritratti” proposti.

I veri amici conoscono le tue debolezze ma ti mettono in evidenza i tuoi punti di forza

Cosa che ben emerge dalle emozioni dell’autore al ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e della sua di Chiesa “minoritaria, umile, piena di dubbi”. Qui in gioco, al posto della politica partitica o dell’economia, sono protagoniste altre questioni, invero ancora più decisive delle prime nell’incidere a fondo la coscienza della società civile: ad esempio, i temi bioetici, a partire dall’eutanasia.

Tra l’altro in materia la democrazia è sfidata alla radice (può una maggioranza disciplinare materie d’ambito etico, ovvero indisponibili? E, nel caso, qual è l’alternativa?) e tutto ciò rimanda al complesso rapporto tra libertà, fede e magistero. Questioni complesse che proprio l’umiltà di fede di Martini, ben si vede dalle righe di de Bortoli, mostrava e mostra con evidenza nella loro complessità.

Tema che ricompare con Giovanni Paolo II, pontefice che certo appartiene anche alla stori politica come protagonista del XX secolo e vincitore nella sfida al comunismo reale dell’Est europeo (ma che forse si sentirebbe sconfitto osservando, ma ogni rivoluzione abbandona le idee dell’origine, le società ivi sorte), ma che, significativamente, de Bortoli ci riconsegna come il papa che fino alla fine ha voluto

sostenere il peso della croce della propria malattia e l’onere del suo sacerdozio, senza che la medicina alterasse, al di là del necessario, il naturale corso biologico.

In queste ultime parole – sperando d’interpretare correttamente l’autore – de Botoli vede vicinanza spirituale, e anche modernità dinnanzi al tema dell’accanimento terapeutico, tra il papa polacco e il cardinale di Milano.

Né, dai “ritratti” potevano mancare Benedetto XVI, a ora l’ultimo pontefice europeo, e papa Francesco, il papa venuto da lontano; e che per questo ricorda, sconvolgendo il senso della storia come letta dai cattolici del Vecchio continente, che la Chiesa ha una dimensione universale; e che, soprattutto, parlando in termini di geopolitica religiosa, essa vive, cresce ed anche, purtroppo, muore (dal Medio Oriente all’Africa), fuori dal Limes europeo. Pertanto, forse esiste un legame simbolico tra le dimissioni di Benedetto XVI – “dimostrazione di forza morale esemplare” per amore della Chiesa nella coscienza di “evidente debolezza politica del successore di Wojtyla” – e l’ascesa al trono di Pietro del “papa venuto da lontano”.

Dice de Bortoli di Francesco:

La dottrina è intatta, ma non viene impugnata – com’era accaduto al tempo dei valori non negoziabili su bioetica e morale – alla stregua di uno scudo dietro il quale chiamare a raccolta un esercito di residenti ecclesiali.

Insomma, è la volontà pastorale, più che il ricorso all’autorità, la filosofia del nuovo pontefice. È su questi aspetti che si sofferma “Poteri forti (o quasi)”; a ciò, però, si vorrebbe aggiungere un diverso interrogativo: ossia se la dottrina sociale del pontefice argentino sia compatibile o meno con la teoria e la prassi dell’economie globalizzata attuale. Forse, una questione utile da porsi nell’attuale temperie.

I ritratti “laici” seguenti, invece, vogliono rappresentare “quella certa idea dell’Italia” (Albertini, Spadolini, Spaventa, Tobagi, Valiani, per citarne solo alcuni) che, se fosse, cioè uno Stato di diritto vissuto come tale, avrebbe risolto molti dei suoi problemi; o che, al minimo, avrebbe gli strumenti e, soprattutto, l’approccio mentale per affrontarli al meglio. Tuttavia, “quella certa idea dell’Italia” è tuttora minoritaria; troppo minoritaria.

Un grande esempio di essa è la vicenda, carica di luce personale e di molte ombre collettive, di Giorgio Ambrosoli, l’atipico “eroe borghese” prima richiamato. Qui veramente “Poteri forti (o quasi)” fa emergere le contraddizioni del paese nei suoi violenti contrasti.

Cosa che consente a de Bortoli di evidenziare l’eredità spirituale, intesa come religione laica, di Giorgio Ambrosoli individuandola esattamente nel “coraggio temerario della legalità”: questi, infatti, nominato commissario liquidatore della Banca privata italiana, banca di Sindona, operò nell’interesse pubblico, assieme a Bankitalia, impedendo quella revoca della liquidazione della banca medesima che il banchiere siciliano voleva assolutamente anche per alleggerire la propria posizione giudiziaria sia in Italia e negli Usa. Ma, coerente ai doveri del proprio ufficio, Ambrosoli s’oppose, non volendo che i soldi del contribuente (legge Sindona) salvassero il banchiere che aveva distrutta la banca stessa, fino al supremo sacrificio.

Una triste biografia degli anni Settanta, dicendo con le parole di Magnani (Marco Magnani, “Sindona. Una biografia degli anni Settanta”); biografia, purtroppo, ci ricorda de Bortoli, espressa dall’assenza delle istituzioni, salvo la nobile eccezione del governatore di Bankitalia Paolo Baffi, ai funerali del servitore dello Stato Giorgio Ambrosoli.

Qui corre il confine tra due opposte Italie; una linea divisoria che percorre tutto il quarantennio, ma, in fondo, tutta la storia d’Italia, su cui si è esercitata la memoria storico/riflessiva, come il suo esplicito prendervi parte schierandovisi, di de Bortoli.

Molte riflessioni, dunque, per chi volesse leggere “Poteri forti (o quasi)”: un tempo bene speso.

Domenica 10 settembre

Piazzetta Pellicani – ore 17:30
Ferruccio DE BORTOLI, Emanuele MACALUSO
Poteri forti (o quasi)
con Guido MOLTEDO

Se i poteri forti sono deboli ultima modifica: 2017-09-09T15:18:43+02:00 da FRANCESCO MOROSINI
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