La fine della socialdemocrazia?

In Europa tutti i partiti socialdemocratici vivono una crisi profonda. Le condizioni storiche della loro azione politica sono mutate profondamente. Molti reclamano una rifondazione. Ma poco si muove all'orizzonte.
MARCO MICHIELI
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Agli inizi degli anni Ottanta Ralf Dahrendorf scriveva che la socialdemocrazia aveva esaurito la sua funzione poiché aveva compiuto la propria missione. I partiti socialdemocratici sarebbero morti quindi per il successo riportato. Forse all’epoca l’affermazione era troppo netta e perentoria. Tuttavia Dahrendorf poneva una questione di rilievo: che cosa resta delle lotte delle socialdemocrazie, se il traguardo della costruzione dei welfare nazionali è stato raggiunto?

Ne hanno parlato recentemente Ilvo Diamanti e Piero Ignazi in un dibattito al Festival della Politica di Mestre, moderato da Marco Damilano. Secondo Piero Ignazi, il problema della socialdemocrazia è stata la cosiddetta Terza Via, che ne avrebbe modificato i valori fondamentali senza riuscire ad ammansire la “bestia neoliberale”. Un’operazione elettorale quella della Terza Via – il tentativo di conquistare le classi medie e medio-alte a scapito di quelle popolari – che Ignazi giudica come un fallimento (ne aveva già parlato con Ytali in una recente intervista). Quale allora potrebbe essere la soluzione al declino della socialdemocrazia? Per Ignazi si tratta di recuperare la radicalità delle idee e interpretare nuovamente la frattura di classe ancor presente nella nostra società. Jeremy Corbyn rappresenterebbe l’esempio da seguire.

Ilvo Diamanti, invece, pone il problema in modo diverso. Diamanti infatti sostiene che sono venute meno alcune delle condizioni essenziali per i partiti socialdemocratici. Innanzitutto, è venuta meno la principale frattura occidentale dell’ultimo secolo: la frattura di classe, lo scontro tra borghesia e classe operaia. Non esiste più la base elettorale della socialdemocrazia che interpretava quella frattura. In secondo luogo, il partito di massa come principale strumento di azione della socialdemocrazia ha cessato di esistere. Diamanti non fornisce soluzioni al problema del declino dei partiti socialdemocratici, però avverte che quelli che noi chiamiamo partiti populisti sono il frutto della crisi della socialdemocrazia. E più in generale della democrazia rappresentativa, attraverso la crisi generale dei partiti e dei corpi intermedi (la Chiesa, i sindacati, ecc.). Più importante ancora, secondo Ilvo Diamanti, è comprendere che oggi non è tanto la frattura di classe quella che determina le domande politiche dei cittadini quanto quella tra centro e periferia. Una vecchia frattura territoriale su cui si costruisce una nuova dimensione di conflitto. Nuova perché non si tratta soltanto di un conflitto tra la città e la campagna, tra il centro abitato e una periferia intesa geograficamente. Si tratta di una frattura tra centro e periferia che ha una dimensione culturale più ampia. Una frattura tra coloro che partecipano al potere e coloro che ne sono esclusi, tra coloro che partecipano a stili di vita ed esperienze globalizzate e coloro che non possono accedervi.

Ralf Dahrendorf

Certo è che la socialdemocrazia sta affrontando dilemmi fondamentali per la propria sopravvivenza. Nata dai processi di industrializzazione e urbanizzazione della Rivoluzione Industriale e dalle lotte dei lavoratori contro un sistema economico che ritenevano ingiusto, di fronte alle macerie della Seconda Guerra Mondiale la socialdemocrazia ha offerto a molti elettori una sorta di equilibrio tra i benefici del capitalismo e la protezione dello stato, sostenendo nel contempo l’atlantismo e il processo di integrazione europea. In molti paesi europei, l’equilibrio socialdemocratico si è realizzato anche in assenza di partiti che si richiamassero a quella tradizione (pensiamo soltanto alla tradizione cristiano-democratica). I “gloriosi trent’anni” hanno così portato sviluppo e benessere ai paesi europei, sotto l’ombrello protettivo degli superpotenza americana.

Gli anni Settanta coincidono però con l’inizio della crisi dei partiti socialdemocratici, che pure governano in quel momento alcuni dei paesi più importanti dell’Europa occidentale. Da quella crisi la socialdemocrazia ne uscirà solo a metà degli anni Novanta, quando riuscì a ripensare la propria natura nel tentativo di conciliare la coesione sociale e l’innovazione economica. La “Terza Via” nasce dal tentativo di ripensare la tradizione socialdemocratica e di ri-adattarla ai processi di globalizzazione. Per certi versi un tentativo naif, forse troppo ottimista. Alla fine degli anni Novanta però i partiti socialdemocratici governavano in buona parte dei paesi dell’Unione Europea.

Centrale nella crisi della socialdemocrazia è stata tuttavia la recente e persistente crisi economica e finanziaria. Una crisi che ha mietuto molte vittime politiche eccellenti, a destra e a sinistra. I partiti socialdemocratici però si sono trovati in maggiori difficoltà nel tentativo di recuperare il potere perduto, anche dopo lunghe fasi di opposizione e condizioni economiche e sociali che avrebbero dovuto aumentarne le chance di successo elettorale. Non possiamo nemmeno dire che sia una crisi politica concentrata in specifici paesi, poiché interessa tanto il nord quanto sud dell’Europa.

Probabilmente, come dicono Ignazi e Diamanti, i partiti socialdemocratici non riescono più a raggiungere e soddisfare i bisogni dei propri elettori. Per quali ragioni?

Innanzitutto i cambiamenti demografici e i processi di globalizzazione contano, nonostante su quest’ultimo elemento i due politologi siano scettici. Eppure da decenni il manifatturiero è in declino e i lavori industriali spariscono mentre la società diventa sempre più società di servizi. L’appartenenza ai corpi intermedi come i sindacati diminuisce. L’economia digitale si espande e modifica completamente la natura del lavoro. Si approfondisce la separazione tra città ricche di lavoratori altamente qualificati e periferie industriali al collasso. In un tale contesto, quale dovrebbe essere la base elettorale delle socialdemocrazie, se il suo elettorato di riferimento scompare?

Un altro elemento di riflessione ce lo suggerisce Simon Hix, docente alla London School of Economics. Hix parla di una crescente divisione tra elettori creativi, liberal, aperti alla dimensione internazionale in città come Londra, Copenhagen e Berlino e gli elettori delle città industriali e portuali come Rotterdam, Malmö o Lille, elettori sempre più conservatori e nazionalisti. Alcuni esempi di questa tendenza si possono facilmente ritrovare: come il successo elettorale Emmanuel Macron a Parigi dove le sue capacità (e la fortuna) hanno consentito al suo movimento politico di attirare gli elettori tradizionali del Parti Socialiste e i moderati di centro e di centrodestra. Oppure il caso dei laburisti olandesi: alle elezioni del 2012 il PVDA, il partito laburista olandese, scese dal 25% al 10% dei voti. Dove finirono quei voti? Nelle grandi città e nelle città universitarie quei voti finirono a D66, un partito social-liberale di imprenditori e professionisti, e ai Verdi, ambientalisti e libertari. In città invece con forti tradizioni operaie, come Rotterdam, quei voti perduti dai laburisti andarono al populista Geert Wilders. Se da un lato, gli elettori della classe media diventano sempre più social-liberali, le classi popolari si spostano verso posizioni più conservatrici. E poi si deve aggiungere la scarsissima capacità di attrazione dei giovani. Lo si è ripetuto più volte anche a proposito del Partito Democratico in Italia, che ha maggiore successo nelle fasce di età più anziane mentre ha grandi difficoltà con i più giovani e con le fasce di età centrali. Se l’elettorato è così composito, come possono i partiti socialdemocratici vincere le elezioni?

Infine l’elettorato popolare è sempre più volatile. E vota il partito che di volta in volta riesce a soddisfare al meglio le sue richieste. E in effetti ci sono nuovi temi a cui la socialdemocrazia fa fatica a fornire delle risposte. Certamente il tema delle disuguaglianze. Anche se a sinistra delle socialdemocrazie si trovano altri partiti che pongono la lotta alle disuguaglianze al centro delle loro battaglie politiche. Senza grande riscontro elettorale, salvo rare eccezioni.

Eppure, forse il caso più rilevante a dimostrazione della lontananza dei partiti socialdemocratici dagli elettori è quello legato alle tematiche dell’identità: il rapporto dei cittadini con la religione, con l’immigrazione, con l’Islam. Tutte questioni che la socialdemocrazia ha spesso considerato di scarso rilievo. In “La Gauche sans le peuple” Eric Conan scrive che le classi popolari di riferimento della sinistra non sono scomparse, ma si sono ritrovate accanto ai nuovi proletari, gli esclusi, immigrati, giovani delle banlieues, i sans-papiers, gli universitari, i liceali e tutti coloro che in qualche modo hanno rivendicato uno statuto di vittima, reclamando dei diritti. Dei concorrenti per le fasce sociali di riferimento della socialdemocrazia, che si è ormai abituata a parlare in termini economici dell’immigrazione, senza discutere tuttavia dei problemi politici e culturali ad essa legati, senza considerare che esiste una sorta di erosione della coesione sociale causata dall’immigrazione stessa. Come può la socialdemocrazia rispondere quindi ai nuovi problemi dei cittadini?

La situazione è in effetti molto difficile: i partiti populisti, di destra e di sinistra, minacciano direttamente il blocco di voto dei partiti socialdemocratici. Da un lato il populismo diffonde l’idea che la risposta ai problemi sia semplice, dall’altro lato agita contro le minoranze un senso di minaccia dell’identità. E lo fa collegando il senso di impotenza di fronte alla crescita delle diseguaglianze alla perdita di uno status passato.

Se la socialdemocrazia vuole sopravvivere come partito di alternativa forte ai partiti della destra liberale e cristiano-democratica e ai partiti populisti di destra e di sinistra, deve creare delle coalizioni sociali plurali. E accettare che viviamo in un’epoca di cambiamenti culturali difficilmente modificabili (la diffusione dell’individualismo è tra questi).

La posta in gioco, come ha detto Diamanti, non è solo il destino di una storia politica gloriosa, ma il futuro stesso della democrazia rappresentativa.

La fine della socialdemocrazia? ultima modifica: 2017-09-13T07:00:46+02:00 da MARCO MICHIELI
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