C‘era una volta il cinema all’aperto. E Venezia se la giocava con Massenzio. Ricordate? Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta del secolo scorso: l’estate romana, il vulcanico assessore Renato Nicolini, l’immaginario – se non proprio l’immaginazione – al potere, una nuova leva di operatori culturali (gli assessorati, prima, erano alle “belle arti”) e di critici disinvolti, non più fedeli alla linea, capacissimi – succedeva con Enzo Ungari alle proiezioni di Mezzogiorno/Mezzanotte della Mostra di Lizzani – di coniugare Ejzenštejn e Spielberg. E le polemiche a non finire sull’effimero, un derby tutto a sinistra, giocato tra “eventisti” e “permanentisti”.

Renato Nicolini e Claudio Villa alla manifestazione anti fastfood, Roma 20 aprile 1986
In altre parole, tra i fautori dei fuochi d’artificio, dell’evento appunto, e quelli più propensi a mettere radici nel quotidiano, modificando in profondità regole e strutture dell’offerta cinematografica, proprio mentre la nozione di cinema d’essai cominciava ad affacciarsi anche da noi (primo grande successo di pubblico “Il matrimonio di Maria Braun” di Fassbinder, 1979, distribuito dall’Academy di Manfredi e Vania Traxler). Tutto questo, naturalmente, prima che arrivassero l’edonismo e il glamour, Berlusca, le veline e i tronisti, i red carpet e le paginate sulle mutande di questo e di quella. Altri tempi insomma.

La basilica di Massenzio, Estate romana, 1977
Non era inizialmente ben visto, quel cinema all’aperto, da distributori ed esercenti. Concorrenza sleale, dicevano, con riferimento agli interventi pubblici, comunque declinati. Poi il potere dei numeri e la consistenza degli incassi indussero l’industria a più miti consigli. In fondo, nel paese dell’eterno lungo sonno cinematografico estivo, che si protrae sino ai giorni nostri, erano pur sempre bei soldini quelli procurati dalle copiose “riprese” e dalle rare anteprime nelle arene di comuni e associazioni.
A Venezia, in quel di San Polo (e alternativamente Sant’Angelo), si era giunti a lambire le sessantamila presenze nel 1987, cifre da capogiro se rapportate al numero degli abitanti e al minimo storico toccato nelle ultime edizioni (estate 2013, poco più di tredicimila presenze). Ne valeva ancora la pena? Non per la boccheggiante giunta di centrosinistra di quegli anni, sempre alle prese con faticosi bilanci provvisori e minacciosi disavanzi. Nel 2014, un anno prima di scivolare con il suo sindaco sullo scandalo Mose e sparire dalla circolazione, forse per un bel po’, non trovò di meglio che tagliare il budget del suo ufficio cinema, peraltro in pareggio grazie alle consistenti entrate di biglietteria. Tenuto conto che “quel” cinema all’aperto non era – né sarebbe ragionevolmente potuto tornare ad essere – competitivo come un tempo, restavano pur sempre altre opzioni, logistiche e di programmazione, tentando di aprire nuovi cicli.

L’arena a Campo San Polo
Non ce ne fu il tempo né, soprattutto, la voglia: un fastidio in meno, devono aver pensato a Ca’ Farsetti [sede del Comune di Venezia]. Il resto è storia recente: il congelamento commissariale, quindi l’arrivo del nuovo sindaco, all’insegna del tradizionalissimo ma sempre efficace “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Come? Lui solo lo sa, al pari di ogni altra cosa…
Eppure di “quel” cinema all’aperto resta nostalgia in città. Prova ne sia il vistoso successo incontrato dalla provocatoria proiezione volante di “Yuppi Du” proprio a San Polo lo scorso 28 agosto, organizzata in fretta e furia da una delle più vivaci associazioni cittadine, il Gruppo 25 aprile, e dalla martoriata Municipalità del centro storico, in regime di assoluta autogestione. Duemila persone, narrano le cronache, con careghe e scagnei da casa, cittadini festanti e orgogliosi di riappropriarsi almeno per una sera di quel loro “bene comune”, il cinema all’aperto. A futura memoria, per un ripristino alla prima occasione. Senza se e senza ma, come s’usa dire oggi. E magari “com’era e dov’era”, in una città dove la conservazione è quasi d’obbligo. Almeno a parole.
Raccontava il semiologo francese Roland Barthes che quando diceva “cinema” il pensiero andava alla sala prima ancora che al film. Buio in sala. Vaglielo a spiegare alle generazioni nel frattempo cresciute su tablet, play station e telefonini. Perché la forma cinema è nel frattempo esplosa nelle galassie dell’audiovisivo, più che altro intrattenimento, magari persino compulsivo. Virtual Reality, cinema interattivo, cinema diffuso, street cinema. Diritti e permessi a parte, oggi si proietta ovunque in giro per le città.
Sere fa, invitato dall’amico Mario Santi a una di queste proiezioni nel plein air di campo San Giacomo, parlavo esattamente dell’opportunità degli schermi diffusi alla cinquantina di spettatori convenuti dinanzi al piccolo schermo prospiciente la Vida, ex Teatro anatomico, reclamato dai cittadini come bene comune (per farne un centro di cultura etnografica) piuttosto che sul mercato per l’ennesima finta osteria, con relativo ampio uso di plateatico, come pare intenzionata la Regione Veneto, proprietaria dell’immobile, dopo qualche timida iniziale concessione.
Cinema diffuso in campi e campielli, insieme a musica, teatro, reading e quant’altro, per ribadire che la città è di tutti, non soltanto di chi lucra sul turismo, salvo poi piangere (o fingere di piangere) sulle glorie del passato. E per vedere, nello specifico, se il cinema all’aperto, diversamente modulato e orientato, sia ancora in grado di produrre socialità, primo vero presupposto di cultura. Credo di sì. Così era San Polo, del resto, e così era Massenzio, negli anni in cui incombeva il terrorismo e la gente stentava ad uscire di casa la sera, cercando e trovando in quel riunirsi collettivo, davanti ad uno schermo, la voglia di andare oltre. Non solo cinema, non solo film.

Una cena per la Vida, campo San Giacomo, 16 luglio 2017
A Venezia, poi, la vivacità del tessuto associazionistico e la moltitudine di occasioni di incontro costituiscono un presupposto formidabile. Anche se tali considerazioni non giustificano affatto l’ulteriore latitanza culturale, a Venezia, dell’odierna amministrazione comunale, che dopo aver fatto fuori le municipalità, messo in ginocchio le cosiddette biblioteche quartierali e dismesso l’uso pubblico degli spazi solitamente a disposizione (San Tomà, CZ95, San Leonardo ecc.) non può certo cavarsela limitandosi a “tollerare”, bontà sua, l’esuberanza associativa cittadina. O tutt’al più distribuendo qualche patrocinio (rigorosamente “non oneroso”) nell’ambito del gran calderone delle “città in festa”. Avanzi e realizzi proposte, se ne ha e ne è capace (le competenze non mancano), al di là delle promozioni estemporanee d’occasione (Dunkirk all’Arsenale, per intenderci). E pensi magari ad istituire uno “sportello cultura” per facilitare le numerose associazioni in materia di autorizzazioni, permessi e quant’altro previsto dalle normative vigenti.
Non sarebbe poi male destinare una quota della “favolosa” tassa di soggiorno, con appositi bandi e criteri di assegnazione, a chi produce davvero cultura in città. Mica c’è scritto da nessuna parte che a godere di sovvenzioni pubbliche debbano essere soltanto i soliti noti, enti e istituzioni di celebrata nomea.
Ultima raccomandazione: va massimamente tutelata la sacrosanta autonomia culturale di ciascuno. La puzza di regime finirebbe altrimenti per inquinare anche le buone intenzioni.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Come non concordare? Mi sono permesso di riprenderlo in FB,, nella sua integrrità