Barcellona sfida Madrid. Il gioco si fa duro

Il governo della Catalunya, con una legge ad hoc, ha indetto per il primo ottobre un referendum. Non per rendere ancora più federale lo Stato spagnolo: l’obiettivo è la secessione. E quali rapporti ritessere con la Spagna e come collocarsi nell’UE, si vedrà poi.
ALDO GARZIA
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Barcellona sfida Madrid. Il governo della Catalunya, approvando una legge ad hoc, ha indetto per il primo ottobre un referendum per decidere l’eventuale separazione dalla Spagna (sarebbe meglio dire “secessione”) della regione che raccoglie sette milioni e mezzo di cittadini.*

Il governo nazionale e la Corte costituzionale non riconoscono questa decisione e hanno iniziato a boicottare la scadenza referendaria. I sondaggi dicono che il “no” al divorzio prevarrebbe di pochissimo (sono molti gli immigrati da altre regioni spagnole). Intanto è in atto una guerra giuridica aspra che potrebbe degenerare. I secessionisti più radicali chiedono addirittura che la polizia nazionale abbandoni la Catalunya. Il governo fa perquisire le tipografie che potrebbero stampare le schede elettorali, ricordando che funzionari e sindaci interessati coinvolti nella preparazione del referendum sono dipendenti dello Stato e devono rispondere a un codice di comportamento conseguente.

Se il muro contro muro continuerà, come è prevedibile, i secessionisti trasformerebbero stadi e “plazas de toros” in mega luoghi elettorali. Potrebbe essere mobilitato pure l’esercito con funzioni dissuasive e deterrenti. La miccia prenderà fuoco? Sbagliano perciò i media a occuparsi poco di questo conflitto, come sbaglia l’Unione europea a mantenersi neutrale: cosa farà se prevarrà la secessione? Il riesplodere virulento dei nazionalismi e dell’idea delle “piccole patrie” è ulteriore sintomo della crisi del progetto di Europa politica e inclusiva fatta non solo a base moneta unica e di parametri economici di compatibilità.

Giunge così a parziale conclusione, con esiti imprevedibili, la contorta storia dei rapporti che hanno caratterizzato le relazioni tra Madrid e Barcellona in quarant’anni di ritrovata democrazia. Altrettanti decenni di dittatura di Francisco Franco avevano represso ogni velleità identitaria dei catalani, che non potevano parlare la loro lingua e usare i colori rosso e giallo della propria bandiera regionale.

Già dopo la morte di Franco ci furono oceaniche manifestazioni che rivendicavano l’identità della Catalunya. Dai governi di Felipe González dei primi anni Ottanta in poi si è fatta però molta strada sul terreno dell’autonomia sul modello delle nostre regioni a statuto speciale e oltre: insegnamento del catalano nelle scuole, trasmissioni tv in catalano, semplificazioni e agevolazioni economiche, poteri legislativi regionali, eccetera.

Ma la febbre separatista è andata crescendo negli ultimi anni fino alla pressione secessionista degli ultimi mesi. Le forze politiche indipendentiste sono andate al governo radicalizzando via le proprie posizioni e rendendo marginali socialisti e popolari. Solo quest’ultimi, più i centristi di Ciudadanos, ritengono disastrosa l’ipotesi del referendum e della separazione. Podemos, in nome della propria concezione della democrazia partecipata, non demonizza il referendum e le sue conseguenze.

Il problema è che non è in ballo una riforma per rendere ancora più federale lo Stato spagnolo: l’obiettivo dei referendari è la secessione, in seguito si vedrà – dicono – quali rapporti ritessere con la Spagna e come collocarsi nell’Unione europea.

In Europa c’è solo il precedente della Cecoslovacchia, che si divise in Repubblica ceca e Slovenia nel 1992 con una decisione presa dal Parlamento nazionale in modo concordato. Poi c’è la storia sofferta delle repubbliche ex sovietiche ed ex jugoslave. Il caso spagnolo, nella parte tradizionale dell’Europa comunitaria, risulta inedito per il diritto internazionale: è una vicenda da manuale da studiare e seguire perché potrebbe essere imitato (Scozia, Irlanda, Paesi baschi, ecc.). Chi parla di “diritto all’autodeterminazione” dimentica in quali situazioni quel diritto viene legittimato dalle istituzioni internazionali: dittature, non rispetto dei diritti umani, tentativi di neo-colonizzazione, eccetera. Che c’entra la Catalunya con tutto ciò? Il nazionalismo catalano pensa alla propria regione come a uno Stato, pur facendo parte da secoli della Spagna.

Elise Gazelgele (CTXT)

C’è intanto chi si esercita su futili scenari futuri. Per esempio, in che campionato di calcio giocheranno Barcellona e Real Madrid? La nazionale che è stata campione del mondo nel 2010 si chiamerà ancora Spagna? Josep Borrell, ex ministro del Psoe, esponente di prestigio della sinistra catalana, ha invece curato un libro molto serio (“Escucha, Cataluňa. Escucha, Espaňa”) dove si raccolgono alcuni saggi che indagano sulle conseguenze dell’eventuale secessione. Si tratterebbe di un’avventura – è l’opinione degli autori – sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello economico. Dove sta l’errore principale di Madrid, secondo Borrell? Aver lasciato senza puntuali risposte che la litania separatista si trasformasse in atti concreti. L’illusione era che non si sarebbe giunti a un possibile strappo con il referendum del primo ottobre. La realtà ha superato l’immaginazione.

*La Catalunya è la regione più popolosa della Spagna dopo l’Andalusia e ha anche il maggior pil regionale del paese con 212 miliardi di euro (il 19 per cento della produzione nazionale)Prima regione industriale nel contesto spagnolo, la Catalunya è considerata uno dei quattro motori dell’Europa, insieme a Baden-Württemberg, Lombardia e Alvernia-Rodano-Alpi. 

Barcellona sfida Madrid. Il gioco si fa duro ultima modifica: 2017-09-15T16:40:24+02:00 da ALDO GARZIA
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