Il mondo al tempo del sovranismo nazionalista. Ovvero: come è crollata l’illusione di una governance mondiale democratica e inclusiva, fondata sulla valorizzazione e il rafforzamento degli organismi sovranazionali (Onu, Ue, Nato…) e su una condivisione negoziata per la sicurezza.
Il multilateralismo doveva essere l’asse du cui un mondo sempre più interdipendente si ridefiniva dopo la fine dell’epoca della Guerra fredda e del bipolarismo Usa-Urss. Doveva. Perché la realtà è ben altra. Oltre la realpolitik. Un sodalizio tra sovranisti e dittatori. In spregio dei più elementari principi democratici, di cui pure l’Occidente continua ad ammantarsi. Questa estate di scempio di legalità, di vittime trasformate in ingombri umani da rispedire indietro a forza, di lupi solitari che si fanno strumento di morte in nome di una Jihad che altro non è che nichilismo senza speranza.

Donald Trump
Oggi la “guerra al terrorismo” jihadista e il contenimento forzoso dei migranti tendono a giustificare e coprire ogni ignominia, a occultare verità scomode, a ridurre fenomeni complessi a un’unica dimensione: quella della sicurizzazione. Ma affari e geopolitica non spiegano tutto. C’è anche altro. C’è il riconoscersi tra simili: Erdoğan, Trump, Putin, Orbán, al-Sisi…
C’è una visione dei processi democratici che tende sempre più a mettere tra parentesi i diritti delle minoranze, la libertà d’informazione, l’agibilità delle piazze, riducendo la “democrazia” all’esercizio del voto, non importa in quali condizioni esso avvenga. Una mera formalità che assume la forma e la sostanza di una dittatura della maggioranza. Una certa pubblicistica internazionale ha presentato Donald Trump come un “isolazionista”. Niente di più sbagliato. Perché il presidente Usa non è un “isolazionista” ma un convinto nazionalista pronto a minacciare l’uso della forza (nel braccio di ferro nucleare con la Corea del Nord come nell’infuocato Medio Oriente o in Afghanistan) ogni qual volta gli interessi americani vengano messi in discussione.
Questo significa “America first”: non la definizione di una nuova governance mondiale, che tenga in qual conto le alleanze tradizionali, ma l’affermazione, con ogni strumento, della potenza americana. La guerra può essere declinata in vari modi: guerra sul campo (Corea), guerra dei dazi (Cina), guerra dei muri (Messico). E in alcuni casi i vari piani delle guerre possono coincidere: è il caso nordcoreano.

Vladimir Putin
Per contrastare le provocazioni missilistiche di Kim Jong un, Trump ha anche minacciato di bloccare ogni scambio commerciale con “tutti i Paesi in affari con Pyongyang”. The Donald ha evitato di citare Pechino ma non è certo un segreto che la Cina riceve il novanta per cento dell’export nordcoreano. Sarebbe una guerra commerciale devastante: i cinesi sono i primi partner commerciali degli Usa, con un export da 40,1 miliardi di dollari al mese, ma anche gli americani esportano per 150,4 miliardi di dollari l’anno in Cina.
Sarebbe la recessione globale.
Trump ha tradotto in azione la sua odiosa campagna elettorale xenofoba – si legge nel Rapporto 2017 di Amnesty International – firmando decreti per impedire ai rifugiati di ottenere il reinsediamento negli Usa e per vietare l’ingresso nel Paese a persone in fuga dalla persecuzione e dalla guerra.

Viktor Orbán
Secondo Amnesty, dopo la “velenosa campagna” del presidente americano il mondo è diventato “un posto più buio e instabile”. E l’America un Paese sempre più divisivo al proprio interno. La riprova è la decisione presa da Trump di abrogare il programma “Dreamers” voluto da Barack Obama Il programma, che riguarda circa 800mila ragazzi, concedeva un permesso ai giovani arrivati negli Usa da bambini assieme a genitori illegali, e gli permetteva di lavorare e studiare in America.
Su questa lunghezza d’onda (autoritaria) c’è totale sintonia tra il “tycoon” americano e lo “zar” russo. Cosa sia per Vladimir Putin il rispetto dei principi democratici, lo sanno molto bene gli oppositori incarcerati. La Russia dello “zar” è un Paese in cui fare il giornalista, l’attivista o far parte dell’opposizione politica è considerato un atto eroico, destinato a durare poco. Sono tantissime, infatti, le morti sospette e “casuali” attribuite ai poteri forti, le cui vittime non avevano fatto altro che denunciare attività illecite o criticare il governo, direttamente o indirettamente. Boris Nemtsov politico d’opposizione; Anna Politkovskaya, giornalista investigativa; Anastasia Baburova, giornalista investigativa e attivista per i diritti umani; Stanislav Markelov, avvocato del giornale presso cui lavorava la Baburova; Natalia Estemirova, attivista per i diritti umani: sono solo alcuni nomi delle vittime di un sistema basato su una dittatura che schiaccia la libera espressione e il libero pensiero.

Jarosław Kaczyński
Nel sovranismo nazionalista tutto si tiene: l’uso della forza (interna ed esterna) diviene norma, la Casa Bianca come plancia di comando per scatenare conflitti incontrollabili, il Cremlino come centro di un inattaccabile potere autocratico. A unire i sovranisti è la granitica convinzione che la diplomazia degli affari, per imporsi, deve fare scempio della “diplomazia dei diritti”, anche se questo significa alimentare conflitti, destabilizzare il pianeta, mortificare le minoranze interne, seppellire libertà e diritti ( politici, sociali, umani), lisciare il pelo ai suprematisti bianchi o rinverdire i fasti dell’impero zarista chiamando a raccolta, e a volte (Crimea, Ucraina) alle armi, le minoranze russe sparse nell’ex impero sovietico.
L’appartenenza etnica ricrea comunità oltre i confini statuali con l’obiettivo, non dichiarato ma praticato, di ridefinire quei confini in rapporto all’etnia (in questo c’è una inquietante similitudine con la suggestione del “califfato” islamico, che va ben al di là della pratica terroristica di Abu Bakr al-Baghdadi).
In questo contesto, l’Europa scimmiotta, farfuglia, succube dei “sovranisti” che da Est tengono in ostaggio Bruxelles, a cominciare dal premier xenofobo ungherese, Viktor Orbán, e dal suo sodale polacco, il clerico sessuofobo Jarosław Kaczyński, l’uomo forte di Varsavia. A Ovest, a farsi strada sulle macerie politiche dell’Unione, è il sovranismo franco-tedesco dell’M2 (Macron&Merkel). La visione neo-imperiale di Erdoğan, come quella di Putin, così come “America first” di Trump, proiettano ombre sinistre sul pianeta. Sulla Sponda Sud del Mediterraneo, l’Europa più che interlocutori cerca “gendarmi” che blindino, non importa come, le frontiere esterne. È accaduto con Erdoğan, si ripropone con al-Sisi, il sovranista all’ombra delle Piramidi.

Abdel Fattah al Sisi
Il generale-presidente egiziano esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, ministero degli interni (e l’Nsa, la National Security Agency) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).
Il Gis è di gran lunga la struttura più ampia della rete di intelligence egiziana. Non vi sono fonti che certifichino le sue dimensioni e la sua organizzazione interna ma, dall’incrocio di diversi dati, risulta che il principale servizio del Cairo è strutturato secondo la vecchia logica sovietica, con divisioni specializzate secondo le zone di operazioni.
Alcune strutture del servizio, come in ogni Paese, sono incaricate del controspionaggio, del supporto tecnico, delle comunicazioni. La Nsa si occupa di controspionaggio non militare, di controllo delle organizzazioni politiche e sindacali sul territorio, di sicurezza dei confini e di controterrorismo interno. Ha una larghissima rete di informatori in tutti i gangli della società egiziana e ricopre da sempre un ruolo di controllo politico della popolazione, sul quale riferisce direttamente al presidente in persona.
Annota in proposito un autorevole think-tank americano come il Washington Institute for near Policy.
Con la presa del potere da parte di al-Sisi è ripreso il conflitto tra i servizi segreti del Paese. La Sicurezza nazionale tenta di recuperare il dominio che ha avuto nell’era di Mubarak. Il Servizio militare, di cui al-Sisi è stato direttore e con cui ha stretti legami, lotta per evitare che non si pongano le condizioni per un nuovo Mubarak e una nuova Rivoluzione (…) È un conflitto non più nascosto. Bisognerà capire quanto in profondità si spingerà.
Erdoğan, al-Sisi, Putin: l’autocrazia sovranista al potere. Per imporsi, il nazionalismo sovranista deve anche svuotare di ogni autorevolezza, prim’ancora che di ogni autorità, gli organismi sovranazionali. È ciò che sta avvenendo per le Nazioni Unite, buone al massimo per dare una parvenza di legalità a decisioni assunte fuori dal Palazzo di Vetro. È il sovranismo dei muri (il Messico), delle guerre doganali, dello spettro di un devastante conflitto nucleare sul 38mo parallelo.

Recep Tayyip Erdoğan
In questo schema le alleanze sono volubili, mentre non lo è il riconoscersi tra simili, è il condividere un’idea di democrazia corazzata di coercizione. Siria, Iraq, Libia, Yemen, Afghanistan, Corea del Nord…Scenari diversi, ma con un filo rosso che li lega: i destini di popoli, nazioni, sembrano dipendere sempre più da dittatori senza scrupoli, o da patti scellerati tra signori della guerra, tribù, organizzazioni criminali e milizie jihadiste, con i loro sponsor esterni che tirano le fila.
In questo funesto orizzonte, ai vertici del potere sembra esserci spazio solo per derive identitarie, per prove muscolari, per il rigetto, violento, dell’altro da sé, per l’avventurismo militare L’allarme è scattato. E da tempo. La “campana è suonata”. Per tutti.

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