Nell’agosto 2015 le parole di Angela Merkel sulla capacità della Germania di fronteggiare l’improvvisa ondata di immigrazione oscuravano altre parole d’ordine tedesche. Ad agitare la pancia del paese era la ripresa dello slogan “noi siamo il popolo”, con cui nel 1989 la popolazione dell’ex Rdt aveva dato il colpo definitivo all’ordine europeo del dopoguerra, ma anche il “troppo è troppo”occidentale.
Questi umori sono stati invece sfruttati da Alternativ für Deutschland e messi alla base del programma con cui il partito di destra ha rotto radicalmente con la concezione di popolo e nazione egemoni in Germania dopo la fine del secondo conflitto mondiale. AfD non ha avuto paura di richiamarsi alle tradizioni del XIX secolo, respinte nel XX dalla nuova Germania in quanto ritenute responsabili della catastrofe nazista. Questo fenomeno si può ripetere a livello continentale?
Detto in termini grossolani, nell’Europa del XIX secolo si fronteggiavano due progetti di società. Da una parte, quello impregnato di romanticismo, che si richiamava allo sviluppo organico, da proteggere dal modello democratico, egualitario e rivoluzionario. L’altro puntava invece proprio a questo: la trasformazione sociale e giuridica nel senso degli ideali della rivoluzione francese. Il progetto etnico e antiegualitario opposto al giacobinismo affermava che un numero di individui, indipendentemente dalla loro quantità, legati solo da identici diritti non dà mai vita a un popolo, bensì a un branco. Questa concezione organica di popolo, stato e società come corpi naturali, si fondava su necessità culturali, etniche e biologiche che in Germania la presunta superiorità spirituale del germanesimo radicalizzava.
Oggi l’immagine dei popoli come folle introverse e variopinte, mette in primo piano i bisogni di omogeneità statale ed etnica. In caso contrario, il fantasma agitato davanti alle opinioni pubbliche del continente è quello della scomparsa dei popoli in quanto tali.
Il progetto di “melting pot” è riuscito a contrastare tali timori fino a quando la “fusione” era bilanciata dal perdurare della “dominanza” del popolo autoctono e dalla limitazione degli elementi estranei alla sua cultura. In seguito i dogmi della società multiculturale hanno ampliato la distanza tra questi due fronti. Quanto si sta verificando sotto i nostri occhi dovrebbe spingere i sostenitori della società multiculturale, in parte sta già accadendo, a dare maggior valore allo sviluppo della cultura e alla protezione del diritto delle popolazioni colpite dalle trasformazioni etniche e demografiche. A meno di voler lasciare tutto ciò nelle mani dell’estrema destra. È stata infatti la messa in secondo piano di queste esigenze alla base dell’aumento in tutto l’Occidente della xenofobia e del montare di un nazionalismo slegato se non opposto al patriottismo.
Nelle crescenti migrazioni dei nostri giorni, i sostenitori delle società culturalmente eterogenee ma contemporaneamente “egualitarie” vi vedono uno sviluppo “naturale” da accompagnare solo organicamente. Al contrario ogni passo fatto nel senso del controllo del fenomeno sarebbe “artificiale” e punterebbe a respingere un’immigrazione vitale per gran parte del vecchio continente. Chi si oppone al multiculturalismo ricorda invece come il concetto sia stato affermato per la prima volta nel 1971 dal governo canadese. Proclamando che la società è formata da etnie, religioni, costumi che vanno tutti riconosciuti e rispettati come uguali, nel 1988 il governo di Ottawa ha approvato il “Canadian Multicultural Act”. Non è superfluo ricordare come il Canada non sia mai stato uno Stato omogeneo, secondo il modello affermato nel 1649 in Europa del “sistema di Westfalia”. Col “Multicultural Act“, il Canada affermava di non essere, di non voler essere, una forma giuridica basata su una lingua comune, una cultura comune e un comune mito fondativo.
Chi si oppone al “Multicultural Act” sottolinea come i suoi principi siano stati mutuati dalla pretesa degli ambienti musicali canadesi di creare una nuova società per la quale si usava la metafora dell’armonizzazione delle note. Difficile però sostenere che esseri umani e culture siano note.
Le rappresentazioni multiculturaliste si sono potute affermare fino a quando i punti comuni di una società eterogenea non si sono dovuti seriamente misurare con le differenti origine etniche di una forte immigrazione. È per far fronte a queste tensioni che nel 2016 Berlino approvava la legge per l’integrazione. In piena tradizione liberale l’atto, “Integrationsgesetz“, lega l’appartenenza attiva e positiva alla società tedesca solamente alla lingua. Non va dimenticato che nel momento del suo massimo splendore, la filosofia multiculturalista vedeva nelle lingue nazionali lo strumento della repressione nazionalistica.
È contro questi umori che nella Germania contemporanea, come in gran parte del continente, prendono piede forze come Alternativ für Deutschland, Pegida e la Neue Rechte, Nuova Destra. Tutti movimenti che coscientemente o meno si richiamano al concetto di volonté générale del XIX secolo e definiscono il “vero” popolo non più in termini democratici, ma in contrapposizione allo straniero etnico e agli alleati di questo, le elite. Mentre la costruzione di una struttura politica europea si sta rivelando un compito ineludibile ma lunghissimo, le forze democratiche del continente hanno commesso l’errore strategico di snobbare le incertezze popolari legate al declino dello Stato nazionale. Vedere ora nell’ingresso di AfD al Bundestag solamente la riapertura della vecchia questione tedesca e non il primo momento della nuova questione europea sarebbe un nuovo abbaglio.

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