Nel suo capolavoro, Orwell scriveva: “chi controlla il passato controlla il futuro” che, tradotto, significa che chi ha il potere, manipolando la storia e l’identità di una comunità, può assicurarsi il dominio per molto tempo. Nella realtà questo concetto si è spesso trasformato nella fuorviante volontà di rileggere il passato alla luce di concetti etici e politici ad esso estranei. A mio avviso questa è la bussola da cui non distogliere lo sguardo, quando ci si trova di fronte ad un qualsivoglia tentativo di scrivere o riscrivere la storia.

Minnesota. Una petizione chiede l’abbattimento della statua di Colombo perché al suo posto sia eretto un momento alla rockstar Prince, originario di Minneapolis
Partiamo dai fatti. Con voto quasi unanime, mercoledì 30 agosto, Los Angeles è diventata la prima metropoli americana in cui il secondo lunedì di ottobre non sarà più un giorno festivo intitolato a Cristoforo Colombo. Quel giorno diventerà l’Indigenous People Day. Per la verità, Los Angeles si accoda a una crescente lista di luoghi tra cui Denver, Seattle e San Francisco e sposa, al fine, le istanze di una protesta instancabilmente condotta per molti anni dalla comunità dei nativi americani. L’idea espressa dal consiglio cittadino è quella di mandare un segnale forte a Washington e, a dispetto della comunità italoamericana che lamenta una parziale cancellazione della propria storia, con questo gesto ritiene di assolvere al dovere morale e spirituale di interrompere una vera e propria ingiustizia: la celebrazione di una figura storica responsabile di una profonda sofferenza per molte persone. Così almeno si è espresso il consigliere cittadino Mitch O’ Farrel.
Ci sono in effetti, secondo alcuni storici, evidenze che fanno pensare che Colombo e i suoi uomini abbiano tenuto dei comportamenti indegni verso le popolazioni delle Indie Occidentali e che soprattutto vedessero i territori scoperti come un possedimento da depredare senza alcun rispetto delle culture preesistenti. Tuttavia ancora più evidente è che Colombo non progettò mai alcuno sterminio di massa e che visse un tempo in cui i concetti di “diritti umani” e di “coesistenza multiculturale” non erano ancora stati pensati (non esistevano nemmeno delle parole chiave per esprimerli).

Virginia Grand Lodge, 1959. I Sons of Italy rendono omaggio al monumento in onore di Colombo nel Byrd Park
Non è poi chiaro cosa colleghi l’esploratore che cercò di buscar il levante per il ponente con i nativi nordamericani, visto che in realtà in Nord America non c’è mai stato. Ma soprattutto non torna, da un punto di vista logico, come mai, proprio ora, dopo secoli di presenza delle sue statue nelle strade delle principali città americane e anni di festeggiamenti celebrativi della sua figura, ci si accanisca contro quest’uomo del XV secolo. Tanto più che il navigatore genovese non è più solo un bersaglio dei nativi americani, ma negli ultimi tempi è stato fortemente attaccato da molti comitati antirazzisti, uno su tutti il celebre Black Lives Matter, che ne hanno imbrattato e vandalizzato le statue in diversi luoghi degli States. Emblematica la celebre foto di Detroit che ha recentemente occupato le pagine dei principali quotidiani. Ed è qui che arriva il punto più interessante. È molto probabile che il consiglio cittadino di Los Angeles, destituendo Colombo dall’essere un patrimonio comune, avesse in mente più il valore che questi ha assunto rispetto alla questione razziale in senso lato, piuttosto che il quadro del suo rapporto con i nativi. Ma Colombo con il razzismo cosa c’entra?

Santo Domingo, Repubblica Domenicana, il monumento che custodirebbe i resti di Cristoforo Colombo
Per capirlo si deve fare un passo indietro.
Negli ultimi mesi una scossa ha fratturato irrimediabilmente il fragile terreno, reso ancora più fragile dai toni accesi della campagna elettorale, dei controversi intrecci della storia americana. Le tensioni irrisolte della questione razziale, si sono canalizzate in un’aperta battaglia sui monumenti e le statue commemorative del sud confederato, visti da alcuni come il simbolo transtemporale del suprematismo bianco e da altri, al contrario, come le tracce di una componente della storia americana.
In particolare il dibattito si è infiammato lo scorso 12 agosto, quando in opposizione alla rimozione di una statua del generale sudista Robert E. Lee, nella città di Charlottesville, i suprematisti bianchi convocarono una manifestazione che, come noto, finì nella violenza e una ragazza, Heather Heyer, che partecipava alla contromanifestazione dei comitati antirazzisti, perse la vita uccisa da un membro dell’ultradestra.

Manifestazione “confederale” nei pressi del monumento per il generale Lee a Richmond lo scorso 16 settembre
A partire da questa data, alimentato dall’ambigua posizione presidenziale sui fatti di Charlottesville, quello che era già un movimento in crescita, è dilagato e si sono abbattute – con il favore delle autorità locali o come forme di protesta autonoma – le rappresentazioni equestri del generale Lee, di “Stonewall” Jackson e molti altri. C’è però qualcosa di controverso nelle azioni dei nuovi iconoclasti: l’accusa principale mossa ai confederati di pietra sono il razzismo e il suprematismo. In realtà schiavismo e razzismo sono cose molto diverse. I nordisti ad esempio non erano schiavisti, o meglio alcuni lo erano fino a un centinaio di anni prima (ma effettivamente non erano ancora propriamente nordisti), ma erano razzisti tanto quanto i loro nemici degli stati del sud. Cosa che la storia d’America dalla fine della guerra di secessione agli anni ’70 (almeno) del XX secolo ha dimostrato e che per certi versi ancora oggi si può notare. Lo schiavismo è un perverso modello economico che nella storia ha però trovato diverse applicazioni in diverse epoche a prescindere da questioni razziali (si pensi agli egizi, ai greci, ai romani, alla servitù della gleba ecc.). Per quanto sbagliato lo schiavismo fosse, nessuno intende abbattere le piramidi o distruggere il Colosseo. Ma torniamo alla domanda iniziale: cosa c’entrano i confederati, lo schiavismo e il razzismo con Colombo? In realtà nulla. A dare un’occhiata alla cronaca, però, si direbbe il contrario.
Poco più di una settimana dopo i fatti di Charlottesville, a Baltimora, quello che si ritiene essere il più antico monumento dedicato a Colombo negli Stati Uniti (un’opera del 1792) veniva deturpato a martellate in un’azione ripresa e postata dall’orgoglioso vandalo su YouTube. Il gioco era fatto. Presto infatti, con una mossa rapida, i movimenti, appoggiati e legittimati dall’universo liberal, hanno scelto di alzare il tiro e passare all’attacco di un simbolo più trasversale e rilevante dei vecchi confederati, hanno mirato a uno dei pilastri della nazione. È Colombo, lo scopritore dell’America (lasciamo per un momento perdere il fatto che non è mai stato in Nord America), un bianco colonialista ante litteram, discriminatore e sterminatore di indigeni? Una sorta di peccato originale fondativo?
La loro risposta è un sì che non lascia spazio a dubbi. Iniziano così a proliferare nel paese abbattimenti, vandalismi e dibattiti. La direzione è chiara: Colombo sembra diventare giorno dopo giorno il nemico pubblico numero uno. A New York sull’onda della crescente pressione, la statua del navigatore che torreggia sul Columbus Circle è stata messa sotto inchiesta di revisione dal sindaco italo-americano de Blasio che si riserva di deciderne la rimozione. Ma per capire quanto il terreno della storia statunitense sia scivoloso, basta ricordare che la stessa città di New York debba il proprio nome al duca di York James Stuart, poi re James II, che ebbe un ruolo primario nella direzione della Royal African Company che si occupava specificamente della tratta di schiavi.
Il cuore della partita è tutto qui. Il problema ha come suo fondamento la poliedrica natura della nazione americana e la stratificazione delle intolleranze e violenze su cui si è via via costruita. Schiavismo, razzismo, colonialismo, sterminio, sono i mattoni oscuri alla base della storia degli Stati Uniti. Come fare i conti con questo ingombrante passato?

Il monumento a Colombo al centro di Columbus Circle, Manhattan, NYC
Cristoforo Colombo, anche se non ha direttamente a che fare con questi temi, è suo malgrado diventato un simbolo. Per i suoi detrattori rappresenta un’America bianca e imperialista, quell’America generata dalla prima ondata di immigrazione europea, conseguente – seppure in modo indiretto – alla rotta tracciata dall’esploratore genovese. Un paese in cui le minoranze sono considerate un elemento marginale e a tratti un problema, per alcuni addirittura un nemico. In questo modo l’esploratore è diventato oggetto di una catarsi che anche parte dell’establishment sembra essere pronto ad accettare senza troppe difficoltà. Condannare Colombo, in qualche modo, per gli eredi dei padri pellegrini, assolve le generazioni di coloni che proliferando hanno realmente sterminato i nativi e che hanno – sudisti o nordisti che fossero – prodotto le discriminazioni e la società le cui contraddizioni sono oggi particolarmente acuminate e spinose. Rimangono però dei difensori di Colombo e di ciò che rappresenta. E non si tratta di suprematisti o revisionisti. Anzi, tutt’altro, per questi, al di là delle controversie, egli è simbolo di alcuni valori fondamentali statunitensi, che poco hanno a vedere con le etnie e con le identità. Si tratta dell’intraprendenza, del coraggio, dell’apertura al nuovo, della capacità di guardare oltre e giungere per primi a nuovi orizzonti. Un modus vivendi et cogitandi che potrebbe essere semplicemente americano, a prescindere da tutto, così come è stato americano – a suo modo, secondo questa interpretazione – l’italiano Cristoforo Colombo. Dividere però è sempre più facile che unire e per il momento martelli e considerazioni imprecise e banalizzanti sembrano avere il sopravvento.

Il monumento a Colombo, a Chicago
Ecco lo scenario in cui in questi mesi va traslandosi, in una battaglia nella storia, la battaglia per l’America di domani, in bilico tra le proprie contraddizioni e le proprie tensioni sociali irrisolte. Volta a liberarsi dai propri fantasmi e dalle proprie ingiustizie, ma sull’orlo di infrangersi nei mille frammenti che la compongono, senza più possibilità di riunirsi. Si cerca di costruire un’opzione sul futuro combattendo una battaglia nel passato, tralasciando ciò che di storicamente rilevante c’è in esso ed esasperandone le connotazioni politiche, giudicando uomini del XV (o anche del XIX) secolo con criteri del XXI al fine di dipanare intricati equilibri contemporanei, rischiando però non solo di radicalizzare lo scontro in essere – già di recente pericolosamente acuito – ma soprattutto minando ogni traccia della propria storia riducendola a un deserto di risentimento in cui sarà per tutti difficile riiniziare a costruire qualcosa. Indipendentemente dalle buone o dalle cattive intenzioni.

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