Govern e gobierno. Il re e la Ue. Il dopo-referendum

Dopo la consultazione di domenica la Spagna è davanti al bivio del riaccendersi dello scontro tra nazionalismi o dell’imboccare un cammino diverso che riporti la politica al dialogo e alla responsabilità.
ETTORE SINISCALCHI
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Domenica la Catalogna ha votato, in una giornata convulsa e difficile che si è, fortunatamente, conclusa senza che avvenissero fatti drammatici ed irreparabili. Il Sì ha vinto ma il risultato era scontato, in quella che in nessun modo può essere definita una consultazione popolare democratica e garantita rappresentando però un avvenimento politico di prima grandezza, nel difficile momento che vive la democrazia spagnola.

Dalla prova di forza, tenacemente ricercata dai due esecutivi oltre ogni ragionevole dovere di responsabilità politica, esce vincitore il presidente del govern catalano, Carles Puidgemont, mentre il presidente del gobierno spagnolo, Mariano Rajoy, viene
pesantemente sconfitto. L’esecutivo nazionale si era impegnato a impedire lo svolgimento della consultazione. Il voto invece c’è stato. Partecipato, pacifico, imparabile. Alla sconfitta politica si aggiunge il grave colpo subito dall’immagine internazionale, certamente non calcolato da Madrid. Le brutalità poliziesche hanno fatto il giro del mondo, la stampa internazionale le ha fortemente stigmatizzate, valga come esempio la definizione di “vergogna d’Europa”, che ha campeggiato per buona parte della giornata come titolo principale nella home page della rete televisiva statunitense Cnn, citando le parole del presidente della Generalitat, Carles Puigdemont.

La brutalità è stata innegabile, ottocento i feriti che si sono rivolti ai servizi sanitari della Generalitat, ma in altri casi il sangue freddo degli agenti davanti a episodi di provocazione, e il senso di responsabilità di singoli comandanti in campo delle operazioni, oltre al grande senso civico dei partecipanti al voto, hanno fatto sì che la giornata arrivasse alla fine senza che avvenissero tumulti di massa o che ci scappasse il morto.

È responsabilità dei governi spagnolo e catalano aver sottoposto a questo rischio il paese e le proprie cittadinanze. È responsabilità di Madrid aver mandato allo sbaraglio, come truppe d’occupazione in un paese straniero, i propri agenti dii pubblica sicurezza. Anche nella stampa italiana in molti dicono che Madrid non poteva fare diversamente. Non è vero.

Dopo aver ottenuto la deliberazione del Tribunale costituzionale, che aveva invalidato la “Legge di Transitorietà” votata dal Parlament che istituiva il referendum, avrebbe potuto trattare la questione molto diversamente. Una volta riaffermata la potestà dello stato nella definizione del concetto di legalità e rispondenza ai criteri democratici delle consultazioni, e aver ribadito l’unità dello stato, avrebbe potuto far tenere quella che non era una consultazione popolare ma un’iniziativa politica di parte. Oltre a compiere il proprio ruolo di garante della sicurezza della cittadinanza, avrebbe levato valore politico all’iniziativa della Generalitat, lasciando campo alle contraddizioni all’interno del govern, consentendo alle forze catalane ostili al referendum di esprimere la propria posizione. Ha agito diversamente non per un errore di calcolo ma perché esprime questa cultura democratica, basata sull’autoritarismo e sul soffocamento delle dinamiche partecipative della società.

“Non voglio l’indipendenza ma non posso starmene a casa mentre colpiscono il mio popolo”

Che voto è stato?

La Generalitat ha vinto la sfida con Madrid ma l’affermazione per cui avrebbe un mandato popolare netto per l’indipendenza della Catalogna non corrisponde in nessun modo al vero. Non solo perché la consultazione era carente delle minime garanzie democratiche ma perché chi ha votato lo ha fatto per molti motivi. Chi per celebrare la democrazia, chi perché vuole la sovranità catalana, chi per reazione al muro di Madrid e poi alla repressione. Il gobierno è stato il principale aiuto dei referendari, suscitando un allarme democratico che ha ricompattato sul voto posizioni molto diverse tra loro. Dubbi e ostilità al processo indipendentista sono passati in secondo piano davanti alla dimostrazione di protervia poliziesca di Madrid.

Podemos e le liste alleate erano contrari a questo “referendum senza garanzie”. La sindaca di Barcellona, Ada Colau aveva promosso un gruppo di una settantina di sindaci catalani che hanno rifiutato l’uso degli spazi municipali. Anche gli anarchici, storicamente insediati in Catalogna e soprattutto a Barcellona, oltre a partiti e gruppi di estrazione marxista e comunista, per non parlare delle centrali sindacali, erano contrari alla consultazione, alla quale non avrebbero partecipato. Davanti all’autoritarismo dell’esecutivo il voto è diventato un’altra cosa, non più un’affermazione indipendentista-scissionista ma “una questione di democrazia”, come ha detto il leader di Podemos Pablo Iglesias.

Il paese è ora davanti al bivio del riaccendersi dello scontro tra nazionalismi o dell’imboccare un cammino diverso che riporti la politica al dialogo e alla responsabilità.

La posizione di Puigdemont, per quanto vittorioso nel braccio di ferro, non è semplice.
I soci di governo di Erc e Cup spingono per la dichiarazione unilaterale ma grande imprenditoria e finanza catalane frenano. Ieri, in una conferenza stampa alla Generalitat si è rivolto ieri al mondo. “Chiedo una mediazione con Madrid, che deve essere internazionale per essere efficace”, ha detto dopo aver chiesto il ritiro degli agenti ancora presenti nella regione (continuando a tenere alta la tensione [lavanguardia.com]).

Ha poi aggiunto che

il governo non ha deciso di dichiarare l’indipendenza ma ha ritenuto che sia giunto il momento di richiedere una mediazione, che deve essere internazionale per essere efficace. [Per poi parlare direttamente a Bruxelles:] si tratta di una questione europea, non interna. L’Ue non può girarsi dall’altra parte.

Ma il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas, ha ribadito che

è una questione interna per la Spagna [che] deve essere affrontata in linea con l’ordinamento costituzionale. [Aggiungendo che ]La violenza non può mai essere uno strumento in politica [ma che Juncker e l’esecutivo comunitario hanno] fiducia nella leadership di Mariano Rajoy per gestire questa situazione.

Un colpo al cerchio e l’altro alla botte, a coprire la sostanziale impossibilità ad affrontare una questione che rappresenta l’ennesimo scenario di crisi del progetto europeo.
Si è fatto invece sentire l’Onu, non per proporsi come mediatore ma per chiedere che il governo spagnolo apra “un’inchiesta ampia, indipendente e imparziale su tutti gli atti di violenza [un.org]” commessi durante il voto.

Con la sua dichiarazione Puigdemont sembra rilanciare il “Processismo”, in luogo della secessione.

El Procés è stato la scelta tattica del catalanismo moderato che, davanti alle inchieste che disvelano la corruzione strutturale del sistema catalano e alla crisi dei partiti e della Spagna delle Autonomie, ha scelto di cavalcare l’ondata indipendentista, per non arrivare mai all’indipendenza. Il tentativo di riformulare in termini nuovi, sotto il ricatto della secessione, la continua trattativa tra Madrid e Barcellona, conservando la propria centralità al potere.

Un’invenzione di Artur Mas, ex presidente della Generalitat – costretto ad abbandonare la presidenza catalana per l’interdizione conseguente alla condanna per l’organizzazione del referendum indipendentista 2014 (maggiori particolari qui [europaquotidiano.it] e qui [europaquotidiano.it]) – a imboccare questa strada pericolosa che contraddice la strategia che ha sempre guidato il catalanismo nei suoi rapporti con Madrid. Una scelta probabilmente sbagliata, visto che la discesa nei sondaggi pare inarrestabile e il sorpasso da parte di Erc sembra ormai cosa fatta.

L’altro protagonista di questa crisi, Mariano Rajoy, ha problemi ancor più grandi dopo la giornata di domenica. Alle difficoltà di un governo di minoranza, che resiste grazie all’appoggio provvedimento per provvedimento di Ciutatans (C’s) e del Partido nacionalista vasco (Pnv) – e anche del Psoe in alcuni casi – si aggiunge il discredito internazionale per la pessima gestione della giornata del primo ottobre.

Travolto da inchieste che disvelano un trentennio di tangenti, fondi neri e corruzione, coinvolgendolo fin nei più alti vertici e davanti alla rottura del monopolio della rappresentazione del voto di centro destra, con la concorrenza di Ciudadanos (C’s) che si consolida come realtà politica nuova. La scelta di delegare a tribunali e polizia la crisi territoriale evidenzia l’incapacità del Partido popular ad affrontare le sfide del presente, a intraprendere un percorso di modernizzazione. Ciudadanos chiede di applicare l’articolo 155 della Costituzione – che esautora le istituzioni autonomiche, sciogliendo il Parlament e l’esecutivo, dandone le competenze allo stato. Gli arancioni vedono la debolezza di Rajoy e spingono verso un’ulteriore radicalizzazione dello scontro, sperando di capitalizzare presto nelle urne a spese del Pp.

La Vaga general, lo sciopero generale, ferma la Catalogna

Ma strumentalità, irresponsabilità e inadeguatezza della politica della politica non spiegano tutto ma si sommano a un più ampio “problema spagnolo”.

Quello a cui abbiamo assistito è, anche e soprattutto, un grave sintomo della crisi che il sistema spagnolo sta attraversando. Che è comune a molti paesi – le democrazie parlamentari uscite dal dopoguerra, le istituzioni e i partiti che le rappresentano – ma ha caratteristiche specifiche della Spagna. Una crisi profonda che va avanti da tempo, di cui il movimento degli Indignados e del 15M fu forse la prima – certamente la più consapevole – anticipazione. I partiti, la corona, la magistratura, gli elementi unificanti del paese hanno perso autorevolezza e la fiducia della cittadinanza [europaquotidiano.it], che salva solo il sistema del welfare, l’istruzione e la sanità pubbliche, ritenuti la più importante conquista della democrazia.

È a questa “crisi di senso” del patto fondativo dello stato spagnolo che la politica dovrebbe dedicare impegno e energie. Il contrario di quanto fatto finora.

Disegno di Joan Brossa

Mentre tutto questo accade, il re Felipe VI, tace. Dalla Zarzuela – il palazzo dove risiede il re – proviene un silenzio che denuncia la debolezza della corona. Ma che può anche essere letto in altro modo, senza che questo contraddica i limiti della corona. In un intervento pubblico il re non avrebbe potuto esimersi dall’appoggiare il governo. Non averlo fatto può significare il tentativo di lasciare aperte altre strade. Ma tutto dipende dalle idee e dal coraggio che si ha. E da quali interlocutori si possono trovare nella politica.

Il Psoe è attraversato anch’esso davanti a un bivio, travolto da una crisi profonda. È stato veramente il “partito che più rappresenta la Spagna [@CoseIberiche]” e che del paese in trasformazione vive tutte le lacerazioni, oltre alla crisi di ruolo e progetto politico comune a molte socialdemocrazie europee. Il segretario Pedro Sánchez prova a marcare le differenze col Pp e a non essere schiacciato dalla tenaglia degli opposti nazionalismi.

Ieri ha richiesto a Rajoy l’apertura di «un negoziato immediato» con Puigdemont. Ma il recupero della vocazione federalista del partito, che il segretario suggerisce senza mai esplicitare, e che potrebbe essere la chiave per una riforma complessiva che ricomponga la crisi spagnola, o perlomeno consentire al Psoe di riprendere le redini dell’agenda politica nazionale, si scontra con gravi lacerazioni [ytali.com] e l’adesione di una forte componente interne a una cultura centralista e castigliano-andalusa che limita a quell’ambito storico-culturale l’espressione nazionale, non accogliendone davvero le differenze.

La debolezza di Rajoy potrebbe accelerare il processo. Una mozione di sfiducia porterebbe o a immediate elezioni o alla formazione di un governo alternativo, per il meccanismo della sfiducia costruttiva che limita le crisi parlamentari obbligando alla formazione contestuale di un nuovo esecutivo pena il ricorso alle urne. Gli interlocutori possibili sono i nazionalisti baschi e galiziani, le liste di Confluencia, in Catalogna, Galizia e Paese valenziano, alleate a Podemos sul piano nazionale, Podemos, gli stessi nazionalisti moderati catalani, in cerca di una via d’uscita e del recupero della centralità, sottoposti inoltre alla pressione dell’establishment economico-finanziario catalano, spaventato dalla deriva secessionista. Ma la debolezza dei protagonisti potrebbe far scegliere un’ennesima radicalizzazione. Se il govern scegliesse la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, e se il gobierno chiedesse, in risposta a questo o come iniziativa preventiva, l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, le cose si metterebbero malissimo.

Il sospiro di sollievo di un primo ottobre passato senza disastri irreparabili lascia subito il posto a nuove incognite. Al timore di un nuovo scontro istituzionale e nazionalista. Il governo, mai come ora, è debole e col futuro apparentemente segnato. Se la politica non troverà la strada nell’ambito parlamentare, sarò obbligatorio, e forse auspicabile, che il paese torni al voto. Un voto che sarà forse una riproposizione dei nazionalismi contrapposti ma che potrebbe anche dare ali al tentativo, ormai sempre più sentito, di rompere la tenaglia degli opposti nazionalismi, per avviare la costruzione di un nuovo patto che unisca le nazionalità e la cittadinanza che compongono la nazione spagnola. E che, se avesse al centro un confronto profondo su un nuovo modello di paese, risponderebbe a un bisogno di partecipazione che non è solo dei catalani e che le due recenti tornate elettorali non hanno diminuito.

Malgrado le apparenze le democrazie catalana e spagnola, così come si esprimono nelle azioni degli esecutivi, si assomigliano molto. Il govern per approvare la legge di Transitorietà che istituiva il referendum ha violato le sue norme e umiliato il diritto delle minoranze parlamentari, come il gobierno ha fatto in numerose occasioni, forte di maggioranze blindate.

L’irresponsabilità degli esecutivi ha sottoposto la cittadinanza a intollerabili rischi, ha mandato le forze dell’ordine allo sbaraglio, ha, inalberando la bandiera della democrazia, umiliato coi suoi atti il suo senso più profondo. Le sinistre spagnole e catalane dovrebbero agire in maniera coordinata per costruire un tavolo fra tutte le forze politiche, per bloccare l’indipendenza unilaterale e avviare una risoluzione del conflitto che rinneghi la violenza e esalti tutti gli strumenti della democrazia. Compreso un referendum, che può essere legale, per la Costituzione spagnola come per le norme catalane, patteggiato e teso a rendere protagonista la cittadinanza di un processo riformatore veramente democratico. La Spagna è davanti al rischio di un ulteriore deterioramento del suo sistema democratico e ha bisogno di costruire il più ampio consenso possibile per trovare un’uscita in avanti. Alla crisi catalana, come alla crisi complessiva che sta patendo.

 

Govern e gobierno. Il re e la Ue. Il dopo-referendum ultima modifica: 2017-10-03T17:19:38+02:00 da ETTORE SINISCALCHI
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