Quaranta milioni: un popolo, una identità nazionale alla ricerca di uno stato.
La Catalogna fa notizia, ma se c’è un referendum indipendentista che può modificare uno scenario regionale, è il referendum svoltosi nel Kurdistan iracheno. Perché la nascita di uno stato curdo (in Iraq) può determinare un effetto domino tale da mettere in crisi altri stati dove forte è la componente curda: Turchia, Iraq, Siria.
Quello “stato” non deve nascere: è l’imperativo categorico che unisce Ankara, Baghdad, Teheran. E Washington. Gli Stati Uniti, infatti, non hanno riconosciuto il referendum indipendentista del Kurdistan, tenutosi lunedì scorso.

Rex Tillerson
Il voto e i risultati mancano di legittimità e continuiamo a sostenere un Iraq unito, federale, democratico e prospero. Rimaniamo preoccupati delle potenziali conseguenze negative di questo passo unilaterale,
si legge in un comunicato del capo della diplomazia Usa, Rex Tillerson, diffuso dal dipartimento di stato.
La casa bianca da tempo ha un solo obiettivo: fare di tutto per unificare l’Iraq, una delle maggiori potenze petrolifere mondiali, e preservare la sua unità.

Aydar al-Abadi
Il leader su cui punta è l’attuale premier sciita Aydar al-Abadi, sicuramente più moderato del controverso leader che lo ha preceduto, Nouri al-Maliki, reo di aver messo ai margini la comunità sunnita irachena, di fatto escludendola dal potere.
Da parte sua il presidente francese, Emmanuel Macron, ha telefonato al premier iracheno, Haidar al Abadi, dopo il referendum, dicendogli che
è importante preservare l’unità e l’integrità dell’Iraq, e allo stesso tempo riconoscere i diritti del popolo curdo. Ogni escalation deve essere evitata,
ha aggiunto il capo dell’Eliseo, offrendo l’aiuto della Francia per evitare “tensioni tra Baghdad e Erbil“.
Ma la diplomazia rischia di lasciare il campo alle cannonate. Il ministero della difesa iracheno ha annunciato che si appresta ad assumere il controllo della frontiera con la regione autonoma del Kurdistan. Operazione che avverrà in coordinamento con Iran e Turchia, gli altri paesi frontalieri con il Kurdistan e che hanno fatto pressione affinché il referendum non si svolgesse.
Stamane Baghdad aveva annunciato l’invio di tre convogli di truppe in Kurdistan per assumere i controlli dei valichi di frontiera, che il governo di Erbil si era rifiutato di cedere.
Il ministero dei trasporti di Baghdad ha disposto il blocco dei voli internazionali negli aeroporti di Erbil e Sulaimaniyah, le due principali città del Kurdistan iracheno, in risposta al referendum indipendentista.
L’attuazione di questa decisione è una punizione collettiva e l’assedio del popolo del Kurdistan,
denuncia il portavoce del governo regionale, Safina Diza. Le misure adottate da Baghdad, aggiunge, ostacolano il trasferimento dei combattenti curdi feriti gravemente negli scontri con i miliziani dell’Isis, oltre a impedire l’arrivo nella regione dei funzionari di vari enti umanitari per fornire assistenza.
Anche le compagnie aeree regionali hanno reso noto che si adegueranno al bando.

Erbil
La situazione a Erbil è instabile: è accerchiata dai tre paesi che sono contrari all’indipendenza. In Iraq, i peshmerga curdi hanno occupato nel 2014, dopo la fuga dei soldati iracheni davanti all’avanzata dell’Isis, l’importante centro petrolifero di Kirkuk, da cui estrae quattrocentomila barili al giorno sui seicentomila che esporta verso la Turchia.
Baghdad non ha mai accettato questa situazione di fatto e Ankara, che teme il riaccendersi delle violenze con i suoi curdi del Pkk, ha minacciato di interrompere il flusso di petrolio dell’oleodotto Kirkuk-Cehyan sul Mediterraneo.
Dopo le esercitazioni militari congiunte tra esercito iraniano e turco ai confini con il Kurdistan, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha inasprito l’escalation verbale contro Erbil, rea ai suoi occhi di un vero tradimento alle spalle di Ankara.

Recep Tayyip Erdoğan
Rivolgendosi a Massoud Barzani, il presidente del governo regionale del Kurdistan (Krg), ha scandito, tra l’ironico e il minaccioso:
Complimenti Barzani per il 92 per cento. Ora rimani seduto dove sei, sei alla guida del nord Iraq, hai soldi, benessere e ogni cosa, hai il petrolio… Chi riconoscerà la tua indipendenza? Con 350 chilometri di confine non puoi dichiararti indipendente se non parli con i tuoi vicini e tu non hai parlato né con noi né con Teheran.
Il presidente turco ha poi intimato a Barzani di non lanciarsi in “un’avventura destinata a concludersi con una delusione”.
Ancora più dure, se possibile, sono le parole che giungono da Baghdad. E se le parole hanno un senso, quelle “sparate” dal governo iracheno assomigliano molto a una dichiarazione di guerra.
Testimonia da Erbil Adriano Sofri, profondo conoscitore della realtà curda:
Tutti i valichi di cielo e di terra fra il Kurdistan e il resto del mondo devono essere chiusi, e la merce che vi transita considerata contrabbando. I paesi limitrofi sono invitati a collaborare col governo iracheno per attuare questi provvedimenti. Il governo richiami tutti gli stati che hanno consolati nel Kurdistan perché li traslochino fuori dalla regione curda, nel governatorato iracheno più vicino (nel nostro caso, a occhio e croce direi che si tratti di Mosul…). Tutti i dipendenti pubblici curdi che hanno votato al referendum saranno perseguiti amministrativamente e giudiziariamente. I pozzi di petrolio delle “zone contese” devono essere liberati dalla presenza curda e da qualunque ente straniero o locale che non sia il ministero di Bagdad. Kirkuk dev’essere restituita alle forze armate irachene. A queste ultime si ordina di occupare Kirkuk e le altre zone contese e di attuare gli ordini suddetti…
Quella di chiudere a chiave un intero popolo più che una tentazione è un progetto in fase attuativa.

Jalal Talabani
A muovere l’esercito è anche l’Iran nelle sue aree di confine con il Krg. Teheran ha, inoltre, un altro problema di non poco conto: non può più contare come prima sul proprio uomo Jalal Talabani, colpito da ictus e in precarie condizioni di salute. Una malattia, quella di Talabani, che ha gettato il suo partito, l’Unione Patriottica del Kurdistan, uno dei due storici partiti del Kurdistan iracheno, in una gravissima crisi interna.
La proclamazione del Kurdistan iracheno, concordano gli analisti, avrà un effetto domino sui paesi confinanti, a partire dalla Siria.
Si scrive “sistema federale”. Si legge “spartizione” del fu stato di Siria. I curdi del nord della Siria si apprestano a riunirsi in un sistema federale che dovrebbe sostituire i tre “cantoni” in cui ora sono divisi: quelli di Jazira, Kobane e Afrin. Lo riferisce il sito curdo iracheno “Rudaw”, citando una fonte curda siriana secondo la quale “è imminente una conferenza a Rmelan tra i cantoni auto-amministrati di Rojava“.
Rojava (Kurdistan occidentale) è il nome usato dai curdi per le regioni del nord della Siria dove le loro milizie combattono contro l’Isis.
La nostra principale rivendicazione è il federalismo per il Kurdistan siriano, ma il congresso costitutivo che si terrà oggi mettere in chiaro ogni cosa,
ha rilanciato il presidente de TEV-DEM – movimento curdo-siriano legato al Partito dell’unione democratica (Pyd), che è il braccio politico delle Unità di difesa del popolo (Ypg, i Peshmerga), le milizie armate curde osteggiate dalla Turchia perché ritenute da Ankara l’estensione in Siria del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) – al Dar al Khalil all’emittente “Rudaw” che ha sede a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno.
La tv curda pubblica ha mostrato anche una mappa della Siria delineando i confini amministrativi della prospettata federazione curda.
È vero che noi come curdi abbiamo sofferto storicamente, ma oggi non vogliamo che la conquista dei nostri diritti siano a spesa degli altri,
ha detto Khalil rispondendo alla domanda se non fosse il caso che i curdi proclamassero la propria indipendenza dalla Siria.
Il tema dell’indipendenza ha ottenuto un enorme risonanza dentro e fuori l’Iraq, e per quanto ci siano divergenze politiche interne, i curdi sono tutti concordi sulla questione dell’autodeterminazione. La volontà dei partiti curdi di livellare le divergenze sembra un chiaro segnale verso il cambiamento e l’indipendenza è diventata una causa comune, non più portata avanti da un solo partito, ma da tutti i curdi congiuntamente…Insomma, la cartina del Kurdistan è quasi completa e la mobilitazione curda non si configura più solo come mero mezzo di pressione sul governo di Baghdad, ma come una realtà capace di aspirare ad un referendum per una causa reale,
sottolinea Shoresh Darwish, giornalista e scrittore siriano.

Soldati dell’Ypg
Sono le milizie dell’Ypg a essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai nazi-islamisti dell’Isis. Sono loro, i curdi in armi a essersi opposti per primi all’avanzata del califfato in Iraq e a condurre l’assedio alla “capitale” siriana del califfato, Raqqa.
Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Unità di protezione del popolo (Ypg), che in questi mesi hanno portato avanti una dura lotta contro il califfato.
Annota Pierre Haski, in un interessante articolo sul francese Obs, ripreso da Internazionale:
Alcuni pensano che “non sia il momento” visto che la lotta contro l’Isis non è ancora finita; altri invece temono una destabilizzazione di tutta la regione con iniziative simili prese dai curdi di Siria, Turchia e Iran, che condividono lo stesso sogno statale; lo stato iracheno infine rifiuta di perdere una parte del suo territorio, la regione di Kirkuk, ricca di petrolio e contesa tra curdi e arabi. C’è poi chi contesta il potere di Barzani e lo accusa di strumentalizzare la causa indipendentista per consolidare il suo potere contro le altre fazioni curde e rafforzare un’amministrazione caratterizzata dalla corruzione e dal nepotismo. L’autodeterminazione, dunque, implica ben più che una questione di princìpi, sui quali, dalla prima guerra mondiale, il mondo ha una posizione di relativo consenso. E ancora una volta i curdi rischiano di farne le spese, forse con il rischio di una nuova guerra.
I carri armati che accerchiano Erbil ne sono l’avvisaglia.

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