[TOKYO]
Dicono sia la “speranza” del Giappone. Si chiama Yuriko Koike, attuale governatrice di Tokyo e fondatrice del Kibo-no-to, “partito della speranza”, appunto. Ha sessantacinque anni, ex popolare e competente conduttrice televisiva, parla l’arabo meglio dell’inglese (a suo tempo intervistò Arafat, Saddam e Gheddafi) e in pubblico non ha rivali.
Specie nei faccia a faccia, dove prima disorienta e poi distrugge inesorabilmente gli avversari, più che per quel che dice, con le sue micidiali armi improprie, almeno per quanto riguarda il Giappone. Guardandoli diritto negli occhi, ad esempio, interrompendoli continuamente e, cosa che manda in sollucchero i suoi sostenitori e rende furibonde le sue vittime, ridicolizzandoli.
L’ironia, in Giappone, è un’arma davvero micidiale, più efficace dell’insulto. Pochi la conoscono, pochissimi sanno usarla. Koike è una di queste. Se lo ricordano bene i suoi avversari, quando nel lontano 2003, su mandato dell’allora premier Junichiro Koizumi, che l’aveva scoperta durante una cena mentre militava in un piccolo partito dell’opposizione, arruolandola al volo, portò a termine il compito di “assassinare” alcuni vecchi capibastone del Partito Liberal Democratico, attaccati ai loro seggi da trent’anni (in Giappone i seggi si passano di pare in figlio, in successione, come fossero proprietà private) ma che avevano commesso l’errore di schierarsi contro Koizumi e la sua storica privatizzazione del sistema postale.
Non la conosceva nessuno, allora, era semplicemente una brava giornalista attirata dai profumi e dagli intrighi di palazzo, entrata ed uscita da una decina di partiti e movimenti (e sempre sbattendo la porta). Ma sbaragliò tutti. Indimenticabile il suo rimbrotto ad un collega anziano durante un dibattito televisivo:
Lei non sembra aver fatto molto per la sua famiglia, finora. Si ritiri dalla politica, onorevole, faccia largo ai giovani e dia finalmente una mano in casa a sua moglie. Perché guardi che se decide di lasciarla è lei che ci rimette.
Due piccioni con una fava. Tolse di mezzo il povero vegliardo – che alla fine venne comunque abbandonato dalla moglie – e guadagnò consensi all’altra “assassina” reclutata da Koizumi, Kuniko Inoguchi, che da semplice deputata aveva proposto e fatto approvare una delle poche leggi a favore delle donne: quella sul “divorzio d’argento”. Se una donna divorzia dopo che il marito è andato in pensione, ha diritto, automaticamente, al cinquanta percento della stessa. Una legge che all’epoca provocò un’ondata di divorzi. Koizumi, che aveva fiutato l’importanza delle sue due “assassine”, affidò a Koike il ministero per l’ambiente, e alla Inoguchi quello, appena istituito, delle pari opportunità.

Yuriko Koike con Boris Johnson
Ma a Koike non bastava. E mentre Inoguchi abbandonò la politica pochi mesi dopo le dimissioni di Koizumi, Koike tirò dritto, decidendo addirittura di candidarsi alla presidenza del partito in cui era appena entrata, e dove non godeva certo di grandi consensi. Un fatto inaudito, senza precedenti, considerato dall’establishment – e dai media nazionali – più arrogante che coraggioso.
Intendiamoci, non perché Koike fosse una novellina, un’incapace. Perché candidarsi alla presidenza del partito di maggioranza, in Giappone, significa diventare anche presidente del consiglio. La prima donna premier nella storia del Giappone.
Non poteva succedere e infatti non avvenne. Alla votazione finale Koike prese appena trentotto voti, contro i trecentoquarantadue andati all’altro candidato, Taro Aso (attuale vicepremier e ministro delle Finanze, l’uomo che non vuole la guerra con la Corea perché altrimenti “saremmo obbligati a sparare ai profughi”).
Lei ci restò molto male e – fiutando la vita breve del governo Aso (che in effetti restò in carica meno di un anno) – cominciò a corteggiare l’attuale premier Shinzo Abe, che aveva già iniziato la sua lunga, faticosa ma alla fine vittoriosa marcia di avvicinamento al governo, coronando finalmente il sogno di sedersi dove suo padre Shintaro non era riuscito ad arrivare, e che suo nonno Nobosuke, invece, aveva ricoperto prima e durante la guerra e poi, dopo una brevissima sosta in carcere come sospetto criminale di guerra, riconquistato negli anni Sessanta, grazie all’appoggio degli americani che videro in lui, marachelle giovanili a parte, un affidabile baluardo contro il comunismo ed il pericolo di svolta a sinistra del paese.
Una scommessa vincente, perché il nonno di Abe portò a casa, il 19 maggio 1960, il nuovo, contestatissimo Trattato di Sicurezza con gli Statio Uniti manu militari: facendolo approvare nel cuore della notte in un parlamento circondato da centinaia di migliaia di manifestanti, e con cinquecento poliziotti che ne proteggevano l’entrata ma ne impedivano anche l’uscita dei deputati, di fatto sequestrati.
Una storia che pochi in Giappone ricordano (o vogliono ricordare), ma che Koike, evidentemente, conosce bene. E che probabilmente l’ha convinta a percorrere un pezzo di strada con l’ultimo rampollo della stirpe Kishi-Abe-Sato, una stirpe che assieme agli Hatoyama ha governato di fatto il Giappone per un paio di secoli e che annovera tra le sue file un po’ di tutto: criminali di guerra, politici senza scrupoli, imprenditori capaci ma anche grandi e impuniti corruttori.
Simbolo di questa controversa stirpe è senz’altro Eisaku Sato, prozio dell’attuale premier Shinzo Abe e fratellastro di Nobusuke: nel 1954, quando era segretario del partito, stava per essere arrestato per una gigantesca tangente intascata dalla lobby dei cantieri navali. Il suo mandato d’arresto, già firmato dal procuratore generale di Tokyo, venne però bloccato dall’allora ministro della giustizia Inukai “il suo arresto – comunicò il ministro al procuratore – provocherebbe una grave crisi istituzionale in un momento delicato per il paese”. Entrambi, ministro e procuratore generale, dopo pochi giorni si dimisero. Sato invece andò avanti. Nel 1964 divenne primo ministro e nel 1974 venne addirittura insignito del premio Nobel per la pace, per il suo contributo al disarmo nucleare.
E’ la storia, signori.
Ma torniamo a Koike. Appena divenuto per la prima volta premier, nel 2006 Abe mostra subito la sua riconoscenza e le affida il delicato ministero della difesa, che all’epoca si chiamava ancora Agenzia per l’Autodifesa.
Ma anche in questo caso, Koike dura poco. Appena cinquantasette giorni.
A seguito di uno scontro con un alto ufficiale dell’aviazione, accusato di essere poco patriottico e troppo succube del potere civile (il tipo, tale Toshio Tomogami, prese sul serio le critiche, dopo qualche mese si dimise e diventò il leader di un movimento revanchista che tentò senza successo di arruolare l’oramai ex ministra) decide di dimettersi da ministro e da qualsiasi altra carica all’interno del partito. Qualcuno dice per proteggersi da uno scandalo che rischiava di coinvolgerla, qualcuno altro per questioni familiari. O addirittura di cuore.
Ma qui si entra nel gossip e francamente passiamo volentieri oltre. Fatto sta che per qualche anno Yuriko Koike scompare dalla vita pubblica, anche se continua, in modo discreto, a mantenere stretti contatti con il mondo imprenditoriale e dell’alta finanza. Altro asso che difficilmente si trova nelle maniche di una donna, in Giappone.
E che la porterà, contro ogni previsione, a vincere le elezioni per il governatorato di Tokyo, sconfiggendo il candidato ufficiale del suo ex partito.
L’inciucio con il Komeito, braccio politico della Soka Gakkai
La politica è l’arte di arrangiarsi, fare e disfare alleanze, sgambetti e inciuci. E il Giappone, in questo senso, non ha da prendere lezioni da nessuno. Anzi, da un po’ di tempo è in grado di darle a tutti, Italia compresa. Dove si è mai visto un segretario di partito, nella fattispecie Seiji Maehara, appena eletto alla guida del “glorioso” PD giapponese, il partito che appena otto anni fa, dopo sessant’anni di inseguimento, era riuscito a sconfiggere la “Balena Gialla” e conquistare il potere, che prima ancora di convocare una direzione e magari dimettersi, annuncia alla stampa che si candida con un nuovo partito, appena formato, invitando tutti gli attuali deputati a seguirlo? No, nemmeno in Italia, almeno, non ancora. A Tokyo invece è appena successo, poche ore dopo lo scioglimento della Camera da parte di Abe e la nascita del Kibo-no-to, il partito della Speranza di Yuriko Koike.
Ma andiamo con ordine. Prima di spiccare il suo salto – che probabilmente non le riuscirà – verso la premiership, Koike ci prova con Tokyo. Dove essere membri di un partito, ancorché di governo e forte di una più che solida maggioranza in parlamento, non paga. Anzi. A Tokyo, oramai da molti anni, vincono i populisti. Dopo un primo, fallimentare tentativo, appoggiata ufficialmente dal suo partito, Koike fa l’ennesima piroetta. Comincia a fare la fronda contro Abe e quando quest’ultimo le preferisce un altro per le nuove elezioni di Tokyo, lei esce dal partito. Senza sbattere la porta, stavolta, in modo che, se le dovesse andare male, può sempre rientrare. Ma stavolta le va bene.
Sfruttando i malumori della base del partito Komei, il braccio politico della potente organizzazione laica buddista Soka Gakkai, che a livello internazionale combatte sacrosante battaglie per il disarmo nucleare ma che in Giappone governa da anni con il partito di Abe, sostenitore di una riforma costituzionale che contrasta profondamente con alcuni suoi principi, Koike raggiunge un accordo elettorale che risulta decisivo. E per il Tomin no to, il nuovo movimento populista che fonda per l’occasione, è un vero trionfo.
Il potente Partito Liberal Democratico perde Tokyo e Abe non è per nulla contento. Anche perché comincia a temere di perdere il posto. Oramai non è più questione di partiti, di destra, di sinistra. Ma di persone. Dal bipolarismo mancato, il Giappone sta passando al bipersonalismo populista. Il conservatore/riformatore Abe contro la riformatrice/conservatrice Koike.
Già, perché a parte la questione nucleare (Koike vuole chiudere di nuovo tutte le centrali, a differenza di Abe che sta cercando, peraltro senza riuscirci, di riaprirle) è difficile trovare qualcosa, nei rispettivi programmi, di davvero diverso e alternativo.
Persino la controversa riforma costituzionale, che Abe sta cercando di portare a casa da anni, non sembra essere a rischio, con buona pace del Komeito e dei suoi arditi equilibrismi. Se dovesse vincere Koike, verrebbe comunque approvata. Nessuno, più di lei, vuole un Giappone paese normale con forze armate legittime, non come oggi, semiclandestine.
Nessuno, più di lei, tenta di fare la voce grossa con Pyongyang, allontanando sempre di più una pace che invece il Giappone dovrebbe inseguire e realizzare prima di quella che prima o poi firmeranno gli Usa, come a suo tempo, negli anni Settanta, ebbe il coraggio di fare con la Cina Kakuei Tanaka, il premier più corrotto, ma anche più amato, del dopoguerra.
Nessuno, meno di lei, vuole riportare la politica, quella vera, fatta di anni di impegno, di militanza, di gavetta ed esperienza nei partiti e nelle istituzioni ad occuparsi e gestire il potere, oggi in mano a vecchi revanscisti, lobbisti e dilettanti senza scrupoli.
A quale gruppo appartengano Koike e i suoi nuovi adepti non è dato sapere. Ma un partito che, appena nato, anziché selezionare chi vuole candidarsi in base alle proprie idee si limita ad imporre una tassa di entrata (quindici milioni di yen per candidarsi, contro i sei che che chiede la legge per candidarsi come indipendente) non può ispirare speranza.
Semmai, disperazione.

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