In Turchia fare domande costa la galera

Sono centosettantuno i giornalisti detenuti nelle prigioni turche, sui quali pendono accuse gravissime, da pena di morte o carcere a vita. Reporter senza frontiere non ha dubbi: il paese anatolico è "la più grande prigione al mondo per chi lavora nel settore dei media".
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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I riflettori si sono di nuovo spenti sul paese che detiene il triste record dei giornalisti incarcerati: la Turchia. L’attenzione verso questo attacco frontale a uno dei diritti fondamentali, quello a una informazione libera e indipendente, sembra appassire con il cambio di stagione.

Che la comunicazione sia volubile, questo lo si mette in conto, anche se varrebbe forse la pena aprire una seria e autocritica discussione tra addetti ai lavori, ma dal mondo della politica, da chi ha responsabilità di governo, questa “dimenticanza” è inaccettabile, il silenzio colpevole, l’inazione complicità. Perché dietro questo comportamento, non solo italiano ma europeo, si cela una dose industriale di cattiva coscienza e di scelta strategica.

Recep Tayyip Erdoğan

In altre parole, non disturbare il “gendarme” delle frontiere esterne, al secolo Recep Tayyip Erdoğan. Il “sultano di Ankara” ha imprigionato oltre centosettanta giornalisti, chiuso giornali, cacciato editori, tutti colpevoli agli occhi del regime islamo-nazionalista di “minare la sicurezza dello stato”.

Come? Dicendo la verità. Svolgendo il proprio mestiere. Indagando sui traffici di petrolio orditi in tempi non lontani da uomini vicini a Erdoğan, addirittura familiari, con gli islamonazisti dell’Isis.

Quello che sta passando di nuovo in Europa è la logica, perversa, del “male minore”. In alcune zone della Turchia  fare informazione è quasi impossibile, come nell’Anatolia del sud est o ai confini tra Turchia e Siria: qui servono permessi speciali che vengono concessi con il contagocce e se si aggirano divieti e restrizioni si rischia l’arresto.

Per altro lavorare nel Kurdistan turco per la stampa è sempre stato complicato: mai è stato garantito un libero accesso dei media, al massimo c’era una nervosa e intermittente tolleranza.

Rifugiati al confine tra Siria e Turchia

Stabilito che il “male maggiore” è rappresentato dalla “invasione” inesistente di migranti, il resto viene da sé. Viene da sé chiudere gli occhi di fronte alla “grande purga” portata avanti senza soluzione di continuità da un presidente che, in nome della sicurezza dello stato e in risposta al fallito golpe dell’estate 2016, ha epurato oltre 135mila dipendenti pubblici, cacciato centinaia di accademici, professori, messo in galera parlamentari eletti liberamente…

Per essere ancora più precisi: il giorno dopo il fallito golpe del 16 luglio 2016, il governo Erdoğan ha licenziato 2.745 giudici, un terzo del totale. Non molto tempo dopo circa centomila funzionari pubblici, insegnanti e giornalisti hanno perso il lavoro.

Lo stesso schema potrebbe essere applicato oggi in Libia, come sta avvenendo in Siria con Bashar al-Assad.

La comunità internazionale è pronta a chiudere gli occhi di fronte ai crimini perpetrati da dittature feroci e da raìs sanguinari, in nome di una causa “superiore” da praticare: la guerra al terrorismo. Come dire: finché esistono criminali decapitatori come quelli di Daesh, finché è in vita Abu Bakr al-Baghdadi (come in passato Osama bin Laden), allora bisogna tenerci gli Erdoğan, gli al-Sisi, gli Assad e via elencando.

I più dotti sosterrebbero che questa è la realpolitik, che il mondo libero, per preservarsi, deve pure entrare in relazione col mondo che libero non può essere (chissà mai perché). Ci sono gli interessi nazionali, la geopolitica, gli affari. Tutto, meno che i diritti umani, civili, sociali.

Ecco allora il silenzio sui centosettantuno giornalisti imprigionati in Turchia, sui quali pendono accuse gravissime, da pena di morte o carcere a vita.

Mehmet Selim Kiraz

Il “grande censore” turco ha dichiarato  guerra alla rete, oscurando Twitter, Facebook e Youtube, prendendo a pretesto la pubblicazione sui social media della foto del giudice Mehmet Selim Kiraz, il magistrato preso in ostaggio da militanti del gruppo marxista Dhkp-c, e ferito mortalmente dalle teste di cuoio turche nel blitz per liberarlo.

Parlava di libertà, il “Sultano” di Ankara, e al tempo stesso, già  2013 si scagliava contro i social network bollandoli come una delle “più grandi sciagure dell’umanità”.

L’attacco alla libertà d’informazione, dunque, si sviluppa sistematicamente ormai da anni. A evidenziarlo con chirurgica precisione è John C. Hulsman,  tra i più autorevoli analisti internazionali, membro permanente del Council on Foreign Relations:

Dopo le proteste di piazza Taksim dell’estate 2013 e in linea con l’impressione trasmessa di voler rifuggire qualsiasi responsabilità per i mali che affliggono il paese, l’allora premier (Erdoğan, ndr) è riuscito a convincere la base conservatrice e moderatamente islamista del suo elettorato che i disordini erano stati fomentati dai media occidentali ed ebraici in giro per il mondo. La sua reazione immediata a queste manifestazioni squisitamente autoctone è stata l’invio della polizia antisommossa, che ha fatto generoso uso di gas lacrimogeni. Purtroppo la teoria del complotto è sembrata funzionare in casa, mentre è stata accolta con sdegno all’esterno, specie in Europa e negli Stati Uniti.

Ma questo è solo l’ennesimo esempio di una crescente deriva autoritaria del “sultano”. “In tutti questi casi – spiega Hulsman – la risposta di Erdogan è stata tentare di imbavagliare la stampa, riempire magistratura e servizi di sicurezza di uomini fidati e cambiare le leggi per reprimere gli sforzi investigativi”.

Il presidente attacca regolarmente la libera stampa e i giornalisti indipendenti ed escogita bizzarri tentativi di censurare internet.

Secondo le informazioni riportate dal quotidiano “Hurriyet” sarebbero centotrentuno i media chiusi perché accusati di far parte della struttura parallela del magnate e imam Fethuallah Gulen, ritenuto la mente del tentato golpe del 15 luglio.

Si tratta, nello specifico, di tre agenzie, sedici canali televisivi, ventitre radio, quarantacinque quotidiani, quindici riviste e ventinove case editrici. Tra i quotidiani chiusi spiccano i nomi di “Zaman” e “Taraf”. Il primo, in particolare, per anni è stato il quotidiano più letto nel paese. Provvedimenti, quelli assunti dal  governo di Ankara, che suscitano inquietudine nella Ue:

È preoccupante che, a seguito dell’entrata in vigore dello stato d’emergenza in Turchia, molti giornalisti siano stati arrestati e vari media siano stati chiusi… La libertà di espressione è uno dei valori fondanti dell’Ue e in questo quadro la Turchia, in qualità di paese candidato all’ingresso nell’Unione deve aspirare ai più alti standard democratici, incluso sulla libertà dei media… Il diritto al giusto processo deve essere rispettato”

ha affermato una portavoce della commissione europea.

Kadri Gürsel con l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden

Il 26 settembre Kadri Gürsel, editorialista del giornale di opposizione “Cumhuriyet”, è stato rilasciato dalla prigione di Silivri, dopo undici mesi di detenzione. Un tribunale di Istanbul ha ordinato la scarcerazione di Gürsel ma ha stabilito che altri quattro giornalisti debbano rimanere in prigione. Restano in stato di detenzione il direttore Murat Sabuncu, il giornalista Kemal Aydogdu e un membro del consiglio di amministrazione, Akin Atalay, arrestati il medesimo giorno di Gursel.

Rimangono in carcere anche i giornalisti Ahmet Sik e Emre Iper, detenuti rispettivamente 269 e 172 giorni fa. Altri sei loro colleghi sono stati scarcerati lo scorso 24 luglio, ma pende ancora su tutti l’accusa di “supporto a organizzazione terroristica ed eversiva“.

Secondo l’accusa vi sarebbe un legame tra i giornalisti e Fetullah Gulen, imam e finanziere residente negli Usa considerato la mente del golpe del 15 luglio 2016. Imputato numero uno, giudicato in contumacia, l’ex direttore del quotidiano di opposizione, Can Dundar, da mesi in Germania.

Dundar rischia una condanna dai sette anni e mezzo ai quindici anni, alla pari del direttore che ne ha preso il posto, Murat Sabuncu, i membri del consiglio di redazione Kadri Gürsel, Aydin Engin, Bulent Yener, Kemal Aydogdu e Gunseli Ozaltay, accusati di “sostegno ad organizzazione terroristica senza esserne membri“.

Se già l’anno scorso Ankara veniva classificata come “non libera” dal rapporto di Freedom House e collocata al centocinquantesimo posto su centottanta paesi nell’indice “World Press Freedom” di Reporters Without Borders, quest’anno la sua posizione è precipitata ulteriormente fino al centocinquantacinquesimo posto.

Nella breve nota esplicativa la Turchia, è definita “la più grande prigione al mondo per chi lavora nel settore dei media”, e viene detto che il governo ha utilizzato, a partire dal fallito golpe della scorsa estate, “la lotta al terrorismo come pretesto per una purga senza precedenti”.

Le autorità hanno chiuso una quantità di testate, obbligando migliaia di giornalisti e professionisti dei media ad abbandonare il loro lavoro, e hanno imposto restrizioni sui social media e sui siti web critici nei confronti del governo,

rimarca il rapporto.

Arzu Yıldız

Ci sono ordini d’arresto per almeno altri centotre giornalisti, come la reporter Arzu Yıldız, che è stata anche privata della custodia dei figli nel maggio scorso, nell’ambito della condanna che ha ricevuto per aver raccontato una spedizione di armi dalla Turchia alla Siria.

Yıldız oggi vive in esilio, come centinaia di altri giornalisti turchi. Ma il governo turco viola i suoi diritti anche in esilio, e fa la stessa cosa con Sevgi Akarçeşme, l’ex direttrice di Today’s Zaman, alla quale il governo turco ha annullato il passaporto mentre volava dal Belgio agli Stati Uniti.

Pensare e scrivere liberamente è un reato nella Turchia di oggi. Lo sa bene Asli Erdogan (nessuna parentela col presidente). Lei in carcere ha trascorso centotrentasei giorni con l’accusa di “terrorismo”.

Devo quel po’ di libertà che ho adesso al sostegno internazionale… Senza questo, probabilmente sarei rimasta in prigione e, se non fossi morta, anche per le mie condizioni di salute, sarei stata rilasciata con tante scuse solo dopo anni. Ormai lo stato di diritto non esiste più. Può accadere qualsiasi cosa. Tantissimi giudici sono in galera. Può toccartene uno di venticinque anni, che magari cerca di fare buona impressione sul suo capo, o semplicemente di non finire a sua volta sotto accusa: è molto difficile credere ancora nella giustizia. Il mio è stato uno dei casi più ridicoli e kafkiani. E credo sia un messaggio per tutti gli intellettuali: state lontani dai curdi (Asil non lo è ma si batte per i diritti delle minoranze, ndr), o vi tratteremo come loro,

sottolinea la scrittrice in una recente intervista all’Ansa.

Così la Turchia si è trasformata nella più grande prigione di giornalisti al mondo.

Putin e Erdoğan

Ricordarlo è doveroso. Come lo è registrare il rafforzamento del patto d’azione (e di affari) fra il “sultano” di Ankara e lo “zar” di Mosca. Erdogan e Putin hanno respinto il plebiscito nel Kurdistan iracheno a favore dell’indipendenza da Baghdad e arricchito, è il caso di dirlo, il patto politico con la dichiarata intenzione di realizzare il Turkish Stream e la prima centrale nucleare ad Akkuyu, nonché l’accordo sulla  fornitura dei missili S-400 russi (ma la Turchia non è nella Nato?).

E il patto d’azione si spinge in Siria: Ankara e Mosca hanno una ragione in più per sostenere Bashar al-Assad: evitare che le milizie curde-siriane dello Ypg seguano l’esempio curdo-iracheno con un referendum bis nelle aree liberate della Siria.

Una iattura per Erdogan, una sfida per Putin, un problema da rimuovere per Trump.

Tra sovranisti ci si intende, basta evitare domande imbarazzanti.

Il carcere per i giornalisti serve a questo.

In Turchia fare domande costa la galera ultima modifica: 2017-10-09T19:13:51+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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